Capita, a volte, che un autore s’intrufoli in magazzini poco sorvegliati o in sotterranei farmaceutici, e da lì rubi agenti teratogeni, flaconi che se svuotati possono indurre la materia a mutare, a sviluppare in modo anomalo vaste regioni di corpi, di narrazioni, di storie. Capita anche che, tale autore, utilizzi la sostanza mutagena per raggiungere un preciso obiettivo: ingrossare e deformare per osservare meglio, alterare e ricombinare per poter comparare e confrontare, trasformare il materiale per riuscire a stregare, attraverso la sempiterna fascinazione che il mostruoso suscita in chi lo scruta, il lettore.
Per cui eccolo, lo scrittore, provvisto del fluido teratogeno, avvicinarsi al suo regno; centinaia di tomi impilati in torri malferme lo circondano, così come fascicoli e faldoni sono accatastati in ogni dove – e fogli, fogli ovunque, puntinati perfino al soffitto. Dopo aver indossato una tuta protettiva arancione, estrae il flacone e lo svuota nell’aria pesante dello studio, spargendone il contenuto su copertine e appunti, su schemi e tabelle, su articoli e riviste. Così ha inizio l’agire del mutageno che, libero dalla sua prigione di vetro, può aberrare tutto ciò che trova sulla sua strada. Macchia, inficia, appesta, ammorba, inquina, fonde, cola, accoppia, separa e collega, scopa, muta e deforma.
Accade così che dall’archivio si spande una nube verdognola, seguita da un alone alieno che è il marchio della mutazione in corso, della teratogenesi in atto. E lo scrittore, il grugno serrato nella gomma dura di una maschera antigas, s’avvicina al tavolo settorio ingombro di carte e inizia l’operazione. Sformate dal fermento del tossico, immagini su immagini affollano la sua mente; le sue dita si muovono veloci, sfogliando appunti, appuntando con un piccolo lapis cifre, nomi e date. Ha origine il titolo, anch’esso una crasi immonda indotta dal nocivo sparso poc’anzi: Iosif Adolf Vissarionovič.
Ora l’autore marcia spedito; inebriato e stordito dai gas mutageni che hanno penetrato la maschera vecchia e lisa, e affascinato dal profilarsi mentale della storia – della sua storia – scrive a ritmo serrato. Immagina il parto di un uomo, uno e doppio, un uomo nuovo, che coiti consumati nelle fucine del Secolo con due fanciulle, la rivoluzione e la guerra, hanno generato. Un uomo che, anno dopo anno, s’arrampica fra le rocce per giungere al picco del potere. Lo scrittore – ispirato non più dai vapori ma dalla visione fantastica che ora ha davanti agli occhi – ne descrive l’ascesa. Trasforma quell’uomo bifronte in mezz’elfo, in paladino, in stregone che, grazie ad abilità speciali, acquista punti carisma, punti destrezza, punti saggezza e punti ferocia. Iosif Adolf Vissarionovič è l’araldo di un nuovo universo che nello sprawl tra Mosca e Berlino mette insieme un noi che proclama: «[noi] acceleriamo la storia, facciamo il futuro, uccidiamo il passato, creiamo la razza e l’eternità, facciamo un ordine nuovo e vi danziamo coi nostri costumi, i nostri cori, i nostri inni e la nostra musica». Per assurgere ai piani alti del potere – Reich o Politburo, non fa alcuna differenza – bisogna esser bravi al gioco dei ruoli.
Il rosso e il nero così si fondono, e per suturare la loro unione l’autore, chino su fogli e documenti, utilizza il filo delle analogie fra Iosif e Adolf, il Führer e il Vožd’, filo che ha fibre forti perché intrise d’odio nei confronti del nemico. Il nemico unisce, il nemico accorpa, il nemico indirizza. Ecco il kulak – «il kulak come classe deve scomparire nell’officina dell’uomo nuovo, lo si sciolga col manganese e il silicio, si abbatta la sua resistenza» – ed ecco l’ebreo. E il kulak è l’ebreo e l’ebreo è il kulak, così come sono ebrei e kulak invertiti e malati, avversari e sinti. Il lapis fila veloce sul foglio, e la prosa si fa ardente e mordace mentre lo scrittore, memore di tutte le memorie e gli studi che ha consultato, tratteggia il massacro e il confino, l’eccidio e il campo e il gulag.
E le schiere del male? L’autore si ferma per indagare fra le pieghe della storia, forte degli effetti che il teratogeno sortisce su di lui, sui documenti, sui libri e sui ricordi. Ed ecco che non c’è la Gestapo, non c’è l’NKVD, e nemmeno la Wehrmacht o l’Armata Rossa. Non ci sono le Waffen-SS né le squadracce fasciste. L’autore si ributta sui fogli con la luce di un’idea nelle pupille, perché nella sua mente s’affastellano film e romanzi, racconti, carte e giochi da tavolo. Ed ecco che le truppe del male di Adolf e di Iosif son mutate anche loro. Sono mezz’orchi, orchi, uruk-hai, halfling e tiefling, non morti, gnomi e duergar, gibberling, goblin e barbari. Il loro lavorio è oscuro e malato, semplice quanto un ordine; tutti rispondono al grande capo, il mostro di fine livello, che è nato e vive nella fucina-forgia che ha la foggia d’un vulcano in ebollizione.
Ed è proprio questa parte del racconto che i critici e i lettori poi, a libro ultimato e venduto, loderanno. Perché l’autore, oramai ebbro di tossico, ci rammenta che il male è sì simile in ogni parte della terra in cui lo si commette, ma intacca e dà corpo a orrori sempre diversi ed elusivi, orrori che sarebbe bene conoscere a menadito, con minuziosità degna d’un tassonomo, affinché li si possa individuare meglio e si possa toglier loro spazio. Per cui ben vengano i manuali, i bestiari e le classificazioni; la deformità, il grottesco, il buio e il nero, gli occhi rossi come brace e la bocca irta di zanne, l’urlo belluino, il cuore appassito, il gelo nell’anima e la crudeltà nel pugno mettono in luce ciò che a volte, purtroppo, non è dato vedere o è nascosto talmente bene sotto a una fine patina di banalità che a nessuno vien voglia di indagare, scoprire e denunciare.
A sera tarda, quando anche l’alone sovrannaturale s’è chetato e più non riluce, l’autore sfila la maschera dai filtri ormai lordi e passa il dorso della mano sulla fronte bagnata. Ai suoi occhi il racconto è completo. S’alza e va a prendere la grossa busta di carta marrone che tiene al sicuro nella libreria nera. Ripone i fogli in mezzo a centinaia di altri e avverte una fitta di stanchezza alla schiena. La raccolta avrà un nome in futuro, Mio padre la rivoluzione; e avrà un editore. Avrà poi dei lettori e dei recensori. Avrà una copertina; e sopra la copertina in tipografia stamperanno il nome dell’autore: Davide Orecchio.
Davide Orecchio
Mio padre la rivoluzione
Roma, minimum fax, 2017
pp. 313
Immagine di copertina: Hitler Stalin pact, photo source LatvianHistory.
Complimenti! Una presentazione del racconto illuminante che si fa racconto essa stessa. Sto leggendo il libro ( sono un giudice del premio napoli) e cercavo dettagli sul web: questa recensione mi ha fornito un’ottima chi se di lettura. Grazie!
Cara Linda, grazie a te! Grazie per la lettura e per il commento. Sono contento che il racconto sia piaciuto. Buona lettura e buon giudizio! Un caro saluto. Danilo Z.