«Lei invece è pieno di concezioni sbagliate, e non se ne libererà mai».
Franz Kafka, Il castello

 

D’accordo, d’accordo, tutto questo è follia. Non c’è più nessuno che sente il bisogno di questa follia? Pazienza, non per questo rinsavirò. C’è ancora qualcuno che ne sente il bisogno? Eccomi, io sono qui.
Antonio Moresco, Lettere a nessuno

 

Senza pietà. Ammesso che la letteratura sia quel gioco di specchi che moltiplicano l’orrore di essere uomini (e non il gioco di coloro che vogliono ricordare quanto il tempo sia stato crudele dal separarli dal tempo della loro giovinezza); ammesso che si abbia la forza di negare di appartenere a questo o a quest’altro gruppo, quasi ci spingesse la volontà di viaggiare nel tempo a ritroso e immaginarci come degli avanguardisti del Novecento, pur di essere qualcuno; ammesso che la tradizione, in tal senso, ha rotto il cazzo, divenendo non più un luogo mitologico nel quale fare a pugni con chi è venuto prima e prepararsi per chi verrà dopo, maestri e oltre-uomini cambia poco, il senso della guerra in letteratura è che non c’è pietà per nessuno; ammesso che non abbiamo il tempo, poiché dobbiamo lavorare per mantenerci più o meno indipendenti, il che vuol dire comprarsi almeno le sigarette; ammesso che non c’è speranza, per il fatto che questa parola auspichi compassione; che cosa resta?

«Li avrebbe bombardati con un vuoto pieno di deserti». Vagare, ci vuole coraggio per una parola così difficile. Penso al suo senso nella lingua di Leopardi o nella lingua di Zarathustra o nella lingua di Omero. Nei paraggi del vago appare sempre un deserto, al quale si attribuisce l’oggetto-vuoto, dimentichi del fatto che un deserto è abitato da miraggi. Se ci fosse la possibilità (c’è, in fondo, ma sarebbe impresa eroica in un’epoca di scrittori che fanno un pessimo uso della propria memoria, rendendola reale. Sono stato compreso?) di estremizzare il deserto e il vuoto, di farne un problema di coscienza, quante possibilità ci sarebbero che automaticamente la metà dei libri pubblicati svanisse, proprio come svanisce un miraggio? La mia mente vaga intorno a questo problema di coscienza, fino a farmi perdere il sonno, e mi ripeto: Vago così, ché sonno soave sopra i miei occhi non siede; ho la guerra nel cuore, lo strazio degli Achei. (Iliade, X 91 – 92)

*

Intermezzo.

La distanza

     tra questo

e

     il tempo

     tra l’ambiente

e

      la musica

è sublimato

     come confusione spaziale

senza muri

– privo di me –

*

Prime istanze del delirio. Scriviamo soli, poiché viviamo soli. Che cos’è una compagnia? Non lo so. Lo sto dimenticando, giorno per giorno. Un libro è una compagnia, anche se un libro è uno stimolo alla carneficina? La carne di chi? Di chi ha scritto, di chi scrive, di chi scriverà? O la mia stessa carne? Non si può avere compagnia al di fuori di sé stessi, poiché è già difficile convivenza. Eppure io sono sempre due: chi vede, chi sogna. Sono uno dei due quando scrivo, a volte scrive quello che vede, a volte quello che sogna, mai tutti e due insieme. C’è competizione, come tra realtà e finzione, tra finzione e delazione, tra delazione e appartenenza, tra appartenenza e amicizia, tra amicizia e ruolo, tra ruolo e caso, tra caso e caso.

In cammino. «Amate pure il vostro prossimo come voi stessi, – ma siate prima di tutto di quelli che amano se stessi – – amano di grande amore e, di disprezzo grande, amano!». Così parlò Zarathustra, il senza-Dio.
Questo è. Non conosco altro modo di resistere lungo il cammino