L’ultima volta che suonò lo fece in braccio agli dei. Percorse in successione, fra pezzi neri e bianchi, tutte le possibili indoli umane. E si arrestò inatteso sulla nota. Perché gli parve il miglior ponte verso gli inferi.
Lo tenne dentro, il tasto, fermo e dimenticato come un coito distante. Mentre nel teatro vibrava il suono che afferra dio per i peli delle narici, mentre gli altri musicisti accoglievano l’estro come il pugno a nocche dure dell’imponderabile. Lo zigomo si rompe. Il frantumato libera materie sconosciute.
Jakob il pianista era metodico e perfetto. La sua arte era quella dell’animale che tinge squame a gusto della terra su cui striscia. E lo spartito, e i tempi e i modi, smettevano il senso della norma per farsi squama, tinta, riflesso e gioco d’ombra.
Dunque l’ultimo gesto non poté essere compreso. Le dita che fino a quell’istante avevano segnato perimetri d’evanescenza lungo lo strumento, di colpo s’erano arrestate. E l’anulare, l’osso dedicato al giuramento, rimase fermo sul tasto che mandò l’ultima nota. Prolungata. Agonizzante o sublime.
L’orchestra si fermò. Gli archi tesero ai fiati, i fiati si persero negli archi. E il pubblico, colto ed educato ai tempi, in un istante comprese che il pianista disobbediva alle regole del tempo. O che fosse rintanato altrove, in una curvatura dello stesso.
E infatti ai pochi che potevano guardargli il viso, sembrò che si firmasse lì lo spasmo dell’estasi. Di quanto il corpo del pianista s’orientasse in forza all’ultima nota, tutto il teatro ne ebbe segno. E i mormorii, e timide proteste, e sciarpe svolazzanti verso il collo in via d’uscire.
Una donna d’età non irrilevante, impeccabile negli accessori e nell’igiene intima, lentamente si aprì in un sorriso svelando denti marcescenti. E al vicino di poltrona che aveva appena detto: «ma questa è una buffonata!», rispose:
«Questa è semplicemente una nota. Forse l’ultima. Forse la forma corporea di un disagio».
«No signora», fece il tizio, «questo è al massimo il rumore della malattia mentale».
La donna smise di sorridere. Lentamente voltò il capo verso l’uomo, quasi cigolando le vertebre, mentre le carni modulavano risacche fra collo e sterno. Disse:
«Il rumore è suono, la malattia è guarigione. La natura ha regole più flessibili di quelle dell’intelletto umano, signore. La natura è programmata per esistere finché ci sarà esistenza, e non per un secolo scarso con l’aiuto della chimica. L’opportunità e la convenienza di certe anomalie sfuggono all’essere umano».
E lentamente come aveva mosso, tornò a rivolgere lo sguardo al palco.
La platea fluttuò. Un manto di formiche. Uno strato di petrolio mosso da pendenze contrastanti. Si distinsero figure umane introdotte in pellicce sintetiche. I rumori delle stoffe e del cuoio delle scarpe, con sopra la medesima, eterna nota di pianoforte.
Una nebbiolina. La scia elettrica delle luci si infrange contro lo spazio. Il tasto dentro la tastiera, il flusso del tempo paralizzato sull’onda fissa della nota. Nota. Uno scherzo della percezione: è nota solo quando conosciuta. Se non lo fosse, pensava Jakob, sarebbe una banale espressione del caos.
Il pensiero. Laggiù, su rotaie distanti sibila il metallo. Il suono si assottiglia fino a recidere dei cordoni nel cervello di chi ascolta. E libero come vapore va l’impulso nervoso. Della scarica si sa l’origine, non certo la destinazione.
All’angolo blu il pugile Jakob si faceva medicare lo zigomo destro. L’allenatore gli suggeriva furbizie, schivate, passaggi sotterranei. Cunicoli.
«Entra nella sua guardia col montante! Devi mostrargli il mento, deve sentirlo lì. E appena allunga il sinistro, tu schivi verso destra e gli entri di montante».
Ma Jakob non riusciva a vedere il suo avversario. Dal lato dello zigomo ferito, l’occhio gli lacrimava. E l’altro non era messo meglio.
«Non lo vedo! Non so dov’è!», diceva il pugile.
«Lo sentirai. C’è momento per vedere e momento per sentire. Tu lo saprai perché lo sentirai».
Le ombre. Jakob non distingue. Le linee convesse lungo il bordo chiuso della lacrima. Le persone sono sagome illogiche, e i loro gesti rallentati hanno guizzi imprevedibili quando entrano dentro la goccia, giusto al centro.
La nota di pianoforte come coperchio del mondo, al soffitto si impiccano le voci del pubblico. Pioggia che non sa cadere. Galassia senza centro.
«Ci siamo quasi. È prossimo alla resa», diceva uno dal pubblico.
«Credevo fosse più capace. Non capisco cosa stia facendo», rispondeva un altro.
«Non sa neanche chi sia il suo nemico», chiudeva un terzo, «non vede, non sa, è perso».
Poi, Jakob partì. Senza il gong. Un orecchino, forse, contro un bracciale in rame. Le vibrazioni si accodarono alla lunga nota che percorreva ogni tempo, e il pugile si alzò. Scansò l’allenatore e si diresse verso l’angolo opposto.
A mezzo ring, l’arbitro fu il primo a cadere. Il pugno gli aprì la mandibola. Jakob il pugile proseguì varcando litri di buio. In piedi balzò la folla, punta al culo dalle gesta fuori geometria.
Una vecchia baldracca che accompagnava un poeta, in prima fila, ebbe l’ardire e strinse le parole:
«La notte… quel ragazzo è entrato in una piega della notte».
«Stronzate», contestò il poeta, «sta solo iniziando a ricordare cosa sia l’essere umano».
Jakob spostò l’allenatore dell’avversario. Quest’altro era sullo sgabello. Il tempo di alzare lo sguardo. Inebetito dal frastuono. Dalla sete rumorosa della folla.
«E cos’è l’essere umano?», chiese la baldracca.
Jakob caricò. Tutta la vita fino ad allora vissuta si contrasse fra deltoide e bicipite. Il gomito indietro. Gli occhi dell’avversario, increduli e desiderosi.
«L’essere umano è egoismo. Feroce egoismo».
Il colpo entrò al centro del volto. Il naso del pugile all’angolo rosso sprofondò verso le orecchie, e la dentatura giù in gola. Il cervello non mandò segnali di pericolo perché voleva, in fondo, oltre gli arabeschi di fosforo e gelatina, un’esperienza della fine. Senza impulsi nervosi il collo non fu sorretto dai muscoli della schiena. E si ruppe. Mentre la nota resse.
L’avversario di Jakob rimase sullo sgabello alcuni istanti. Un semplice equilibrio di pesi permise alla testa di compiere una rotazione. Poi, piegando in avanti, trascinò il corpo e cadde.
Jakob in strada. Sangue dalla gamba. Un taglio verticale, simmetrico, da vetro, nel lato del polpaccio. A ogni passo un fiotto. E i passi erano svelti. Quelli della fuga. S’era rintanato negli spogliatoi, ma la folla era andata a reclamarne il cuore, e il pugile aveva dovuto sfondare la finestra del bagno.
Il luogo era ora sconosciuto. La periferia di una città. Le buche nell’asfalto, i marciapiedi larghi e scontornati. Quasi mai visti esseri umani. E a ogni passo un fiotto.
Davanti a sé poche forme in emersione dalla notte. Apnea, ricordi d’utero. La torre di un vecchio bruciatore, il profilo scoliotico di una fabbrica dismessa. Ma dietro, in qualche posto, dietro un palazzo ad angolo e oltre qualche incrocio, il vocio della folla, le zampate delle bestie. Al branco che vide sangue, ne scattò insaziabile nostalgia. Gli erano addosso. Ne fiutavano la paura.
Dal lato opposto del marciapiede avanzava uno zingarello. Le carni brune, bagnate del buio che le aveva impastate. Caracollando, col cesto delle robe raccolte ai cassonetti. Conosce il posto e ha confidenza col bilico, ma venderebbe sua madre, pensò Jakob. E decise di non chiedergli aiuto. Però proprio mentre stava per incrociarlo, una delle auto che sfrecciavano in strada frenò brusca. Leggera retromarcia. Il finestrino si abbassò, e dall’interno una voce senza volto fece:
«È lui! È Jakob il pugile!».
Altre auto accostarono vomitando persone. Dagli angoli bui della strada affioravano figure minacciose. Dai coni d’ombra dell’asfalto salivano a galla uno a uno gli spettatori dell’incontro. Inferociti. Scrollando di dosso pelli secche di tenebre. E tutti convergevano verso Jakob, inciampando, con scarsa coordinazione. Vivendo di febbre.
Il pugile afferrò lo zingarello e, sotto un braccio, lo portò lontano dal ciglio fino a sbattere contro una saracinesca:
«Mi serve il tuo aiuto», disse, «se mi prendono mi strappano gambe e braccia».
Il ragazzo, occhi enormi e bianchi sotto due palle di pupille nere come necrosi:
«Seguimi», e sgattaiolò sotto la saracinesca.
Erano in un magazzino. Pavimento soffice di polvere. Sugli scaffali alle pareti pochi e insignificanti oggetti. Tutto superfluo.
«Che mi dai?», chiedeva il ragazzo agilmente verso l’uscita posteriore.
«Ho un pianoforte, da qualche parte. Credo. Vale molto».
«E che me ne faccio? Se lo metto nella mia roulotte quella si sfonda!».
Trovarono la porta sul retro mentre la folla sbatteva contro la saracinesca. Uscirono in strada. Un vicolo. Ma quelli erano entrati nel magazzino, buttavano in terra gli scaffali e imprecavano.
Lo zingaro s’afferrò a un tubo delle fognature che saliva lungo un casermone. In poche mosse era già sospeso a tre metri, e saliva ancora.
«Mentre provi a starmi dietro, sforzati di trovare una ricompensa per l’aiuto che ti sto dando», fece, «ma… ma cos’è questo rumore? Sei tu che fai questo rumore?».
«Quale rumore? Io non sento niente?», chiese Jakob.
Dal retro del magazzino un paio di uomini e donne sfociarono dal vicolo. Lo zingaro fermò la scalata. Silenzio. La preda sui rami alti ha i suoni come nemici. E mentre in basso le donne si chiedevano dove fosse quella bestia che aveva ammazzato un uomo a tradimento, sospesi sul tubo, Jakob e lo zingaro trattenevano il respiro. Il sangue rallenta. Sopra gli occhi cala dolce la patina dell’addio.
Poi quelli sotto si divisero lungo i due lati del vicolo, e quando furono distanti a sufficienza, i due sul tubo ripresero a salire.
Sul tetto. Lungo un cornicione che sporgeva verso un altro edificio dalle finestre senza vetri.
«Quella è casa mia. Tu ti fermi qua. E mi paghi».
«Ma come? Hai detto che vivevi in una roulotte», fece Jakob.
«No. Io ho detto che se metto il pianoforte nella mia roulotte quella si sfonda. Ma non ho mai detto di vivere in una roulotte».
«Facciamo così allora», propose Jakob, «io vendo il pianoforte e ti pago in contanti. Domani però».
«Nessun domani. Tu mi paghi adesso. Altrimenti strillo e quelli si mettono qui sotto finché non cadi».
«Ma come faccio a pagarti adesso? Non posso avere un pianoforte con me!».
«Sicuro?», chiese lo zingaro, «guarda bene… e cos’è questo suono? Sei tu che lo fai?».
Come un sibilo, ma di zucchero, e senza sbalzi, ogni tanto il vento restituiva un suono che sovrastava ogni cosa, che proveniva da ogni luogo, che proveniva da momenti precedenti e momenti futuri.
E seguendo questo suono, attratti dal suo vanto d’esistere, gli inseguitori presero ad accalcarsi lentamente e inebetiti sotto il muro sul cui cornicione si appollaiava Jakob. Alcuni già guardavano in su quando il pugile disse:
«Senti, ragazzo, parliamoci chiaro: tu stanotte non hai fatto niente di straordinario. Sei fuggito via per posti che conosci e ti sei arrampicato quassù come avrai già fatto mille volte. Questo non ti è costato niente. Io ti ringrazio ovviamente, e penso sia giusto che ci guadagni qualcosa. Ma pensa a questo: se io cado di sotto, tu non guadagnerai niente. Non hai speso niente, ma non guadagni niente. Quindi, fidiamoci l’uno dell’altro. Se mi porti al sicuro, entrambi guadagniamo. Se restiamo qui, io perdo e tu resti in pareggio».
Lo zingaro ci pensò. Fece cenno che l’altro lo seguisse e continuò lungo il cornicione. Elastico e gatto. Fino a infilarsi nella finestra senza vetri.
Dentro. Buio, cosmo, bolla di sapone. Un odore aspro di cibo vecchio. Carte, barattoli sotto i piedi. La stanza era piccola, i suoni di ciò che calpestavano tornavano subito indietro, ed era abbastanza vuota, perché tornavano distorti e liberi. Oltre l’uscio, verso un corridoio, lampeggiava una luce metallica su uno sfondo di paglia. Lo zingaro si diresse lì. Jakob seguì.
«Ora conoscerai mia sorella. Siamo soli. I nostri genitori sono annegati quando siamo venuti qui. Mia sorella ti parlerà. Lei è brava con le parole. Però non si farà guardare in volto. E tu non dovrai provarci a guardarla, altrimenti non ti aiuterà».
«Io farò tutto quello che è necessario per uscire da questa situazione», disse Jakob.
Arrivarono nel posto dopo esser scesi per una scalinata stretta. La stanza. Sulla destra un vecchio televisore a tubo catodico mandava sempre la stessa immagine sgranata, e saltellava, senza audio. Sulla sinistra una sagoma contro la luce gialla di carte messe a fuoco in un buco nel muro, come un camino. La sorella dello zingaro. La sua chioma folta e liscia di capelli di ogni colore. Di nessun colore.
«Anna, ho portato un uomo disperato. Fugge. Fugge da tutti».
La donna non rispose. Continuò a strappare pezzi di cartone da bruciare. Mentre lo zingaro invitò Jakob a sedersi su una poltrona sulla cui stoffa, contro luce, si vedevano i balzi allegri delle pulci. Gli fu offerto da bere. Qualcosa di alcolico e amaro, sapore di radici selvatiche.
«Cosa è questo suono che porti con te?», chiese Anna.
«Non sento niente. Continuate a ripeterlo tutti, ma io non sento niente».
«Eppure c’è. È bene che tu scopra di cosa si tratta se vuoi guarire».
«Io non ho niente da cui guarire», fece Jakob, «devo solo… smettere di fuggire».
«Fuggi. Da cosa fuggi?».
L’uomo ci pensò. Bevve un altro sorso.
«Non lo so. Mi sono perso».«Ti sei perso. Quando?», Anna attese. «Qual è l’ultimo posto familiare che ricordi?».
«Non lo ricordo più».
«Come ti chiami?».
«Sono Jakob. Jakob il pianista».
«Quindi per vivere fai il…»
«Faccio il pugile».
«Fai il pugile. Allora il ring è un il posto in cui sei te stesso?».
«Assolutamente no. Forse, l’ultimo posto familiare che ricordo è… casa di mia nonna. Pranzavo lì durante la settimana. L’odore di umidità nel salone di mia nonna. Il fumo della carne arrostita sui fornelli, che andava verso l’ingresso e che vedevo avvolgersi quando entrava una striscia di sole dalla porta socchiusa.
«Cosa è successo da allora?»
«Sono diventato un uomo».
«Non ti piace essere diventato un uomo?».
«Non più. Ho ottenuto delle cose e ne ho perse altre».
«Cosa hai perso?».
«Ho perso il gusto dell’ignoto. Ora conosco tutto. Niente mi sorprende. Niente mi prende. Invece da bambino ogni passo poteva portarmi ovunque».
«Hai paura che la tua vita sia finita? Già decisa?».
«Credo di sì».
«Lo sai che le vite finiscono, vero? Non vuoi accettarlo?».
«No».
«Cosa cerchi che pensi di non avere?».
«Non lo so. Parti di me, suppongo».
Anna tacque. Jakob si accorse che lo zingaro non era più con loro. Pensò che dovesse esser filato via a procurare del cibo visto che lui lo aveva interrotto. E la chioma della zingara colpita dai riverberi delle fiamme mandava gli odori del bosco tutt’attorno.
Jakob fece un leggero movimento sul lato, sporgendosi, ucciso dalla curiosità di vedere il volto di quella donna. Ma Anna disse:
«È davvero il mio volto che cerchi?».
«No… no, assolutamente», fece Jakob ricomponendosi.
«Esci fuori allora. Io ti raggiungo».
«Da dove si esce?».
«Dove si entra. La vita è più semplice di quanto immagini».
Jakob andò verso la scalinata, e notò che un passo prima c’era una maniglia. Tirò. La porta strisciò in terra. Aria fredda. Esterno. Notte. Piscio di gatti.
L’uomo attese qualche minuto nello spiazzo. Poco visibile tutto attorno. Clacson di auto in lontananza. Sirene della polizia. Anche qualche sparo. Un aereo sfiorò deliziosamente la luna. Jakob meravigliato della notte.
Poi Anna lo raggiunse e gli si mise avanti, di spalle, camminando lentamente. E lui seguiva. Uscirono dal cortile. Man mano che la visuale del quartiere aumentava, si potevano notare colonne di fumo alzarsi verso il cielo. E il fetore della gomma che brucia. Tutto attorno, diffuse, vicine e lontane, le voci della folla imbestialita. La città si stava rivoltando.
Anna e Jakob attraversarono lo stradone da cui prima l’uomo era fuggito. Gruppi di persone bloccavano le auto e facevano scendere gli occupanti, altri si azzuffavano sotto i lampioni. Qualcuno rimaneva in terra, e i passanti dopo aver mollato un paio di calci controllavano le tasche e arruffavano qualcosa.
«Cosa succede?», chiese Jakob.
«Ognuno ha perso qualcosa. Da un certo momento in poi, più si vive più si perde», disse Anna.
Percorsero tutto lo stradone, in direzione del centro città. Gli incendi aumentavano. Fiamme dalle finestre. Qualcuno fu lanciato di sotto e si schiantò su di un’auto in corsa, che andò a inchiodarsi nella vetrina di un alimentari. Tutti quelli che erano lì corsero a recuperare del cibo.
Una vecchina veniva incontro tutta trafelata.
«Signora, signora ma che sta succedendo?», le chiese Jakob trattenendola.
«Un uomo ha ucciso un altro uomo», fece quella senza manco fermarsi, e si liberò dalla presa con un’energia sorprendente.
«E che c’entra?», diceva Jakob.
«Quell’uomo era lui stesso», faceva la vecchia allontanandosi, «quell’uomo era un altro!».
Anna non interveniva. Guidava e basta. E i suoi capelli lunghi, alla luce degli incendi, a volte sembravano rossi, a volte biondi. A volte profumavano di ortiche, a volte di fegato.
Superarono un ingorgo a un grosso incrocio. Un tir capovolto in strada offriva riparo a degli uomini che sparavano contro un palazzo. Dalle finestre gli altri rispondevano lanciando bottiglie incendiarie.
E man mano che Anna e Jakob avanzavano verso il centro, insieme alle fiamme e agli schianti, aumentava quel suono di sottofondo. Quel suono sempre costante. Che copriva perfino le urla di una madre a cui avevano strappato il figlio per barattarlo con una tanica di benzina.
Poi, all’improvviso, Anna si fermò.
Di fronte avevano un palazzo antico, la facciata a lastroni di arenaria. Entrarono. Superarono il cortile dominato da un’aiuola e andarono al lato opposto al portone. Lì un cancello, senza lucchetto, apriva a un giardino spoglio. Tutt’attorno qualche deflagrazione rompeva la notte. Lì, dietro un pino le cui radici infilzavano la terra, un pozzo in mattoni vulcanici.
Jakob si avvicinò senza chiedere nulla. Si affacciò, mandò una voce che echeggiò. Il suono di fondo, lì era più forte che mai.
«Che faccio?».
«Scendi. E se tocchi fondo, scendi ancora. E poi ancora», disse Anna.
Jakob si calò aggrappandosi ai mattoni. L’aria era densa, umida. Insolitamente calda. Anna scese dietro di lui.
Muschi, ai mattoni, sempre più viscidi. L’uomo perse la presa e cadde nel fango. Mosse le mani nella melma. Fredda. Poi pensò di dover scavare. Iniziò a farlo. Ma non ci riusciva, perché il fango che spostava ai lati, pian piano tornava al centro dove lui si affannava a scavare.
«Come faccio? Non ci riesco!».
«Questo fango deve sparire», suggerì Anna.
Jakob riprese con più foga. Ora il suono era insopportabile. Era forte. Era ovunque. Era talmente forte che avrebbe potuto raccoglierlo con mano se solo non fosse stato tanto buio.
Ma il fango. Pensò di lanciarlo contro i mattoni, e all’inizio parve funzionare. Restava appiccicato lì. Per qualche minuto riuscì a scavare. All’improvviso, aumentando il peso del fango alle pareti, questo ricominciò a scivolare verso il basso. E chiuse tutto.
Jakob era al limite. Le mani quasi congelate, il cervello spremuto dal suono. E capì come avrebbe dovuto far sparire il fango.
Ne prese un mucchio, a due mani, e mangiò. Poi altro. Rimandava in gola i conati seppellendoli con nuovo fango. Scavò e mangiò. Ingoiando il sapore di sangue della terra, il sapore ruvido del ferro. Fino a che non sentì qualcosa di diverso, là sotto. Qualcosa di più consistente. E caldo.
Estrasse dalla terra. L’oggetto era vivente. Ma piuttosto che muoversi, palpitava. Era un cuore. E ad ogni palpito sbuffava un fiotto di liquido denso e nero. Petrolio. Non c’era acqua lì sotto.
«È mio questo?», chiese cercando Anna dietro di sé.
Non c’era nessuno.
«È mio», disse a sé stesso.
In quell’istante il suono sfondò qualche barriera invisibile e gli entrò prepotentemente in testa. La vertigine. Il desiderio di farsi percorrere ogni vena da una paura liquida.
E poi smise. Il dito si staccò dal tasto. La platea riassunse la devozione in forma di silenzio.
Quando Jakob il pianista si alzò dallo sgabello, nessuno seppe limitare l’immaginazione. Tutto e ogni cosa avrebbe potuto accadere.
Ma egli era metodico. Metodico e perfetto. Senza troppa fantasia. La sua forza era la comprensione delle norme fisiche. Quindi si limitò a percorrere con eleganza il tratto che separava il piano dagli archi. Lì, una chioma rossa, una violinista che nessuno aveva mai notato, che forse non era neanche esistita fino a quel momento. Una donna di cui nessuno poteva giurare di conoscere il viso tanto sublimava dal corporeo.
Jakob le sfilò delicatamente il violino di mano. Le tese la sua, aiutandola ad alzarsi. La guardò dritto negli occhi e le disse:
«Se esiste solo un’altra persona al mondo che possa guardarti con appena la metà del mio desiderio, già non lo sopporterei. Da questo istante nessuno dovrà più neanche sentire i tuoi passi, perché tutto ciò che sei appartiene a me».
***
Il racconto è apparso su Ô Metis III, Raggiro/Ritorno.