Marzio Landini lavorava per una Onlus che raccoglie fondi per le terapie lenitive di ragazzi malati terminali. Tre sere a settimana veniva alla Oyama Dojo per praticare Aikido e meditazione zen. L’ho conosciuto lì.
Era un giovane serio, forse anche troppo: un romantico perfezionista che si era fatto certe idee sul pensiero giapponese.
Abitava da solo, in un monolocale fuori dal centro. Aveva steso per terra dei tatami. Dormiva su un futon che di giorno sistemava nell’armadio. Non aveva la pentola per fare spaghetti. Quella del riso, un robot bianco che premendo un bottone viene perfettamente appiccicoso tutte le volte, era messa in mostra come un idolo. Collezionava teiere, e tazze senza maniglia.
Non credo che fosse fidanzato, ma sognava.
Aveva scritto, col pennello di bambù, su carta di riso, una sorta di lettera di addio. È stato attento a non macchiarla di sangue:
Kako-kyu
Pare finito il caldo e colorato autunno. Abbiamo riso insieme bevendo il saké novello. Attorno alle risaie abbiamo strusciato i piedi nella paglia di riso: un rumore come il riso di un vecchio malato di cancro alla laringe. La useremo per fare i sandali, in primavera.
Oggi la cerimonia del tè l’hai fatta con una raffinatezza rara. Guardavo le tue caviglie, i tuoi polsi. Non potevo restare immobile.
Nudi sotto i kimono, nel giardino, al crepuscolo contemplammo l’albero carico di frutti colore del sole morente. La loro viscida dolcezza filacciosa ti sgorgava tra i tuoi dentoni radi, giù per il mento che hai sfuggente, piovve piano sul tuo petto sporgente.
Ultimo nutriente bacio di un crepuscolo umido e freddo.
Kòi
Parla solo il linguaggio delle bolle e non può chiudere gli occhi a palla. Dorme in acqua. Ci guarda mentre mangiamo e mentre facciamo l’amore. Con attutiti peti in superficie fa capire che è geloso. Vorrebbe essere una delle felci che hai piantato d’estate, che scrutiamo mentre sorseggiamo il tè verde la mattina.
Con un guizzo delle sue scaglie d’oro, il pesce mi ha detto che non mi ami più.
Nei suoi occhi a globo vedo te che giri la città al buio.
Col coltello di cucina sfiletto e affetto l’acquatico animale domestico.
Con riso amaro e aceto di riso preparo sushi di amore perduto. Lascerò il piatto laccato sulla mensola davanti al televisore sintonizzato su un canale inesistente.
Gohan
I mercati orientali sono il mezzo più economico per viaggiare nel continente giallo. Compro risi esotici, salse piccanti, pesciolini essiccati, verdure aliene, e tofu. L’okama mi è costato un occhio. Facendo il prelavaggio al riso, uso gesti di un finto rituale. Evito di sprecare acqua. Pigio il bottone e passo nell’altra stanza per meditare sulla perfezione che si ripete. Il campanello del pentolino automatico è il gong dello zendo in collina nel paese delle nevi. Commensali vestiti di nero mangiano in silenzio. Uso bacchette di un legno scuro, una ciotola blu, una tazza da tè verde giada lattiginoso, cianfrusaglie dei mercatini orientali.
Volare O-ò.
L’arte della cedevolezza concede attimi di volo. Ho deciso che in aereo non ci andrò mai. Quando fui colpito dal male di Giappone il lungo viaggio mi appetiva. Avevo visto un documentario su YouTube, la storia di un judoka canadese, uno dei pochi del suo paese grande, freddo e pieno di alberi. Con grandi sacrifici ci va, e si perde in una vita solitaria di gaijin. Dà lezioni d’inglese la mattina, e passa le sere a farsi sbattere a terra da Kimura-san. Si aggira per la vecchia Tokyo, un gigante straniero guardato strano da tutti. Non ricordo se realizza il suo sogno di gloria alle olimpiadi, ma da quando ho visto quel programma televisivo in bianco e nero anni ‘60 non mi sento più solo. Aikido è un discorso di girarsi per guardare le cose dal punto di vista dell’avversario. Ti inchini più forte, ti dimostri più umile. Non mi riesce, ma volo che è un sogno.
Moebius, Hokusai e il bassista dei Television
Un fumettista francese fa sembrare facile vivere in altri mondi, altri futuri puliti. Un pittore giapponese incute una disperata voglia di vivere in un passato ideale e congelato. Un musicista di New York scandisce il tempo di una musica irraggiungibile come se si lavasse le mani con acqua calda.
Non riesco a far stare la poesia della vita che vorrei aver vissuto in diciasette sillabe o quante cazzo dovrebbero essere.
HaikOulipo sulle foglie di gingko
Piante piagnucolose parenti dei plesiosauri, chi passa pensa alla putrefazione. Alberi adorati da architetti, adornate le loro acefali altimetrie. Foglie gialle che cadono a terra tutte in una volta. Noci necrotiche nutrienti.
Wagyu lampredotto
Un collega buongustaio e intenditore di vini parlava quasi sbrodolando saliva di vitelli allevati a birra e massaggi in Giappone. “Sarebbe la vita per me,” disse. Le lonze di quelle bestie prigioniere del piacere costano più del platino. Lui non le aveva gustate, ma sognava. Pranzai dal trippaio corpulento in piazza. Mangiando le sue viscere unte pensavo a bistecche grigliate alla brace. Quando la solitudine è troppa, vado al salone Massaggio Thai, dove per un lieto fine basta pagare un supplemento. Sotto le carezze di immigrate clandestine, penso alle geisha del periodo Tokugawa, addestrate al mestiere con violenza. Poche di loro hanno fatto un lieto fine. Finita la mezz’ora, mi sfugge qualcosa di essenziale.
Pasolini e Mishima
Avrai la pancia ancora più a tartaruga atomica e neanche un pelo, Yukio, ma la mia faccia è più scavata dall’esperienza. Ho diretto film indimenticabili, le mie polemiche inducono ancora oggi a pensare alla libertà perduta, e ce l’ho anche più grosso.
Se ti fossi tenuto sulla via del guerriero, Pier Paolo, e se avessi avuto la disciplina di evitare la facile attrazione della gioventù, avresti potuto fare una fine ridicola e gloriosa come la mia.
Nihon-go no no, ovvero Non imparerò il giapponese
Guardo Zatoichi lo spadaccino cieco, non doppiato e senza sottotitoli. Mi piace perché non capisco niente. Non imparerò il giapponese. Vorrei che il Giappone rimanesse perfetto come quelle immagini. Vorrei che i giapponesi fossero colti. Vorrei che dicessero solo frasi considerate e espresse bene. Vorrei che fossero diversi, ma so che non lo sono.
Bunraku
Al teatro dove non si paga l’ingresso davano uno spettacolo di danza. Non c’erano sedie. Il pubblico si mette za-zen sulla pista da ballo, un vasto e sottile tatami. Da dietro il sipario tricolore emersero delle vecchie signore in tuta da ginnastica, col coreografo. Danzarono piano. Il maestro le correggeva, le aiutava a mantenere le posizioni più scomode e a fare i movimenti più difficili per le loro membra usurate. Sembrava di vedere l’istruttore di Aikido che mette a terra gi allievi. Lo fa con garbo e delicatezza, ma non c’è dubbio su chi smuove chi. Siamo burattini mossi da coreografi invisibili, oppure l’enorme teatro al buio è solo vuoto.
A un passo dignitoso le vecchie andarono verso il buio in fondo alla sala.
Con una nuova luce apparvero delle ragazze nude. Sprizzavano vitalità.
Finite le acrobazie, corsero verso l’oscurità.
In conclusione le vecchie danzarono con le giovani, come se il tempo non esistesse, o comunque non importasse. Volevo poter portare via con me quel lieto fine.