Ringraziamo la traduttrice, Dajana Morelli, per averci concesso di pubblicare l’inedito di Norberto Luis Romero su CrapulaClub.
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Grazie a Dio le donne e i bambini si sono calmati da un paio d’ore; da quando sono riusciti a liberarsi, con molta fatica, del corpo del vecchio, tirandolo da un finestrino. Le grida mi facevano saltare i nervi.
Alcuni si sono addormentati, vinti dalla stanchezza e dalla fame; altri, i disperati e irritabili, restano pensierosi o inquieti, come bestie in gabbia, immaginando il modo di fuggire, o semplicemente, una spiegazione logica.
Non esiste tale spiegazione.
Dal mio posto, mi vedo riflesso nel vetro di una delle porte: il mio aspetto è deplorevole, come quello di tutti; ho il volto emaciato, la barba di qualche giorno, le guance scavate dalla fame, dalla sete e dal tedio. Il mio completo è sporco, stropicciato e ha qualche macchia di sangue.
Il rumore delle ruote, invece di farmi addormentare come gli altri, mi esaspera, mi tiene sveglio e mi obbliga a riflettere su questo sequestro. Faccio uno sforzo per calcolare da quanti giorni stiamo viaggiando senza interruzione né riposo su questa metropolitana; però invano: ho perso il conto da quando mi hanno rubato l’orologio.
Ho un presentimento che preferisco tacere: stiamo girando in tondo, un percorso vizioso apparentemente retto. Dubito che questi infelici lo sospettino, sono troppo semplici e conservano la speranza di arrivare in un qualche luogo concreto. Sentono la mancanza della superficie, della luce del sole. Sono ignoranti.
Non avevo mai preso una metro, questo orribile mezzo di trasporto pubblico. Bella ironia. Martedì scorso tutto è sembrato concorrere perché ciò accadesse, come se fosse stato calcolato dettagliatamente, come se ogni pezzo di questa cattura combaciasse con gli altri per mezzo di una rigorosa organizzazione tramata e portata a termine da esperti in sequestri. Questa mattina sono sceso al mio posto auto nel garage e mi sono sorpreso quando la macchina non è partita. Mi sono sentito contrariato, come è normale, e ho insultato duramente il mio autista minacciando persino di licenziarlo se fosse successo di nuovo. I miei rimproveri gli sono importati poco, per tutta risposta ha fatto spallucce. Ora penso che potrebbe essere coinvolto. La notte precedente mia moglie mi aveva commentato delle notizie un po’confuse circa dei manifestanti che rallentavano il traffico sulle strade principali: bande di sediziosi e nullafacenti, senza dubbio, e ho escluso, inesplicabilmente, l’intenzione logica di prendere un taxi. Mi sono deciso per la metro come unica soluzione, mi ha perfino conquistato l’idea di avventurarmi in questo mezzo di trasporto; anche se so, per sentito dire, che si viaggia stretti tra tutta questa gente sporca e addirittura pericolosa. Ma era d’importanza vitale arrivare al mio ufficio alle otto in punto del mattino, per ultimare i dettagli del contratto e sottoporlo alla firma.
Avrei dovuto fermarmi in tempo, scartare questa idea strampalata, chiamare la mia segretaria e indicarle di cancellare e posticipare l’operazione. C’è stato anche un momento opportuno per abbandonare la stazione: mentre ero in coda per il biglietto, in quell’istante ho percepito dei comportamenti sospetti e ho nascosto immediatamente il mio orologio d’oro con il polsino della camicia. Ma gli sguardi avidi ricadevano sulla mia ventiquattrore, come se conoscessero il valore del suo contenuto, delle mie carte. In quel momento non ho avvertito chiaramente il pericolo e sono salito sul treno. Appena entrato mi sono sentito aggredire da un penetrante odore di sudore, e mi sono ritrovato prigioniero tra una moltitudine di disgraziati. Non ho potuto non provare un enorme schifo, una nausea che dalla gola saliva alla bocca, e che ho trattenuto con molta forza di volontà e autocontrollo.
Avrei potuto scendere alla prima fermata, così ho pensato per un momento, mentre sentivo su di me tutti quegli sguardi, ma la paura, il solo pensiero di non arrivare in tempo, mi ha dato la forza per proseguire in mezzo a tutta questa gente che non fa altro che desiderare i miei averi.
Le grida e i pianti dei bambini e delle donne mi irritano; quando alcuni si calmano, irrimediabilmente cominciano altri, come se si mettessero d’accordo, come se facessero parte del programma di questo sequestro. Correva voce che un bambino fosse morto asfissiato e che la madre si rifiutasse di liberarsi del corpo, non potevano strapparglielo dalle braccia. Non ci credo. Da qui non ho notato niente di insolito: grida e pianti si sentono ininterrottamente provenire dagli altri vagoni e mi sono sembrati quelli di sempre.
Tutto è perduto: la firma del contratto e l’affare. Non serve a niente pentirmi per non essere sceso in Avenida Campoamor e aver cambiato alla linea quattro, come indicava la cartina che ho chiesto allo sportello. Adesso è troppo tardi, ma ho avuto paura di inoltrarmi per quei tunnel tortuosi e per quelle scale sudice e in penombra, paura di tutte quelle rientranze, di quei miserabili che chiedono soldi e dormono negli angoli avvolti in stracci e giornali. Inoltre, una volta in strada avrebbe anche potuto essere pericoloso: sono molti i vicoli stretti, scuri e senza vigilanza della polizia che si susseguono vicino al palazzo degli uffici.
A volte faccio schermo con le mani e guardo le pareti della galleria, i mattoni nudi e anneriti dalla polvere e dalla fuliggine, e tutti quei cavi e quei segnali intermittenti che per me sono incomprensibili, ma che so che costituiscono il linguaggio segreto di quelli che hanno tramato questa infamia. Queste gallerie sono strette, giusto quel tanto perché possa circolare il treno; la mancanza di spazio è stato il principale impedimento quando ci siamo liberati del cadavere del vecchio. Abbiamo dovuto aspettare di passare per uno di quegli ampliamenti poco frequenti per tirarlo. E anche così, ha sbattuto contro le pareti ed è quasi rientrato completamente stritolato nello scompartimento. L’aria convogliata lungo la galleria ha fatto da aspiratore e lo ha trascinato fuori. A volte credo che lo trasportiamo agganciato, proprio sotto il mio posto; sento un rumore, una specie di strusciamento, che prima non c’era. Anche se mi è difficile distinguere i rumori non abituali per via dei pianti, delle grida e di tutto questo disordine.
Alla minima alterazione della routine di questo viaggio, tutti si inquietano, si illudono credendo di arrivare da qualche parte. Ogni volta che si spengono le luci, anche solo per un istante, s’impossessa di tutti un’allegria infantile. Se il treno diminuisce la velocità, immediatamente si ammassano ai finestrini, con la ridicola speranza di una stazione finale: la salvezza.
Una delle volte in cui il treno si è fermato e hanno spento tutte le luci, è cresciuto il nervosismo e lo sconforto; poi si sono calmati e sono rimasti in attesa, con i sensi all’erta, sperando di sentire un suono, o di scorgere una luce che potesse costituire un indizio di libertà. La fermata era dovuta semplicemente a una disattenzione nei controlli generali (o forse a proposito), e i finestrini non si erano bloccati automaticamente come le altre volte. I più abili e forti sono riusciti a scivolare fuori e sono fuggiti correndo avanti lungo la galleria. Non era passato molto tempo e li abbiamo rivisti, appiccicati alle pareti, spaventati e feriti, ansimando atterriti come topi. Immediatamente ho ipotizzato che se li avessimo rivisti, ciò avrebbe confermato la mia teoria di un viaggio circolare e senza fine, in un circuito che intuisco non molto profondo, né lontano dalla città: un circolo dal perimetro molto ampio che permette di creare l’illusione di una retta infinita. Chiaro che, se gli uomini e le donne che abbiamo lasciato indietro non sono gli stessi che sono fuggiti da qui, esiste la possibilità di un altro treno catturato che circola davanti al nostro e dal quale potrebbero essere scappati. Se così fosse, i treni sequestrati sarebbero più di uno.
Sono anche avidi di carta, è stato il motivo per cui mi hanno rubato la ventiquattrore. Dato che le porte che mettono in comunicazione tra di loro i vagoni sono saldate, comunicano da uno all’altro appiccicando al vetro dei fogli con dei messaggi scritti sopra. Grazie a uno di questi siamo venuti a sapere che quelli del vagone posteriore avevano recuperato un po’ di cibo. Dal mio posto ho visto un certo trambusto; una disputa tra due donne per un piccolo oggetto che non ho potuto vedere chiaramente, ma che non mi è sembrato cibo, piuttosto qualcosa di valore, forse un gioiello. Quando sono riusciti a separarle, una di loro, la più forte, ha nascosto qualcosa nella borsa. Subito mi sono venuti in mente l’orologio e la medaglietta della Madonna che mi avevano rubato mentre dormivo; anche se non mi spiego come possano essere arrivati fino a lì. Sospetto che le altre cose rubate siano qui, nelle tasche e nei portafogli di questi cretini maleodoranti.
I primi giorni, quando qualcuno recuperava qualcosa da mangiare lo condivideva, ma ora non succede più: l’ultima volta che abbiamo potuto mettere qualcosa sotto i denti è stato un paio di giorni fa, quando il treno si è fermato. Nella confusione, qualcuno mi ha spinto per rubarmi il posto e ho preso un colpo in testa che mi ha fatto svenire. Quando mi sono ripreso, ho visto una luce che avanzava da lontano. Molti si sono ammassati ai finestrini posteriori chiedendo aiuto. Ho approfittato della distrazione per cercare nelle borse e nelle valigette altrui la mia ventiquattrore con il contratto, ma non l’ho trovata. Alcuni hanno tentato di forzare i finestrini facendo leva con gli oggetti disponibili, altri hanno tirato quanto di più pesante contro i vetri blindati. È stato tutto inutile. La luce si è fatta sempre più intensa e definita fino a che si è scoperto che si trattava di un operaio della metro, vestito con una tuta da lavoro azzurro sporco e un casco giallo, che ci ha accecato impedendoci di vedergli il volto. Siamo indietreggiati, impauriti. In quell’oscurità regnava una nervosa e tacita attesa, alterata appena dai gemiti di qualcuno che agonizzava in un angolo. L’operaio ci illuminava con la sua torcia e ci osservava come se fossimo delle bestie in gabbia. Salendo su una sporgenza, o qualcosa di simile, si è addossato a un finestrino e ha diretto il fascio di luce sul pavimento per vedere quelli che giacevano lì. È sembrato perdere subito tutto l’interesse, ha spento la torcia e se ne è andato. Dopo un prolungato silenzio lo abbiamo sentito chiamare a versi altri operai che sono comparsi ugualmente coperti di sudiciume, li abbiamo sentiti mettersi sotto il vagone e lì lavorare a qualcosa, dando ordini e contrordini, facendo rumore con gli attrezzi e ridendo a crepapelle dei propri scherzi e delle loro porcate. Quando hanno terminato si sono arrampicati sul treno e appiccicando la faccia ai vetri, ci hanno guardato per un bel momento con curiosità. D’improvviso hanno fatto luce e abbiamo visto comparire dei pezzi di pane attraverso le grate di ventilazione. Si è prodotto un gran tumulto per ottenere una briciola, mentre loro si divertivano a guardarci lottare per il cibo. Nella lotta ho ricevuto uno spintone e ho sbattuto contro un sedile, ho perso i sensi e quando mi sono ripreso gli operai erano scomparsi e il treno era di nuovo in marcia, compiendo quello che credo un rigoroso itinerario circolare. Mi faceva male la testa, avevo un taglio profondo sulla fronte e sangue sulle mani e sui vestiti. Vicino a una delle grate sono rimasti sdraiati due donne e un bambino. Una era svenuta; l’altra, in ginocchio, sputava sangue; il bambino era morto.
Non abbiamo più visto gli operai, nemmeno quelli che sono riusciti a scappare, ma credo di avere individuato certi lineamenti comuni tra gli uni e gli altri, di aver riconosciuto qualche faccia, nonostante lo sporco e la penombra.
Se almeno potessi recuperare l’orologio, saprei da quanto tempo stiamo viaggiando su questo treno catturato. Li ho supplicati di ridarmelo, ho promesso ricompense di valore, allettanti, ma ridono di me e mi insultano.
Un momento fa, quando mi sono svegliato, ho trovato di fianco a me la ventiquattrore, vuota e solcata di tagli di rasoio o di coltello, con la chiusura distrutta. Pieno di odio li ho chiamati ladri e cretini… Non gliene è importato. Una donna mi si è avvicinata e mi ha sputato in faccia imbrattando l’unica lente che mi è rimasta degli occhiali.
Adesso non gli rivolgo più la parola. Mi limito a restare al mio posto guardando dal finestrino continuamente, con la faccia attaccata al vetro e nascondendo quello che solamente io so con assoluta certezza: andiamo in circolo, non ci sarà nessuna stazione finale. No, non glielo dirò; preferisco che continuino a credere che avanziamo in linea retta verso la desiderata superficie, verso la luce. Ho delle prove di ciò che affermo: basta non smettere di guardare fuori e così verifico che, ogni tanto, nel groviglio di cavi anneriti che scorrono lungo le pareti, è ancora agganciato il mio contratto, sgualcito e sporco, macchiato di sangue, che a causa dell’aria sussulta ogni volta che passiamo, come una colomba ferita.
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Dajana Morelli. Traduttrice dallo spagnolo. Ha tradotto e curato Elogio dei regni dell’immaginario di Fernando Butazzoni (Arcoiris 2013) e Istantanee di inquietudine di Norberto Luis Romero (Arcoiris, 2012). Si è occupata della curatela di Fucilati all’alba. Rodolfo Walsh e il crimine di Suárez di Roberto Ferro (Arcoiris 2013). Sempre per Arcoiris, ha tradotto alcuni racconti dell’antologia Racconti ispanoamericani del terrore del XIX secolo (Arcoiris, 2015). Ha partecipato alla traduzione e alla redazione finale de Il mattatoio di Esteban Echeverría (Aracne 2010). Ha collaborato con “Sotto il vulcano”, blog dedicato al panorama letterario latinoamericano e alla scena culturale nordamericana e britannica, “Pagine Inattuali”, rivista di filosofia e letteratura e “Storie”, rivista internazionale di cultura.