Dovevamo necessariamente raggiungere Śambhala e se non era Śambhala saremmo andati da qualche altra parte, forse a Yahar’Gul o a Loran o nelle desolazioni barocche di Anor Londo.
Era pesante ogni movimento, come se radici nere ci attraversassero la carne e i polmoni. Era un complotto contro la nostra stessa esistenza e noi andavamo avanti con gli occhi sbarrati come fanali tossici e con la gola urlavamo e le urla correvano veloci sull’asfalto che puzzava di bagnato.
Volevamo sentire la voce di Cassilda, ascoltare il canto delle due lune, il volgere degli astri sulla terra gialla, guardare la maschera farsi finalmente pallida e allora udire il grido di orrore levarsi contro il cielo dove brillavano una miriade di stelle.
Dicevano che c’era un tizio che aveva afferrato qualcosa in un sogno, l’aveva stretto così forte che se l’era portato fino a qui, lo mormoravano in giro, lo ripetevano insistentemente nei vicoli dove ci perdevamo a bocca aperta con le lacrime che ci uscivano dagli occhi e non sapevamo nemmeno perché. Dicevano che l’aveva fatto a pezzi, che poi se l’era mangiato, se l’era buttato in vena con una siringa costruita da lui, una siringa serpente che ti saliva dentro che ti faceva il solletico alle vene, una lingua piumata che ti leccava dentro, che ti saliva nel cazzo e nella gola.
Lo bramavamo come lo bramano le nostre cappelle, lo bramavamo come si brama il sangue o si brama il collo delicato della vita.
L’avevamo inseguito, braccato, perduto, annusando la notte e ululando alla luna, sbavavamo, rantolavamo, puzzavamo di merda.
Noi che ci eravamo fatti male, che ci eravamo feriti contro innumerevoli muri, spaccati le mani, rotti la bocca e i denti. Noi che ci eravamo iniettati di tutto e delle volte eravamo riusciti anche a sorridere.
Era stata una di quelle notti di caccia, una di quelle corse con i polmoni strapieni di freddo. Mi ricordo di una risata che aveva come rotto ogni cosa. Una risata che aveva colorato la luce grigia, i colori da ospedale, che aveva preso il mondo. Come se si potesse così, di colpo, formare un piccolo calore.
Ricordo di aver indicato il cielo mentre strofinavo schiena al muro: sentivo un forte prurito, indicavo con le dita quelle bolle di colore, quei piccoli arcobaleni scintillanti.
Ricordo che ho detto, guarda, tu hai alzato gli occhi, mi viene voglia di mangiarli.

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In copertina: Anish Kapoor.