Nel film Potiche Catherine Deneuve è una ricca madre di famiglia che si trova a gestire l’azienda del marito. La donna ha successo, e, per motivi di lavoro, si trova a dover frequentare un suo ex amante, il deputato sindaco comunista, interpretato da Gérard Depardieu. A un certo punto del film – il deputato ha il sospetto di essere il padre del primogenito di lei – i due hanno un confronto, e lui scopre di non essere stato l’unica avventura extraconiugale della brava madre di famiglia. E ne rimane sconvolto.
«Ti avevo messa su un piedistallo!», le rinfaccia.
«Mi è capitato di scendere, e non me ne pento», gli risponde serafica lei.
Della tormentata relazione tra Robert Graves e Laura Riding ho dedotto un paio di cose: la prima è che lui l’aveva messa anche più in alto di un piedistallo, e la seconda è che ha fatto più danni lei, ai nervi di Robert, dei combattimenti in trincea durante la prima guerra mondiale.
Se le poesie scritte da donne suonano in genere artificiose, è perché vogliono essere imitazioni della poesia maschile. La donna che si occupa di poesia deve, a mio parere, o essere una musa silenziosa e ispirare i poeti con la sua presenza femminile […], oppure la Musa in senso completo […] e […] scrivere con l’autorità che le viene dalla notte dei tempi. Deve essere la luna visibile: imparziale, amorosa, severa, saggia.
(La Dea Bianca, p. 517)
Laura Riding è stata parte integrante e attiva nel processo creativo de La Dea Bianca, e, da quel che è possibile capire dai dati biografici, non doveva trovarsi a proprio agio a indossare i panni della Musa, detta anche la Triplice Dea, detta anche la Dea Bianca del titolo; tanto che, alla lettura del saggio, è andata su tutte le furie («Where once I reigned, now a whorish abomination has sprung to life, a Frankenstein pieced together from the shards of my life and thoughts» è stato il suo commento); ma a Robert Graves non interessa tanto la Dea, quanto piuttosto il recupero e la conservazione di uno specifico tipo di sguardo poetico, che lui colloca in quell’epoca arcaica in cui era la Dea Madre a regnare.
Se, da un lato, l’approccio di Graves alle vicende storico-culturali-mitologiche dell’antichità è stato molto criticato dall’ambiente accademico in quanto privo di oggettività, dall’altro è proprio l’originalità di tale metodo a conquistare il lettore, a patto che questo non si faccia intimidire dall’erudizione sfoggiata fin da subito dallo scrittore: La Dea Bianca è un libro molto passionale, che trova la sua forza e la sua debolezza nell’idealizzazione di un modello di pensiero (quello poetico, appunto) visto dallo scrittore come idilliaco, puro, vero; un mondo che avrebbe poi mostrato le crepe in Sette giorni fra mille anni, vero e proprio regolamento di conti con la terribile ex Laura e riflessione ben più matura sulla bellezza e la poesia.
Il vero esercizio poetico presuppone una mente armonizzata e illuminata in maniera così miracolosa, da esser capace di plasmare le parole, attraverso una catena di più che semplici coincidenze, e farne un’entità viva: una poesia che poi vive per conto proprio (magari per secoli dopo la morte dell’autore).
(La Dea Bianca, pp. 567-68)
È interessante notare quanto, ne La Dea Bianca, tutto l’apparato di miti e storie ancestrali venga vivificato dal dettaglio storico e dal rimando culturale, e quanto al contrario la Dea Bianca in sé rimanga priva di ogni concretezza, relegata al ruolo di garante della continuità del ciclo vita-morte-rinascita. Forse il punto più debole e contraddittorio dell’intera impalcatura de La Dea Bianca, quello che ha portato la Riding a definirlo un mostro di Frankenstein, è che non c’è una differenza sostanziale tra il tenere in ordine una casa ed essere adorate dal marito e il garantire il corretto andamento del moto perpetuo cosmico ed essere adorate dal poeta: si tratta in entrambi i casi di stati completamente privi di interesse, e di passione. Perché la passione (e di conseguenza l’amore, e con esso una vita che non sia un semplice accadere di fenomeni) è prerogativa del poeta.
La ragione per cui così pochi poeti continuano a scrivere e pubblicare poesia dopo i vent’anni non va necessariamente cercata (come pensavo un tempo) nella decadenza del mecenatismo e nell’impossibilità di guadagnarsi da vivere esercitando la professione di poeta. […] La ragione è che qualcosa muore dentro. Forse il poeta ha compromesso la propria integrità poetica attribuendo a un certo ambito di esperienza […] un valore superiore a quello della poesia. Ma forse ha anche smarrito il senso della Dea Bianca: la donna che egli aveva scambiato per Musa, o che era una Musa, si trasforma in una donna domestica che vorrebbe a sua volta addomesticarlo. La fedeltà gli impedisce di separarsi da lei, specie se è la madre dei suoi figli ed è fiera delle proprie abilità domestiche. E a mano a mano che la Musa svanisce, svanisce anche il poeta.
(La Dea Bianca, p. 519)
Sarebbe interessante un’interpretazione dell’intera impalcatura gravesiana in chiave interamente psicanalitica, soprattutto tenendo presente che La Dea Bianca tratta il mito esclusivamente da un punto di vista culturale e storico: lo stesso sguardo poetico arcaico, quello vero e puro, non ha alcuna impalcatura psicologica o caratteriale. Se la Dea è immutabile, il poeta è intercambiabile, la sua storia personale ininfluente e il suo carattere quasi irrilevante, perché le verità che questo deve comunicare sono eterne e universali. Abbiamo quindi due forze diverse e complementari in gioco, una che tende verso la trascendenza e l’immortalità (il poeta), l’altra a garantire il corretto svolgimento del ciclo vitale (la Dea)[i] .
“La Dea è onnipotente, la Dea è infinitamente saggia, la Dea è supremamente buona; tuttavia ci sono momenti in cui indossa la maschera del male e dell’inganno. Troppo a lungo, neocretesi, ha rivolto a voi il suo viso nudo e benigno; le consuetudini e la prosperità vi hanno reso ciechi difronte alla sua bellezza. Nella mia epoca barbara, un tempo di tenebre, ella portava una perpetua maschera di crudeltà davanti agli innumerevoli apostati che disertavano il suo servizio, e la toglieva, in segreto e di rado, solo per i pazzi, i poeti e gli amanti. […] Lei mi ha convocato dal passato come un seme di dolore, per donarvi un raccolto di dolore, poiché il vero amore e la vera saggezza nascono solo dalla sventura.”
(Sette giorni fra mille anni, p. 385)
In Sette giorni fra mille anni, romanzo anti-utopico immediatamente successivo a La Dea Bianca, le cose cambiano, e il perfetto mondo matriarcale mostra i suoi difetti, che si possono riassumere in un eccesso di simbiosi con la Dea e con il mondo da questa creato e nel conseguente annullamento della singola personalità.
Qui la Dea Madre si spezzetta in diversi caratteri femminili che ne illustrano un aspetto: Sally è la maga, Zaffiro la ninfa, Tonia la moglie, Erica il demone sensuale (nonché alter ego della crudele ma vivificante Laura); tuttavia, forse proprio grazie alla forma romanzesca, i caratteri sono più sfaccettati, contraddittori, più umani. L’idea stessa del male, della necessità del dolore come mezzo di crescita, dà spazio a un percorso di definizione di sé reciproco, maturo, doloroso e molto meno arbitrario della pura volontà di una dea.
L’idilliaca Nuova Creta, scenario del romanzo, è lo specchio declinato al femminile della disciplina poetica apollinea, criticata ne La Dea Bianca come pura forma stilistica sterile e fredda; sembra che Graves abbia smesso di idealizzare la Dea e chi la dovrebbe rappresentare, e abbia cominciato a considerare la venerazione come un mero punto di partenza verso la completezza, la quale, per essere raggiunta, necessita di una fase distruttiva.
“Il bene non coincide semplicemente con ciò che è normale. C’è un altro tipo di bene che è tanto al di sopra della normalità quanto ciò che è cattivo è al di sotto di essa; e quel tipo di bene può essere conosciuto soltanto in relazione a un altro concetto, che è il male”.
[…]
“Però non hai ancora definito il male. Se non è il venir meno a una funzione naturale, e se non è la normalità, che cos’è?”
“È il mezzo mediante il quale il bene supremo si distingue dalla mera normalità”.
[…]
“la bontà ordinaria diventa fetida e abitudinaria, e la Dea dimostra il suo amore distruggendo le consuetudini, reintroducendo il male.”
(Sette giorni fra mille anni, pp. 291-92)
Donne e uomini, in Sette giorni tra mille anni, finalmente si muovono, consapevoli della necessità del cambiamento. La destinazione di questo viaggio è sconosciuta, ma intanto sono scesi dal piedistallo e hanno cominciato a camminare.
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Robert Graves
La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico (1948)
Trad. it. Alberto Pelissero
Milano, Adelphi, 2009
pp. 596
Sette giorni fra mille anni (1949)
Trad. it. Silvia Bre
Roma, Nottetempo, 2015
pp. 411
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[i] Alle due forze complementari e interdipendenti ma impersonali di Graves mi viene da contrapporre il cervello androgino che Virginia Woolf auspica per l’artista: in questo caso non si tratta di dare voce a un qualcosa, ma di compiersi perfettamente come essere umano e, soprattutto, individuo. La trascendenza dell’opera d’arte si ottiene attraverso la completa (e consapevole, soprattutto) immanenza della percezione, con l’immersione (consapevole, sottolineo) nella vita, spostando l’attenzione dallo stato all’atto. Un approccio molto zen ed eracliteo che condivido in toto.