Traduzione a cura di Maria Cristina Cavassa.
In Laiseca 2017, 121-131 (postfazione a È il tuo turno); per gentile concessione dell’editore.
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Sono passati quarant’anni dalla pubblicazione del primo romanzo di Alberto Laiseca, È il tuo turno. Ancor prima, nell’agosto del 1973, il suo racconto Mi mujer compariva sul giornale «La Opinión» sotto lo pseudonimo di Dionisios Iseka. È il tuo turno è il romanzo con cui si presenta ai lettori uno scrittore che, tra estraneità e astuzia, mette in campo, forse come nessun altro, nuove regole di gioco nell’ammirevole ma sedentaria tradizione letteraria argentina.
Laiseca, coltivatore, bracciante, impiegato della compagnia dei telefoni, inserviente e uomo astuto in modo tuttora incalcolabile, è sempre stato vicino, soprattutto fisicamente, a critici di grande influenza. Nel portegno Bar Moderno, dove si radunavano negli anni Settanta, questo falso habitué ha fatto gradualmente conoscere proprio a tali influenti lettori il suo romanzo Los sorias, la finzione più vasta della letteratura argentina. Troviamo quindi in Laiseca un autore che dosa frammenti di un romanzo chilometrico, un traduttore scrupoloso del suo inedito romanzo totale. Il manoscritto, su fogli di diversi tipi e colori legati con lo spago, comincia a essere lodato sottovoce, ed è così che l’opera di un uomo dalla scarsa formazione accademica, totalmente a digiuno delle cose della Capitale Federale, indifferente a una critica alla quale tuttavia chiede attenzione, inizia a godere di un’impunità riservata esclusivamente ai personaggi di finzione.
C’è quindi, in questo ritratto, un elemento da considerare: le opere di Laiseca, al di là della data di pubblicazione, sono, tutte, posteriori a Los sorias. Posteriori in quanto subordinate a una logica che le include, sebbene siano state pubblicate prima. Dice Laiseca a Julián Velázquez: «Ho iniziato a scriverlo senza sapere che lo stavo scrivendo, e senza sapere che in futuro sarei stato uno scrittore (alza la voce), a nove anni! Che pazzo! Facevo un gioco solitario: ritagliavo figurine dalle riviste, o facevo io stesso dei disegnini, e giocavo alla guerra. Quello fu l’inizio de Los sorias, che ho finito nel 1982, ma possiamo dire che lo sto ancora scrivendo, capisci? Attraverso tutte le mie opere»[1].
In questo suo vagabondare per il Bar Moderno con quei fardelli dattiloscritti, in questa strategia unica di autopromozione che consiste nel confidare in un’opera letteraria (e letteralmente) ineludibile, nel posizionarsi abbastanza vicino ai critici da non dipendere dalla critica, stiamo delineando un Laiseca che, come autore, somiglia piuttosto a un personaggio. Ciò caratterizza ancora adesso il suo indefinito posto nella letteratura argentina: apprezzata ma da lontano, compresa fra quelle di grandi autori (per la critica più influente, Laiseca è un autore fra due virgole, disperso negli elenchi), la sua opera non ha ricevuto attenzione da una critica che invece si è dedicata ad autori di minor levatura e minor produzione.
Naturalmente Laiseca non è una vittima di tali circostanze (sebbene se ne dispiaccia): l’ideale per un’opera è far precipitare in uno stato catatonico la critica sua contemporanea; spogliarla, precisamente, della sua contemporaneità, della sua capacità di lettura e di interpretazione, della sua utilità e del suo bagaglio di concetti e metodi. È la finzione di Laiseca a rendere comunque disponibili nuovi strumenti per la critica, e non la critica a trovare categorie di analisi preesistenti per pensare la finzione di Laiseca. In questo senso, la sua opera, già da È il tuo turno, va in controtendenza rispetto a una finzione che da qualche tempo a questa parte si è abituata a scrivere piuttosto in favore della critica.
Unito, separato; vicino, lontano; coerenza, delirio
Per pensare a È il tuo turno e a tutta la narrativa di Laiseca secondo la logica de Los sorias occorre evidenziare che vi si cela una coerenza interna che rende possibile concepire quest’opera come se fosse un unico libro, un’enorme piramide con corridoi intercomunicanti fra libro e libro, a volte con personaggi che si spostano dall’uno all’altro, quasi sempre con riferimenti alla Tecnocrazia, il Paese utopico del suo romanzo-centro, e sempre con variazioni che servono a includere lo stesso Laiseca, diventato personaggio delle sue finzioni.
Questa specie di ipercoerenza coesiste, per quanto possa sembrare contraddittorio, con un elogio generale del delirio. La coesistenza dell’ipercoerenza e del delirio non dovrebbe essere un elemento minore in una letteratura, come quella argentina, che ha basato gran parte del suo immaginario culturale sulla separazione fra ciò che è “arretrato” (ma anche animale, anarchico, irrazionale) e ciò che è “attuale” (e, allo stesso tempo, razionale, stabile, secolarizzato). Questo si nota fin dai tempi della disputa fra unitari e federali seguita all’indipendenza nazionale, con gli unitari adepti di un’Europa “avanzata” e “civilizzata” al di sopra di un’altra, arretrata e dalle “nulle arti e scienze”, di influenza spagnola; nella disputa fra il gruppo di Florida e quello di Boedo all’inizio del XX secolo, fra Borges e Arlt, e poi fra Borges e Walsh; dicotomie che, al di là della loro impostazione e persino della loro artificiosità, raccontano di un immaginario che con ogni evidenza ha bisogno di separare, distinguere e gerarchizzare qualcosa che in Laiseca è integrato.
In quanto alla prima edizione del libro, che recava in copertina Su turno para morir, va evidenziato che il suo titolo fu in un certo qual modo imposto: prima e dopo, il titolo del romanzo è invece Su turno, e le versioni più diffuse sul perché dell’aggiunta sono due: poiché il libro faceva parte della «Serie Escarlata» della casa editrice Corregidor, collana che pubblicava gialli, il titolo doveva essere più consono al genere, e Su turno, così, tout court, non sembrava adeguato. La seconda versione implica la delicata situazione politica nella quale Laiseca ha iniziato il suo percorso letterario: dal marzo del 1976 fino al dicembre del 1983 l’Argentina ha vissuto la dittatura civico-militare più cruenta della sua storia. Un romanzo intitolato Su turno, la frase abitualmente adoperata negli alberghi a ore per informare le coppie che il loro “turno” di uso della stanza è finito, rientra senza dubbio nella sfera di attenzione della censura di uno Stato nazionale che, fin dal primo giorno, non ha badato alle metafore, o meglio, ha considerato praticamente ogni segno come metafora di idee di sinistra nel Paese (per esempio, fu censurata un’edizione di Cappuccetto rosso per l’allusione del colore). Ad ogni modo, è difficile spiegare come il romanzo sia riuscito a sfuggire, in tempi di roghi di libri e di sequestri e sparizioni dei loro autori, a obiezioni prevedibili, trattandosi di un romanzo che parla di picanas, di rapimenti, di detenzioni clandestine e di torture nei confronti di avversari politici e rappresentanti sindacali da parte delle forze di sicurezza e del potere politico. Una volta ancora, come nel Bar Moderno, Laiseca è allo stesso tempo troppo vicino per essere visto dalle logiche ufficiali, e troppo lontano per non essere un’attrazione.
«Sono un uomo che non è molti uomini, ma molte bestie»
Questo gioco fra l’essere e il non essere, fra una presenza assoluta e una lontananza irriducibile, è inestricabilmente legato al permanente oscillare della finzione di Laiseca fra personaggi subalterni, incapaci di modificare la realtà persino in maniera infima, e leader totalitari che cambiano tutta la realtà con gesti minimi. Spingendoci ancora più in là, le forze in disputa fra entità astratte come l’Essere e l’Antiessere costituiscono il fondamento cosmologico-morale di tutta la finzione di Laiseca. Questo schema sembra definire qualcosa: quanto più visibile, tanto più insignificante. Quanto più astratto, tanto più significativo. L’inizio stesso di È il tuo turno lo conferma: vi si mette a fuoco un personaggio subalterno, marginale sia per il filo della trama che per la struttura sindacale alla quale partecipa nella finzione. Il romanzo introduce la disputa per il controllo assoluto della città tra due megalomani: il detective John Craguin e “Poligono di tiro” O’Connor, alias “Nonna”. Quest’ultimo, inoltre, sembra essere cosciente del fatto che la sua lotta rappresenta solo un momento di una battaglia più generale e metafisica, come dichiara nel dialogo finale con Craguin.
Ecco dunque una dimensione nella quale le sue finzioni si stabilizzano: la dimensione cosmologica, nella quale, dietro tutti i deliri e l’umorismo deviato, come lo stesso Laiseca dice, «non si scherza più[2]». Ma esiste un altro modo di costruire questa finzione, quasi opposta a quella che rende possibile la linea cosmologica. Si tratta di un’altra dimensione che, in questo caso, è anche troppo concreta e particolare: quella che coinvolge la sua persona fisica, divenuta, ormai, personaggio. Perché la finzione di Laiseca è anche e forse fondamentalmente la finzione di Laiseca. Questo include i modi in cui egli si autodenomina, al di là dei suoi romanzi e dei suoi racconti (per esempio, nelle interviste), ormai in codice finzionale. «Controllore della Tecnocrazia», «Dittatore perpetuo di Camilo Aldao», «Conte Dracula», «Mostro», ecc.; e implica anche il modo in cui, lungo tutta la sua opera, vaghino personaggi «dal baffo nietzschiano», «di grande statura», «con un taccuino in tasca», «dalle parti del Bar Moderno», e che si chiamano Conde Láisek, Lai Chu Tsé, Personaje Iseka, Al Iseka (in È il tuo turno, l’allusione alla Ley Seca, la legge sul proibizionismo, non è affatto casuale: Laiseca è lacaniano, anche se la sua biblioteca di libri foderati di bianco impedisce di sapere cosa legge); comprende anche i suoi aneddoti appena verosimili, come quello della lettera che avrebbe scritto al presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson per partecipare alla guerra del Vietnam, e arriva fino alla sua letteralizzazione, come personaggio nel ciclo televisivo Cuentos de terror trasmesso via cavo dal canale I-Sat (negli anni 2002 e 2003) e nei film El artista (2008) e Querida, voy a comprar cigarrillos y vuelvo (2011). Questi elementi ci permettono di pensare che la finzione di Laiseca più che l’opera di un autore sia un’opera che rappresenta il suo autore. Un’opera che narra la coscienza, da parte dell’autore, del modo in cui le sue finzioni lo pensano. In questo senso, l’opera di Laiseca è forse la massima amplificazione possibile del sogno di Zhuang-zi: «Una volta Zhuang-zi sognò che era una farfalla […]. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhuang che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuang[3]».
In superficie
Nel pieno del discorso finzionale, Laiseca si blinda, si nasconde, o per meglio dire nasconde il canonico gesto di sovranità dell’autore nei confronti della sua opera. Di fatto qui non sembra esserci spazio per quel sua, per il gesto di possesso nei confronti di quanto creato. Uno dei più elementari fondamenti dell’arte, vale a dire l’originalità nella ricerca di uno stile (il modo in cui un autore arriva a padroneggiare, come si dice spesso, e significativamente, il linguaggio e le sue forme), qui scompare sotto formule, frasi fatte e frammenti di film e di opere letterarie di altri autori. Non è casuale che fra le sue pubblicazioni compaia il “saggio” intitolato Por favor, ¡plágienme! (1991), nel quale rivendica il plagio come territorio dello stile. Allo stesso tempo, i suoi personaggi e i suoi narratori si muovono a loro volta secondo questo codice: in È il tuo turno, John Craguin monta un inseguimento della polizia con suoni e riflettori per creare un’ambientazione che evochi L’anello del Nibelungo di Wagner; il narratore imita passi della Bibbia; si usano anglicismi non necessari; si “copia” il discorso tipico dell’afroamericano emarginato degli Stati Uniti, così come frasi di Shakespeare; “Nonna” imita per burla, senza curarsi di esprimersi correttamente, la lingua italiana e persino lo stile tipico della mafia secondo Hollywood. Ma andando oltre È il tuo turno, in El gusano máximo de la vida misma (1998), un personaggio maschera la sua voce riecheggiando Lope de Vega: «Al quattordicesimo orgasmo ebbe un arresto cardiaco. Morta sono. Confessione!»; nel racconto Las tetas y el péndulo (2004), un altro personaggio riproduce incessantemente frammenti di film di Roger Corman, Terence Fischer e Vincent Price. Personaggi e narratori, in definitiva, sembrano più compenetrati in un altro spazio piuttosto che nel loro. Nessuno che sia visibile, dunque, è responsabile del proprio ruolo, e questo impregna di un’ossessione per gli innesti tutto il discorso finzionale di Laiseca, che imita, non scrive; che maschera ciò che gli appartiene sotto frammenti fossilizzati di frasi usurate, rinunciando al modello canonico, all’ingenuità dell’invenzione chisciottesca e sottolineando, invece, il metodo del suo scudiero, che parlava come posseduto dai proverbi popolari.
Sotto la superficie
Se Laiseca scompare, come autore, sotto la maschera dell’innesto, scompare anche sotto una strategia da sottosuolo che, invece di aggiungere uno strato sopra la superficie, come dovrebbe essere secondo la strategia della maschera, lo fa sotto la superficie, narrando il suo backstage, mostrando i suoi fili. In questa zona radicale di camuffamento, non si narra neppure: si didascalizza, come in teatro, o si montano scene, come al cinema, o si dirige a partire dai sottintesi tecnici dell’opera. Quando le operazioni di blindatura dal di sopra e dal di sotto si incontrano, la finzione di Laiseca dice che plagia: dice che non c’è, come quando si bussa a una porta e da dentro rispondono che non c’è nessuno. E questo non possedere nulla di personale, tranne il promemoria continuo dell’alterità di ogni cosa, è paradossalmente parte dello stile personale di Laiseca.
Già da È il tuo turno, quindi, tanto il corpo del Laiseca-personaggio, frammentato dalla metonimia, quanto il carattere cosmologico (persino religioso, a volte) della sua opera, che si apre in una morale da epopea premoderna (in un mondo postmoderno), si costituiscono come due modi di montare la finzione Laiseca. Il che può essere utile, en passant, per pensarla “contro” finzioni di autori contemporanei e a lui vicini (fisicamente, affettivamente, ma non letterariamente) come Aira, Piglia o Fogwill: «Mi sento molto affine a Ricardo Piglia, César Aira e Fogwill, tuttavia alcuni di loro sono un tantino nichilisti, e io non mi permetto il nichilismo. Nonostante li ammiri e li ami, questo non lo condivido[4]».
Fra l’assoluto, che è incommensurabile, e l’individuale, fragile fino all’irrisorietà, Laiseca rappresenta il tutto in scala. In quanto passeggero della propria rappresentazione, si permette di sondare, qua e là, in quali battaglie l’universo si dissangua, quanto manca perché le forze più sinistre si impossessino di tutto, e cosa vuol dire resistere.
Puerto Madryn, 12 febbraio 2016
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[1] Velázquez 2013.
[2] Intervista personale a Laiseca del 18 luglio 2009, inedita.
[3] Zhuang-zi 1982, 32.
[4] Rapacioli 2011.
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Bibliografia
Laiseca 2017 = Laiseca A., È il tuo turno, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2017, traduzione di Francesco Verde.
Rapacioli 2011 = Rapacioli J.M., “El conde Laiseca”, intervista ad Alberto Laiseca, «El impostor inverosímil», 2011.
Velázquez 2013 = Velázquez J., “Hay que humanizar el poder para salvar la civilización humana”, intervista ad Alberto Laiseca, «Tiempo Argentino», Buenos Aires, 5 maggio 2013.
Zhuang-zi 1982 = Zhuang-zi [Chuang-tzu], traduzione di Carlo Laurenti e Christine Leverd, Milano, Adelphi, 1982.
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