Bianca Mastronardi era una sgualdrinella da quattro soldi, una biondona tutte curve che faceva girare la testa agli uomini nonostante non si potesse definire bellissima. Per un semestre intero si era fatta fottere dal professor Montecedro di quarant’anni più grande. Il giorno dopo aver sostenuto l’esame di “introduzione alla gravità quantistica” e aver preso la lode dopo aver risposto — Un miliardo elevato alla più infinito — alla domanda del professore — Mi dica quanto mi ama in una scala di numeri reali — l’aveva lasciato dicendo che cercava un uomo più spensierato.
Ora, il professore nell’aula gremita sosteneva una lezione sullo spazio-tempo fissando il quarto seggiolino di sinistra della prima fila dove lei, Bianca, si sedeva sempre con la sua minigonna e la gambe divaricate senza mutande. Era il loro gioco, trovavano eccitante un papabile premio Nobel che spiegava la teoria unificata di campo con il cazzo duro. Adesso, al posto di lei, era seduto un brufoloso studente Erasmus proveniente dal Belgio e la lezione, invece che essere accompagnata da fantasie libidinose, faceva da sfondo a pensieri suicidi.
Giorgio Tommaso detto Gino e Nicola detto Nico, aspirante ad avere una formula matematica avente il suo nome, il primo, e futuro docente di matematica e fisica all’istituto tecnico, l’altro, ascoltavano estasiati la lezione di Montecedro.
— Ed è quindi per questo — echeggiava nell’aula la voce del professore — che per avere un modello matematico coerente con la fisica quantistica e la relatività einsteiniana abbiamo la necessità di introdurre il concetto di campo quantistico —. Poi con un tono più confidenziale disse:
— Questa è la vostra sfida, unificare le due teorie, riuscire dove noi abbiamo fallito. E qual è la prova tangibile che cioè è possibile? Lo chiedo a voi. Chi ci dice che le due teorie per natura non possono restare separate?
Il silenzio più assoluto cadde nell’aula, nessuno studente si azzardava a rispondere.
— Siamo noi! — pronunciò con enfasi il professore — Particelle ordinate, tenute insieme da energia che studiano altre particelle. Esistiamo all’interno dello spazio-tempo eppure siamo composti da particelle che rispondono alle leggi quantistiche. Noi corriamo, respiriamo, amiamo!
Su quest’ultima frase scoppiò a piangere destando lo stupore di tutti gli studenti.
— La lezione è finita — disse, e uscì di corsa dall’aula.
Appena la porta si richiuse gli studenti esplosero in uno scomposto schiamazzo: chi rideva, chi spettegolava, qualcuno urlava qualche battuta di cattivo gusto.
— Che sensibilità! — fece Nicola — Sente che la sua generazione ha fallito, non sono riusciti a unificare le teorie e si è commosso. Si sente responsabile.
— Non credo sia per questo — gli rispose l’amico — credo sia più per l’idea della nostra natura atomica, dell’inconcepibilità della vita rispetto all’Universo. Pensare sempre per massimi sistemi ti fa diventare pazzo. Il nostro cervello si è evoluto per ragionare in scale di grandezza a misura della Terra, anzi a misura di un altipiano. Ti dirò: preparare questo esame mi fa tornare gli attacchi d’ansia.
— Ci credo, lo superano in due a sessione.
— Ma no, mi riferivo al pensare sempre all’Universo che si espande, i buchi neri, il tempo come dimensione e tutto il resto. Niente ha senso quando sai che passato presente e futuro esistono contemporaneamente.
— Senti — gli fece Nicola — io non so quanti esami di matematica ho sostenuto per dare a tutto questo un senso.
— Ma no! Intendevo la vita umana, l’esistenza non ha senso. Anzi, che vuol dire esistenza?
— Secondo me, se credessi in Dio, accantoneresti la maggior parte delle tue paranoie.
— Ma Nico falla finita, in facoltà ti sfottono tutti proprio per questo. Ma dico io! Un astrofisico che prende l’ostia la domenica!
— E poi pensi male. Invece di stare chino sui libri, ti scervelli su queste fregnacce da filosofo. Quanto vivi male.
La conversazione morì lì anche perché Gino guardando l’ora disse:
— Dobbiamo andare.
— Credi sia il caso?
— Al massimo non ci riceve.
I due si incamminarono verso l’ufficio di Montecedro; salirono un paio di piani a piedi e percorsero un corridoio dove si affacciavano i laboratori dei ricercatori. Dalle porte aperte si intravedevano delle stanzette piene di libri, scartoffie, macchinari, provette, computer e sfigati dottorandi che si aggiravano con i loro camici bianchi e la povertà di spirito segnata sul volto, di chi è talmente specializzato nella propria materia da non poter coltivare nessun altro interesso al di fuori del lavoro. Ragazzi che disquisivano di neutrini, bosoni e stringhe di giorno e di X-factor la sera, dei geni che sembravano degli imbecilli quando parlavano di politica.
In fondo al corridoio stava l’ufficio del professore. Nicola bussò.
— Avanti — disse una voce rotta dal pianto.
Gino rivolse gli occhi al cielo mentre l’altro aprì la porta.
— Permesso professore, siamo Durante e Miani, siamo qui per il ricevimento.
— Ah prego, prego — disse l’uomo soffiandosi il naso e tentando di darsi un contegno. Aveva gli occhi rossi e umidi cerchiati da profondi solchi e del moccio acquoso gli colava sul labbro.
Era tanto affascinante in un’aula gremita a incantare gli studenti con le proprie lezioni quanto ridicolo in quella stanzetta grigia. Da così vicino erano evidenti gli sforzi di quel signore vicino alla pensione tesi a ingannare il tempo e ad assecondare la crisi di mezza età: i pochi capelli erano tinti di nero e impomatati all’indietro, indossava un’attillata polo rossa firmata con il colletto tirato all’insù, pantaloni a sigaretta la cui patta era coperta dalla pancia gonfia e scarpe da ginnastica di moda fra le matricole.
— Allora signori, come posso esservi ut…— non riuscì a finire la frase che riscoppiò in un pianto disperato.
I ragazzi si guardarono imbarazzati.
— Scusate ora mi riprendo. È così difficile da accettare.
Nicola si fece coraggio e con tono premuroso gli fece: — Sa professore, in certi casi può essere d’aiuto rivolgersi a Dio.
— Oh, caro — gli rispose singhiozzando — ho pregato, pregato a lungo, ma non è servito a niente. Voi potete capire?
A quel punto intervenne Gino: — Sì, anche a me succede di provare un profondo senso di panico, di terrore pensando all’insensatezza dell’esistenza.
— Esatto, ora niente ha più senso, mangiare, studiare, vivere.
— Sì, la capisco perfettamente — continuò Giorgio Tommaso.
Il professore alzò la testa e lo guardò come se finalmente avesse trovato uno spirito affine.
— Quindi anche lei è stato lasciato da poco? — gli chiese.
Gino rimase interdetto.
— Mi scusi professore, forse ho capito male, lei è rimasto turbato per l’unificazione di campo, giusto?
— Ma che me ne fotte del dell’unificazione di campo! — rispose affondando la testa nelle mani. — Mi ha abbandonato, capite? Diceva che non poteva vivere senza di me, che voleva sentire le cose con me, che come faceva l’amore con me non l’aveva mai fatto con nessuno!
I due, muti, erano ancora più a disagio.
— Bianca, la mia Bianca — ripeteva come un lamento — Bibi. Bianca Mastronardi la conoscete?
— Mah, insomma — fece Nicola — di vista.
— Mi ha abbandonato. Io che ho fatto di tutto per lei, le ho dedicato ogni premura possibile, ogni attenzione. Ho pure lasciato mia moglie. Ma come si può smettere di amare da un giorno all’altro?
I ragazzi restarono in silenzio non sapendo che dire. Allora Gino fece:
— Professore, riguardo la nostra tesi…
— Che me ne frega della tua tesi, che me ne frega di tutto!
Si alzò in piedi e afferrò il volto di Nicola con entrambe le mani, lo strattonò e lo baciò appassionatamente. Il ragazzo, colto alla sprovvista, aveva gli occhi spalancati e la lingua del professore in bocca. La scrivania si frapponeva tra i loro corpi. Gli ci volle qualche secondo prima di rendersi conto di cosa stesse accadendo e staccarsi con vigore da quel bacio inaspettato.
— Ma cosa fa? È impazzito? —urlò.
Giorgio Tommaso, dal canto suo, era spaventato e divertito allo stesso tempo. Già pregustava il momento in cui avrebbe raccontato questa scena agli amici.
Montecedro intanto, come se nulla fosse, smise di piangere e si risedette accavallando le gambe.
— Quando moriremo — disse — diverremo energia ed entropia e allora io e lei torneremo ad essere una cosa sola. Andate ora, da oggi il professore è in pensione.
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