Il desiderio si configura come un’esperienza di perdita di controllo e governo di noi stessi che esorbita dall’Io e dalla sua ragione e ci turba: «non sono mai “io” che decido il mio desiderio, ma è il desiderio che decide me, che mi ustiona, mi sconvolge, mi rapisce, mi entusiasma, mi inquieta, mi anima, mi strazia, mi potenzia, mi porta via»[1]. Desiderare significa lasciarsi decentrare e rendere vulnerabili ed esposti.
Non è un caso che il desiderio sia stato considerato filosoficamente pericoloso; minacciando di indebolire l’attitudine al distacco, il desiderio mette in evidenza la disperazione della filosofia[2]. Nel solco di una lunga tradizione inaugurata da Platone, quest’ultima, infatti, non potendo accettare il desiderio in quanto tale, vista la sua inimicizia col sapere, ha da sempre cercato di educarlo, indirizzandolo verso un oggetto ideale o trasformandolo e normativizzandolo[3].
Nonostante gli illustri tentativi filosofici, «l’esperienza del desiderio non si può confinare, restringere, assimilare a quella dell’Io padrone, non è mai esperienza dell’identico, di ciò che Io penso di essere, non è esperienza autoreferenziale e narcisistica dell’Io»[4].
Kojéve, nella sua celebre lettura de La Fenolenologia dello Spirito di Hegel, sembra essere consapevole di questa condizione umana quando afferma che non esiste nessun soggetto precedente il desiderio, ma è attraverso l’esperienza stessa del desiderare che l’essere umano giunge a dire «Io».
Soggetti non si nasce, si diventa, potremo dire parafrasando Simone De Beauvoir; solo «nel e mediante, o meglio ancora come “suo” desiderio, l’uomo si costituisce e si rivela – a sé e agli altri – come un Io»[5].
Vediamo, dunque, come un’esperienza tanto inquietante sia indispensabile per il nostro processo di auto-identificazione.
Nella Fenomenologia, il desiderio al primo stadio di apparizione è espresso dal termine tedesco Begierde, che si riferisce all’appetito animale verso il mondo sensibile, desiderato per la sopravvivenza e la riproduzione della vita. La Begierde costituisce l’impulso indispensabile a dare inizio al viaggio del soggetto di desiderio, ma il suo significato è destinato ben presto a modificarsi.
Kojéve sottolinea come l’Io del desiderio non sia preesistente al desiderio, ma sia piuttosto una mancanza, un vuoto, che riceve un contenuto positivo reale dall’azione negatrice che soddisfa il desiderio, distruggendo e assimilando il non-Io desiderato. Il contenuto positivo dell’Io, dunque, risulta essere una funzione del contenuto positivo del non-Io negato[6], in altre parole: «L’Io creato dalla soddisfazione attiva di un tale desiderio avrà la medesima natura delle cose verso cui questo desiderio si dirige: sarà un Io “cosale”, un Io meramente vivente, un Io animale».[7]
Finché ci troviamo nella dimensione del desiderio-Begierde, quindi, l’Io è chiuso in una relazione con il mondo che non gli permette di trascendere l’essere dato. La dimensione naturale, infatti, è caratterizzata da un eterno movimento di consumo che non può che offrire una soddisfazione provvisoria e mantenere il circolo del desiderio all’infinito senza giungere mai a una pienezza e senza andar oltre la consapevolezza di un’indipendenza dell’oggetto dal soggetto[8].
Se il desiderio animale è la condizione necessaria dell’autocoscienza, di un Io autonomo e libero, non ne è la condizione sufficiente.[9]
A questo punto, si introduce un passaggio decisivo: «perché ci sia autocoscienza, occorre che il desiderio si diriga verso un oggetto non-naturale, verso qualcosa che oltrepassi la realtà data»[10]. Per andare oltre la dimensione naturale e animale dell’Io, occorre che il desiderio dall’Essere dato si rivolga verso un non-Essere e la sola cosa che oltrepassi la realtà data è il desiderio prima di ogni soddisfazione, nella sua condizione di «vuoto irreale»[11].
L’unica alterità, grazie alla quale l’autocoscienza può raggiungere il proprio appagamento, è un’altra autocoscienza. L’incontro tra le autocoscienze, tuttavia, non coincide con l’immediata possibilità di soddisfazione, piuttosto espone il soggetto all’esperienza della perdita di sé.
La filosofa americana Judith Butler descrive bene la drammaticità e l’inquietudine racchiusa in questa esperienza: l’autocoscienza iniziale, non cercando più di consumare l’Altro come aveva cercato di consumare gli oggetti del mondo, si trova completamente assorbita.
L’autocoscienza […] si aspetta inizialmente che l’Altro sia un mezzo passivo di riflessione del sé, che l’altro rispecchierà il sé giacché esso vi assomiglia. L’autocoscienza si aspetta ingenuamente, forse proiettando in questa relazione la sua esperienza con gli oggetti, che l’Altro sarà passivo tanto quanto lo sono gli oggetti e che differirà da quest’ultimi solo in quanto può riflettere la struttura dell’autocoscienza. Com’è evidente, quest’autocoscienza iniziale non prendeva abbastanza seriamente il grado di somiglianza che l’Altro ha, effettivamente, con il sé […] e così si scandalizza della libertà e dell’indipendenza che esso dimostra[12].
L’autocoscienza iniziale si scopre dunque come essere ek-statico, completamente abbandonato all’Altro.
Il senso di perdita di sé e alienazione del soggetto desiderante, che si scopre sottomesso all’oggetto del suo desiderio, diventa la molla per la lotta che l’autocoscienza iniziale ingaggia per emanciparsi dalla dipendenza dall’Altro e ottenere riconoscimento.
L’esperienza ek-statica di uscire da sé innescata dal desiderio dell’Altro – così come la figure della lotta per il riconoscimento e la dialettica servo-padrone – è un passaggio necessario per il processo di riconoscimento e di affermazione dell’Io libero e autonomo.
Il desiderio, dunque, lungi da essere l’effetto della volontà, è piuttosto ciò che mette in discussione il soggetto e il potere che esso pensa di esercitare su se stesso per introdursi a quel faticoso processo di costruzione dell’Io che passa per l’incontro con l’Altro.
L’esperienza di desiderio, come sottolinea giustamente Butler, non riconsegna mai il soggetto identico a se stesso, ma continuamente modificato dalla contaminazione con l’Altro, con quella libertà incarnata nella quale esso rischia di perdersi.
Il desiderio non è quindi semplicemente una forza disordinante; al contrario, al fondo della dimensione ek-statica cui esso conduce c’è la promessa di riformulare i confini dell’Io, trovandosi ogni volta trasformato dall’incontro con l’Altro, e la manifestazione della sua natura relazionale ed estremamente vulnerabile.
[1] M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Milano, 2012, p. 28.
[2] J. Butler, Soggetti di desiderio, Roma-Bari, 2009.
[3] B. Moroncini, «Le verità parziali», in B. Moroncini e R, Petrillo, L’etica del desiderio, Napoli, 2007, p. 10.
[4] M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Milano, 2012, p. 28.
[5] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, , Milano, 1996. 17-18.
[6] Ivi, p. 18.
[7] Ibidem.
[8] Nel capitolo dell’Enciclopedia dedicato alla Fenomenologia, Hegel scrive: “[…] il desiderio, così, nel suo appagamento, è in generale distruttivo, così come, secondo il suo contenuto, è egoistico. E poiché l’appagamento è avvenuto soltanto nel singolo, ma quest’ultimo è transuente, all’ora nell’appagamento il desiderio si riproduce”. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Filosofia dello spirito, Milano, 1996.
[9] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, 1996. 17-18.
[10] Ivi, p. 19.
[11] Ibidem.
[12] J. Butler, Soggetti di desiderio, Roma-Bari, 2009, p. 55.
La meccanica del desiderio è apparso sul secondo numero di Ô Metis.