Danzano uno sull’altra, lei gli cinge il collo con le braccia quanto più delicatamente le riesce – come se non volesse romperlo, come se fosse la cosa più preziosa. Le sue braccia sono il vento, lo sfiorano piano, gli accarezzano la nuca, le dita fra i capelli corti. Lui le prende i fianchi con le dita, la tiene stretta a sé, forte, in alcuni momenti le sembra di essere attraversata dai suoi polpastrelli pronti a scavarle dentro e trascinarle fuori dal corpo gli organi interni e tutti i sentimenti. Non è come quando le infila le mani sotto la gonna. Non è per fare del vittimismo, non è per fare del vittimismo, non è per fare del vittimismo. Come si può fare del vittimismo quando si è il principale (se non l’unico) carnefice di sé stessi?
La loro danza è vuota – che per definizione è un ossimoro. La loro danza non crea la vita, fa anzi appassire le piante, fa intristire i fiori, fa guaire i cuccioli e piangere i bambini.
Lei chiude gli occhi e poggia la fronte sulla spalla dell’unico altro essere umano a parte sé stessa che sa come sgretolare ogni certezza, come prendere ogni particella del suo corpo con le pinze, chiuderla in un barattolo, agitarlo e rovesciarlo su una qualsiasi superficie piana, riprendere ogni singola particella con un’altra pinza (più piccola) e ricomporre un organismo tutto diverso. A sua immagine e somiglianza.
Lui ha le spalle larghe e la schiena muscolosa, lei si sente incredibilmente debole al confronto. Sa che in realtà dei due lei potrebbe avere la meglio anche solo volendolo, Ma non fa nulla. Il nulla è ciò che diventa. Si arrende, non crede, non spera, non fa. Non rende reale quello che pensa, non rende un progetto concreto le idee che gli racconta dopo aver fatto l’amore.
Per lui è solo sesso, lo sa, l’ha saputo dal momento in cui gliel’ha messo dentro la prima volta. Se ne pentirà, non sa cosa lo aspetta. Si mette un po’ di mascara sulle ciglia giusto per far finta di avere occhi più grandi di quanto non siano davvero. È tutta una finta, tutto un fallimento. Stringe le palpebre senza che nessuno se ne accorga. Nemmeno un briciolo di luce deve entrarle negli occhi e colpire i bulbi oculari. Ha una gran voglia di lasciarsi cadere all’indietro e nel frattempo premersi le mani sulle orecchie per chiudere fuori tutti i rumori, le urla, le parole, i guaiti.
Apre gli occhi e lo guarda. Lui non la sta guardando, è perso da qualche parte. Lei cerca disperatamente il suo sguardo in cerca di approvazione (di cosa poi? Guardami, esisto, sono molto brava a esistere!) (No, non sai fare manco quello) (Ride).
Si lascia ignorare dalle mani sui fianchi, dalle mani fra le cosce, dalle labbra che si rifiutano di baciarla, dal cazzo duro nei pantaloni che però se la vorrebbe scopare in quel parcheggio vuoto. Lei geme quando la tocca. Sono gemiti vuoti, provocati da qualcosa che non è amore, non è desiderio. È frustrazione e noia, un mix letale che ti manda in coma a calci in culo e non ti permette di svegliarti mai più.
Continuano a danzare, si muovono poco a destra, un po’ più a sinistra. Girano su loro stessi, lei pensa per un secondo che lui la prenderà per mano e le farà compiere mille piroette ridendo come se nulla fosse, come un bimbetto su un’altalena. Una cazzo di altalena piena di chiodi arrugginiti che scricchiolano fortissimo.
La corda si spezza con uno schiocco rumoroso e lei è con il culo per terra.
Il vestito le si è alzato un po’ sulle cosce, si vedono a malapena i peli biondi che costellano la pelle bianca.
Il vestito è viola a pois rosa, il colletto arrotondato, il merletto delle maniche un po’ bombate. I piedi stanno dentro a scarpe alte col tacco di sughero, zeppe nere con un fiore nero che decora il collo del piede. Forse sono state quelle a farle perdere l’equilibrio. Non indossa le calze, fa caldo, se sta seduta per troppo tempo un velo di sudore le ricopre l’interno delle cosce.
A lei fa schifo ricordare anche solo vagamente quanto le piacesse fare l’amore con lui, di quanto urlasse, di quanto non le piacesse farsi masturbare con la delicatezza di un bove in primavera, e si toglie le scarpe a calci, rompendo le fibbie e i cinturini da quattro soldi. Ricorda di aver comprato quelle scarpe insieme a sua madre, il primo paio di scarpe con il tacco che avessero mai abbracciato i suoi piedi callosi da ballerina. Passare dalle scarpe con la suola di gomma alle scarpe col tacco otto non era stato facile, aveva rischiato di rompersi le caviglie (di cadere come le modelle coi malleoli e i menischi sempre sull’orlo della morte), ma camminava fiera pensando che il suo culo pieno di cellulite sembrava meno cadente quando indossava quel preciso tipo di scarpe. Lei ha questo vizio strano e immotivato di denigrarsi continuamente, di vedersi attraverso il filtro delle lenti spesse dei suoi occhiali da vista.
Ci sente bene.
Ci sente benissimo, sa riconoscere le bugie, ma solo quando non si tratta di lui, l’unica persona a parte lei che sappia distruggerla e decomporla e metterle nelle orecchie pulci che le intasano il cervello con informazioni totalmente false. Titoli di importanti giornali che sconvolgono il lettore. L’annuncio della fine della guerra.
Una delle pulci è ancora attaccata alla base del suo cervelletto, ogni tanto si affaccia e crea scompiglio. Si vive meglio quando è in letargo – un letargo che spesso dura solo pochi secondi.
Mentre è col culo per terra pensa a quanto sia duro il pavimento, pensa a quanto sia duro accettare il fatto che si è accontentata di una persona che la odia (lui la guarda dall’alto e ride di come l’abbia messa al tappeto senza muovere un dito), pensa a quanto sarebbe duro il suo cazzo se fosse un uomo al cospetto di una ragazzetta coi capelli scompigliati e la gonna che lascia intravedere le cosce ma non abbastanza da scorgere gli slip. Ai limiti dello stupro.
Muove il bacino contro il pavimento, si massaggia l’osso sacro sulla superficie scomoda e chiude gli occhi. Respira piano e a ogni respiro la sua fisicità si espande, i suoi movimenti si espandono, i suoi respiri e i suoi sospiri si espandono. Tutto si espande tranne la sensazione di rigidità del suo osso sacro contro la superficie dura del pavimento che diventa morbido e umido. Un cantante americano morto con la voce profonda canta in lontananza e gli uccelli cantano accanto e tutto intorno a lei.
Non è più seduta su un pavimento duro. Le sue chiappe sono a diretto contatto con il prato umido e verde. È totalmente nuda, le formiche le risalgono sulle gambe pelose. Alza le braccia e le api le volano intorno alle ascelle. Ha ancora gli occhi chiusi e non ha paura del buio, sente la luce del sole sbatterle addosso, toccarle i seni gentilmente – come nessun essere umano ha fatto fino ad allora.
Quando scansa via le palpebre dai bulbi oculari la luce le colpisce le iridi e non vede nulla. Sente tutto. È nuda, in pace col mondo.
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In copertina: Francesca Woodman, Untitled, New York, 1979-1980.