«Signore, sta sanguinando dal naso!».
La goccia di ferro cadde nel bicchiere e fiorì come una nuvola. Lui, l’uomo, il naso, tirò e ingoiò. Poi bevve il bianco senza accorgersi dell’intrusione.
«Gente, correte», strillò ancora la donna, «il Signore sta sanguinando dal naso!».
La galleria fu percorsa da uomini e donne che, con distinzione, curiosarono sul fatto. Lui, l’uomo della goccia, guardò la donna e portò mano alla narice. C’era, il sangue. E per la prima volta lo vide. Rosso e oleoso, come il residuo di una corteccia. Ne ebbe capogiro. La mente tagliata da una pugnalata ideale: sé lontano da sé, sé disgiunto, la goccia di sé. Deboli le ginocchia, scricchiolanti sotto il peso del vuoto. E cadde nell’indifferenza della folla.

La TAC evidenziò una massa anomala nel corpo calloso fra i due emisferi del cervello. In corrispondenza del lobo frontale. Il medico invitò alla calma. La grandezza di una lenticchia. C’era solo da monitorare nei mesi successivi.
Mi chiamo Fiorenzo, ho trent’anni e faccio l’idraulico. Niente tabacco, non respiro fumi tossici. Ho solo il vizio dell’arte e da bambino disegnavo piuttosto bene. Sono in perfetta salute. Ma una lenticchia in mezzo alla testa a volte mi fa sanguinare dal naso. Poche gocce. Ci si fa l’abitudine. Porto abiti scuri perché il sangue si nasconde meglio.

In un paio d’anni la lenticchia fu cecio. Fiorenzo smise di lavorare, e con i certificati giusti riuscì a vivere di invalidità. Un tenore sereno e poco pretenzioso. Buono per mille anni senza troppi affanni, senza troppi amori, senza troppi odi. Ma qualcosa gradualmente cambiava. Sbalzi umorali sempre più acuti. Gli specialisti consigliavano d’industriarsi. Lo specchio in cui ci si ammira, l’altro, fa pagare l’inattività con l’accidia. Forme blande di depressione, da monitorare nei prossimi mesi. O forse no.

Un acquazzone pomeridiano lo sorprese per strada. Conosceva a memoria il museo di fronte. Ma era lì che aveva sanguinato la prima volta. E stranamente non c’era più tornato.
Percorse le sale diretto al dunque. Lì, ultimo della fila, pendeva ancora il Cristo anonimo che stava ammirando quando accadde il fatto. Poca gente. Gocce di pioggia a resistenza sugli impermeabili e sulla stoffa atomica degli ombrelli. In un angolo un vecchino col libro in mano. È asciutto. È lì da tempo.
La targa recita “anonimo fiammingo, ‘800”. Il Cristo ha la pelle bruna e un accenno di sorriso. Alle sue spalle un paesaggio marino. Le vele bianche di alcune imbarcazioni rompono l’orizzonte. E lui siede, con la veste aperta in petto e lo sguardo chiuso nel vuoto.
Fiorenzo notò una cosa che non aveva notato prima: una goccia di sangue scendeva dal naso del Cristo e si fermava poco sopra il labbro. Ne rise. Nessun bisogno di sottolineare il caso, il paradosso. Fece un passo indietro e sedette accanto al vecchio.
«L’ha notato? Gesù sanguina dal naso», gli fece.
Il vecchio non alzò l’occhio dalla pagina. Annuì.
«Chissà chi è l’autore», aggiunse Fiorenzo.
«L’autore è sempre il colpevole», disse il vecchio, «io passo molte ore qui, e fanno tutti le tue stesse considerazioni, ragazzo, “Gesù sanguina dal naso, e chissà chi è l’autore”. Ma la vera domanda è: chi è l’uomo raffigurato?».
Fiorenzo non rispose. Cercò invano qualche indizio. Ma il paesaggio era spoglio e l’uomo non aveva alcun oggetto oltre la veste bianca. E la goccia di sangue. E il mezzo sorriso.
Il vecchio riprese:
«Non rispondi eh, figliolo? L’uomo non ha più immaginazione. Perché non ha più verità. L’immaginazione senza verità è inconcepibile, come la forma senza sostanza. Come la disobbedienza senza le regole. Io ho fatto il poliziotto quando per strada c’erano le P38. E sono ben lieto, perché ho imparato a diagnosticare. A fare paradigmi. Ebbene, esistono tre tipi di anime al mondo. E io le individuo di fronte a questo quadro. Ci sono le guardie, gli uomini che vivono secondo legge, che credono che questo Cristo sia un pescatore… perché per loro tutto è come sembra, tutto è semplice, tutto ciò che vedono trova spiegazione in ciò che sanno. Poi ci sono i ladri, che credono che questo Cristo sia un naufrago, perché non ha più oggetti e non ritengono la cosa possibile. E infine ci sono i potenti che non sono né guardie né ladri, perché tracciano quotidianamente e a proprio gusto il confine fra bene e male.
Il vecchio tacque. Il pungolo della vanità.
«E che ci vedono i potenti?».
«Che domande, ragazzo. I potenti lo chiamano “il Cristo cocainomane”».

Quando il cecio fu fagiolo, l’uomo aveva ciuffi bianchi sparsi nelle tempie. I medici suggerivano di non intervenire. Il ritmo di crescita era lento, mentre un qualsiasi intervento per poter esaminare la natura della massa estranea avrebbe potuto essere fatale.
Mi chiamo Fiorenzo, ho quasi quarant’anni e ho un altro cervello che cresce nel mio. I pensieri non vengono influenzati. Ma qualcosa preme contro le mie emozioni e le distorce. Tuttavia riesco a vivere. Resto a letto quando l’umore me lo impone. Esco quando sono leggero. Mi interesso di tutto. Non faccio mio niente.

Illustrazione di Irene Servillo

Illustrazione di Irene Servillo

Tornò al museo. Passò di fianco a un gruppo di studenti. Respirò le loro incertezze. Sentì colmarsi, dentro, la brocca delle insensatezze. Si sentì forte, spericolato. Avvertì dall’esterno il crepitare dell’ossigeno mentre il sole si ergeva a mezzogiorno. E poco distante dal centro città, fu sicuro che in una zolla di terra dimenticata dall’ingegneria urbana da uno stelo sfrigolasse via un lembo azzurro di lillà. S’inturgidì nelle mutande.
Mentre andava al Cristo cocainomane, superò una donna che era madre. Piacevole d’aspetto. Rallentò. Sentì alle sue spalle, provenire dalla donna, il brontolio delle squame di due anime che stridono verso il bocchettone d’uscita. E s’incastrano. In prigionia. Come muscoli che conservano troppa energia perché sappiano ancora muoversi.
Quella donna amava il figlio ma ne desiderava la morte per tornare a essere libera. Un arbusto secco sembrò crescere nel petto di Fiorenzo, coi rami che trafiggono i polmoni e aprono la cassa toracica. Una cascata d’acqua e sale sgorga da dentro. E si spense, mentre cercava il dipinto.
Il vecchino, testa nel libro, si voltò verso Fiorenzo senza neanche averlo sentito arrivare. Chiamato dagli stessi fiotti d’aria che spingono le rondini lontano dai disastri. Gli si avvicinò. L’occhio brutale di chi taglia il mondo. Lo guardò stretto. Mentre Fiorenzo percepiva alzarsi la marea che fa il terrore, fino al busto, poi alla gola. Lì il vecchio sgranò gli occhi. Il mare nella bocca, bolle d’aria e il vuoto che si riempie.
«Sei… sei tu!», con un filo di voce, e scappò via dalla sala. Per non tornare più.
Fiorenzo, solo alla tela e alla maledizione, attese di comprendere chi fosse il Cristo. Attese l’indizio nascosto dell’autore, la confessione del colpevole. Quando una donna dalle tinte conosciute si avvicinò. In silenzio, presa dal dilemma.
«Cosa crede che sia? Un pescatore o un naufrago?», le chiese.
«Non l’avevo mai posta in questo modo», rispose la donna, «ma ora che mi ci fa pensare… credo che sia qualcosa di più grande. Qualcosa che trascende. Non è un pescatore, perché sorride, e chi lavora non sorride. Ma sebbene il sorriso ne farebbe un naufrago, perché libero, non è neanche un naufrago. Perché ha la veste limpida di chi non conosce tribolazione».
Tacque. Mentre a Fiorenzo giungevano sotto i piedi i turbinii delle materie incandescenti che fanno i pianeti in giovinezza. Poi aggiunse:
«Credo sia un dannato. Perché non ha bisogni o desideri. Perché non ha niente e niente vuole».
«Ma prova dolore», fece lui, «non vede il sangue?».
«Il sangue non è dolore. È esubero di vita».
La donna guardò Fiorenzo, per la prima volta. Lo riconobbe.
«Io mi ricordo di te. Alcuni anni fa, sei svenuto. Lo ricordo perché questo dipinto era appena stato esposto qui. Era stato ritrovato in un deposito del porto».
«Cosa ricordi di quel giorno?».
«Che avevo appena notato la goccia di sangue al naso del Cristo, e proprio mentre urlai che stava sanguinando, sentii un tonfo dietro di me. Tu eri svenuto. Anche tu con una goccia di sangue dalla narice. È un fatto insolito. Non si dimentica».
Fiorenzo le guardò il profilo, mentre lei cercava altro nel dipinto. La pelle del collo spariva sopra i guadi delle vene, sopra l’esubero di vita stretto al corpo. E dal petto emergevano a tratto dolcissimo le forme che colmano il palato.
«Non so dirti come ti chiami. Ma posso dirti che il nome che hai ti ha resa forte, perché orgogliosa della storia che ti ha fatto. Stai piantata in terra come un pino dalle radici di piombo».
La donna si voltò. Lo guardò. In quell’istante smisero di essere due estranei.
«E cos’altro sai dirmi?».
«So dirti che il tuo nome deve essere legato alla tradizione. Che ci hai sofferto da bambina, ma che ora te ne vanti. Il tuo nome non ti ha detto chi sei, ma ti ha costretto a trovare il modo per difendere ciò che sei. Il modo di vantarti di ciò che sei».
La donna portò una mano all’orecchio, alzando leggermente il volto, mento in fuori, senza togliere gli occhi da quelli di Fiorenzo.
«Sì. Può darsi», fece scivolare la mano lungo il fianco, sentendo il fruscio incendiario della stoffa, «e cos’altro sai dirmi di me che io non sappia già?».
Fiorenzo sentì divampare, nel centro esatto del cervello, le fiammate turchesi al fosforo. La libertà dell’incendio, la resa alle forze superiori e contrarie.
Le prese la mano e fece ruotare la donna verso il dipinto:
«Stai sanguinando. Ma… cosa… cosa stai facendo?», bisbigliò lei.
«Rispondo alla tua domanda», disse lui, «so che tu vieni qui perché non capisci chi sia l’uomo del dipinto. So che ne provi dolore, perché adori avere il controllo di ogni esperienza. Ma so che questo dolore ti attrae, perché preannuncia e fa intuire, annusare, una forma di piacere che non hai mai provato prima. E che potrebbe portarti all’abisso».
Le strinse il braccio dietro la schiena, mentre respirandole il collo sentiva più pesante il fiato di lei e più brucianti le fiammate.
«Ed è il piacere della perdita di controllo», fece.
Le era incollato. Lei mosse il bacino cercando il suo corpo. Lui prese anche l’altra mano e mise entrambe contro la tela, ai lati del volto di Cristo. Con i piedi le divaricò le gambe. Lei lasciò fare.
Le fu dentro fino allo spegnimento del fosforo. Acqua e sale, e polvere di universo.
Quando si fu risistemata chiese:
«Come hai fatto?».
«Sono malato».

Mi chiamo Fiorenzo. Ho quarant’anni, e un nodo satanico nel cervello mi fa sentire ciò che sentono gli altri. Non ho più emozioni se non quelle che gli altri mi trasmettono. Sono padrone di ogni vita tranne la mia. Decido tutti i destini ma il mio scivola via dal naso.

Quando il fagiolo fu noce, l’uomo aveva pochi e profumatissimi capelli. Non vedeva un medico da anni, né i medici vedevano lui. Forse nessun essere umano era in grado di vederlo, perché egli ne intuiva le intenzioni prima ancora che comparisse alla vista. E poiché sapeva leggere nell’altro, aveva sviluppato la fobia d’essere letto. Così, quando percepiva l’attacco dolciastro della curiosità, andava via. Come con lui aveva fatto il vecchino nel museo. Forse anche il vecchio aveva la noce nel cervello.
Col tempo aveva affinato la sua dote. E sebbene le sensazioni rubate non fossero sempre comprensibili, aveva trovato il modo di decodificarle. Di farle razionali. Semplicemente prendendo a paragone i ricordi che aveva sulle sue emozioni passate. E allora, la rabbia sarà quella sfera rovente che sale dallo stomaco e si ferma in mezzo alla gola; l’invidia è quel rivolo acido e perenne che buca i fianchi e l’alluminio; l’amore è il fuoco d’artificio che ti scoppia dietro le orecchie; il desiderio è voglia di essere fuori dal corpo.
Si può dire che questo sistema gli permise di giungere quasi alla lettura del pensiero. Ovvero, sebbene tecnicamente non potesse conoscere i pensieri altrui, l’effetto che derivava dal viverne le emozioni era quasi identico. Poteva prevedere le mosse. Poteva giocare d’anticipo. Poteva bluffare.

Così, quando dopo anni di lettere senza risposta il professore Baldi gli concesse udienza, Fiorenzo non fu per niente a disagio. Perché un decennio passato ai tavoli da gioco nei migliori casinò gli aveva dato le maniere e le risorse di un perfetto gentiluomo.
«Finalmente la incontro, professore».
«Sì, ma faccia in fretta che ho una conferenza stampa. Questa campagna elettorale mi sta annientando».
«Professore, abbia pazienza, io e lei abbiamo una passione in comune. Non sono qui a chiederle favori nel caso vincesse le elezioni. Sono qui per Il Cristo cocainomane».
«Il Cristo cocainomane? E cos’è? Forse vuole dire Il Cristo naufrago, il dipinto che fu rinvenuto al porto?».
«Mi perdoni. Intendo quello, sì».
«Beh, tecnica mediocre. Soggetto fuori tema. Un dipinto scarso dal punto di vista sia artistico che storico».
«Io, più che altro, volevo informazioni sull’autore. Si dice che lei per alcuni anni abbia lavorato a una biografia che non ha più pubblicato. Come mai? Se posso chiederle».
«Robaccia signore, robaccia. L’autore era un folle».
«Henk Van Reenen? Mi parli di lui, la prego. È vero che è stato definito l’ultimo pirata?».
«Questa affermazione è colorita, ha un suo senso ma è alquanto distante dalla realtà. Van Reenen era un delinquente come tanti. Aveva una personalità magnetica, e questo gli permise di abbindolare un numero di persone sufficienti ad assaltare un’imbarcazione della corona, e a solcare gli oceani compiendo ogni tipo di razzia. Finché non l’hanno preso gli inglesi. Pare che abbia dipinto sempre in mare. Questo spiegherebbe la mano poco ferma».
Il professore accompagnò la frase con una risata che echeggiò nell’ampio torace.
Ma Fiorenzo non l’aveva sentita arrivare. Non aveva rubato emozioni. Erano anni che non gli capitava: o aveva perso di colpo la sua dote, o l’uomo di fronte non aveva emozioni. Il politico perfetto.
«Sì, ma pare che i suoi uomini lo venerassero», rilanciò Fiorenzo.
«Era semplicemente un po’ empatico e molto furbo. Manovrava le persone. Lei non immagina quali atrocità siano stati capaci di compiere quegli uomini al suo comando. Non immagina».
«Ma è vero che aveva una malformazione al cervello?», chiese Fiorenzo.
«È vero, non è vero, cosa cambia? Su alcuni quotidiani dell’epoca si trovano storie assurde circa la decapitazione, e gli esami fatti sul suo cervello. Pare che avesse un tumore delle dimensioni di una palla da tennis fra i due emisferi. Ma, dico, che importanza ha? Su, non mi faccia perdere altro tempo. Ho la conferenza stampa fra pochi minuti».
«Permetta un’ultima domanda professor Baldi. Lei ritiene che il Cristo di Van Reenen sia scarso come opera d’arte in sé, o a causa delle colpe dell’autore?».
«Senta, mettiamo fine a questa discussione. Gli autori non hanno né colpe né meriti. È tutto un caso. Bisogna avere la fortuna di intercettare la sensibilità della massa, del tempo presente o del tempo futuro. Questo distingue il capolavoro dalla mediocrità».
«E non le sembra strano che Van Reenen convincesse i suoi uomini agli stupri di gruppo, e non convincesse il pubblico sulla bontà dei suoi lavori?».
Il professor Baldi strinse i pugni e li batté sulla scrivania. Ma anche stavolta Fiorenzo non aveva sentito la sua rabbia, l’emozione più invasiva.
«Mi ascolti bene», fece alzandosi in piedi, «il suo pittore era un misero puttaniere! I suoi lavori non erano i dipinti, quelli erano uno svago. Le sue energie e il suo impegno erano votati a soddisfare il corpo! Fu tra i primi a introdurre la cocaina in Europa dalle Americhe. Ammazzava e rubava solo per avere scariche di adrenalina. Solo per emozionarsi!».
«E ci riusciva, secondo lei?».
«Certo che no!», gridò Baldi, senza pensarci, senza esserci. Come una caduta.
Silenzio. L’affanno dell’esplosione. L’aria che dopo lo spostamento torna ai suoi spazi.
Il professore non tornò a sedersi. Allentò la cravatta. Recuperò ossigeno. Mentre Fiorenzo raccoglieva qualcosa dalla borsa. Il cigolio dell’avvitarsi. Poi disse:
«Non l’ho capito subito, professore. Lo sospettavo. Lo sospettavo per via logica, perché mi sembrava assurdo che dopo averci lavorato per anni, e dopo aver presenziato all’esposizione del suo dipinto, non avesse più pubblicato la biografia di Henk Van Reenen. Poi ho seguito la sua carriera politica. Fulminante, devo dire. Uno charme irresistibile. Ha unito fazioni e parti. E in settimana senz’altro vincerà le elezioni. E allora ho pensato che l’unica ragione per cui non avesse pubblicato l’opera era quella di evitare che qualcuno riconoscesse in lei i sintomi della malattia di Van Reenen, e le sue doti. Ma non mi bastava. Volevo sentirlo nel cervello. Dovevo sentirlo nel cervello».
«E cos’ha sentito? Mi dica», fece Baldi coi tremori nella voce.
«Niente. Non ho sentito niente. In lei non nasce emozione. E ho capito che è come il suo pittore».
Fiorenzo alzò. Il braccio culminava in una canna silenziata. Armò. Disse:
«Mi scuserà, ma non posso permettere che un uomo così guidi una nazione».
«Aspetti, non spari ancora», fece il professore mostrando il palmo, prendendo dalla scrivania il bicchiere col vino bianco. «anche io non ho sentito niente. È lei l’ultimo erede di Van Reenen? Vuole essere l’unico ad avere questo potere? Bevo alla sua salute allora!».
«Professore, mi guardi, per vivere rubo le emozioni degli altri. Di che potere parla? Sono solo un uomo malato».

La goccia di ferro cadde nel bicchiere e fiorì come una nuvola. Lui, l’uomo, il naso, tirò e ingoiò. Poi bevve il bianco senza accorgersi dell’intrusione.

 

Questo racconto è apparso anche su Ô Metis IV – Forme Brevi.