Il sacro, per me, viene molto prima del santo. Può sembrare una banalità. Lo so. Un po’ come affermare che la vita viene molto prima della morale. L’aggettivo latino sacer significa “Consacrato” ma anche “Maledetto”. Da cui l’italiano “esecrabile”. A causa di questa doppiezza di significato la coscienza di ognuno di noi deve formulare criteri di autenticità, per poter distinguere quando esso è buono e quando invece non lo è. E qua si chiude il cerchio: trovo, infatti, meraviglioso che più si utilizza la ragione più aumenta il senso del sacro, dato che entrambe le cose guardano nella stessa direzione.
Armonia dove non te l’aspetti.
Che poi, diciamocelo, non è forse tutto ciò che vogliamo trovare là fuori, quando usciamo dal nostro guscio per cercare di unirci alle altre forze dell’universo? Quella reciproca concatenazione che dà colore e calore a tutto l’insieme delle tonalità delle nostre vite.
In una parola: musica.
E così capita che un sabato mattina tagliando il pratino davanti casa, maledicendo il tosaerba e chi l’ha inventato, io rimanga ipnotizzato dalla bellezza dei colori dell’arcobaleno della società multietnica nella quale mi è dato di vivere. È passato infatti a trovarmi Agimor, un albanese, padre di una compagna di scuola di mia figlia. Voleva dirmi che ieri sera aveva comprato un karaoke e un tapis roulant. Non ha un lavoro fisso ma è convinto che non sia colpa sua.
«Vado tutti giorni all’ufficio di collocamento ma è pieno di quegli zingari rumeni. Sono loro la rovina dell’Italia. Ci stanno portando via tutti i posti» mi ha detto con la sua erre arrotata che sembra quella di un americano. Agimor ha fatto i provini per entrare al Grande Fratello ma l’hanno scartato perché ha bestemmiato quando per sbaglio gli hanno pestato un piede. C’è rimasto male ma non se l’è presa troppo perché il suo sogno segreto è quello di partecipare a X-Factor. Ha scritto diverse canzoni. Lo fa di notte perché non riesce a dormire, vive sopra un bar sempre affollato. Di fronte alle sue finestre c’è anche una giostrina che spara fino a tarda notte musica a palla dei cartoni animati. Dal balcone potrebbe acchiappare il fiocco del calcio-in-culo e beccarsi il giro gratis.
Agimor vuole bene a sua moglie ma si è innamorato di Corinne che sta poco distante da casa mia. Per questo trova scuse per venirmi a trovarmi. Così quando lei è passata per andare a fare la spesa, ha smesso di raccontarmi gli affari suoi e si è perso a osservarla. Corinne ha gli occhi grandi e due labbra carnose naturali che farebbero invidia a una movie star. Dimostra quasi dieci anni in meno. Sta con un uomo molto più grande che lei chiama “compagno” ma quando ne parla sembra quasi che non provi affetto per lui. In realtà, molto più semplicemente, non si fida. Sa bene che anche quella storia finirà, come è successo con suo marito prima di lui e con tutti gli altri che le hanno detto che l’accettavano così com’è senza pretendere di cambiarla, salvo poi mollarla dopo qualche mese di convivenza. O si è come lei o è difficile starle accanto. Perché Corinne è una canara. Per questo, senza nemmeno saperlo, veste una divisa da super eroina che non si toglie mai e che la contraddistingue dappertutto. Per lei come per le tante canare sparse per il territorio nazionale, tutte volontarie, quest’hobby non è più solo e semplicemente un passatempo ma, per impegno richiesto, quasi un lavoro.
Mohammed, invece, la sopporta poco. È musulmano e i cani per la sua gente sono animali immondi e andrebbero abbattuti tutti. Eppure è un uomo di cultura. Sta studiando per diventare Imam e parla tre lingue. Gioca a fare il tollerante ma nei suoi occhi la ferinità fa capolino ogni tanto. Una volta gli ho dato un passaggio. Gli si era rotta la macchina e doveva partecipare a non so quale riunione importantissima. Da allora siamo diventati amici. Dice che sono un cristiano come si deve e che mi vuole bene. Quando gli ho chiesto che cosa significasse per lui quel concetto mi ha riso in faccia.
«Vuol dire che non ti taglierei mai la gola se dovessimo conquistare questa terra di infedeli».
Tuttavia quando giochiamo a Risiko nei momenti di tensione massima e sta per sferrare l’assalto decisivo con i suoi carro-armatini neri, prende i dadi ci soffia dentro e urla:
«Allah ut akbar!» poi mi guarda e aggiunge «Hai paura, eh?»
Al mio turno allora, raccatto i dadini, li scuoto dentro il pugno e poi lancio il mio di anatema:
«W la topa!»
Giuro che quando lo urlo non penso a Svetlana, la mia vicina di casa, russa di Novigrad che, bellissima, ha sposato Alberto, un fornaio più brutto del peccato originale. Lei faceva la vita a Montecatini, lui l’ha conosciuta a pagamento e, alla fine, l’ha redenta. Ora ama sbandierarla come trofeo di guerra: è la sua rivincita contro quelli che gli urlavano dietro che era il nipote sfigato di Nosferatu. Svetlana sta al gioco. Mai una sbavatura, una parola fuori posto, uno sguardo ammiccante, una provocazione. Niente. Classe sopraffina. Un giorno le ho chiesto come si fosse ambientata nel nuovo contesto sociale e lei senza imbarazzo ha razionalizzato:
«Guadagno meno, ma vivo più serena».
Alberto è un padre affettuoso. Vizia la loro bimba riversando su di lei tutto l’amore che la russa non riesce ad accogliere. Troppo algida per poter vivere anche la passione.
«Un giorno se ne andrà con un altro. Lo so. Ma fino ad allora faccio finta che sia davvero per sempre» mi ha confessato una sera che aveva bevuto un bicchiere di troppo.
Ho ripensato a tutti loro quando sono rimasto solo con il mio amico tosaerba a girare su e giù per il maledetto pratino. E più lo facevo più sorridevo. Insomma ho sentito armonia. Ho percepito il sacro. E per un istante mi sono sentito bene. Vivo nel mezzo di una comunità improbabile, tutti diversi per cultura, speranze, aspettative di vita, per dolori che ci stanno aspettando dietro l’angolo pronti a assalirci di nuovo quando molleremo la presa, ma lo stesso vicini da far vibrare al cielo un’armonia perfetta.
La quinta giusta.
Quell’intervallo cioè esistente tra due note distanti tra loro sette semitoni ossia tre toni e un semitono. Insomma come il Sol lo è per il Do. Due note distanti tra loro una quinta giusta suonate insieme in un bicordo armonico hanno una consonanza perfetta e si fondono insieme in un’armonia unica. Ed è proprio questo che alla fine, per me, significa Sacer.
Avendo tutto ciò ben chiaro in testa, o almeno così pensando, al termine della faticaccia infame mi sono trovato ad affrontare una situazione di crisi simile a quella di JFK quando i russi volevano mettere i missili a Cuba. E mi sa che anche io ho avuto la mia bella disfatta alla baia dei porci.
È arrivata, infatti, mia figlia Silvia e le ho chiesto che cosa le piacesse di più del programma natatorio in piscina che fa con quelli della scuola. Mi aspettavo che mi dicesse, che so, “i tuffi” o il fatto che stesse imparando a nuotare bene o cose simili. Lei invece se n’è uscita con:
«Be’, guardare negli spogliatoi di nascosto il sedere e “il pipo” dei compagni di classe!»
Super GUUUUULP, fumetti in tivvùùùù.
Salivazione azzerata. Mi si è strozzata in gola la cosa che avrei voluto urlarle:
“Stai attenta perché se continui così diventi una mignottazza in tre balletti e senza nemmeno passare dal via…”
Mi sono limitato a chiedere una cosa che peraltro mi era già chiarissima. Così, solo per farmi male.
«I’ cchèèè?»
«Il pipo o come tu lo chiami babbino?»
No, io chiamo la tu’ mammaccia e gli dico che è l’ora di farla finita con questo permissivismo del cazzo – penso – e penso pure che mai ridondanza sia mai stata più orribile, ma ho taciuto e mi sono sforzato di sorriderle. Sono uno che ha imparato a controllare gli scatti di rabbia. Ho messo su una faccia che doveva essere stata la stessa che aveva mio padre quando, secoli fa, gli dissi:
«Babbo, babbo, ho scoperto un nuovo gioco ganzo un casino!»
«E com’è?»
«Be’, se mi struscio sul materasso a pancia sotto ho scoperto che avviene una specie di mutamento nel corpo che mi piace tanto e che poi mi provoca espulsioni di cose liquide e appiccicose, è vero, ma è davvero ganziale, credimi.»
«Ah si, la transustanziazione,» fece il mio vecchio «lo conosco anche io. Però dammi retta, giocaci quando proprio non puoi farne a meno. Fa male.»
Io però mica gli ho dato retta. Io c’ho giocato eccome. Anzi c’ho preso cosi gusto che pure da vecchio se mi capita ci rifò. Comunque, sapendo che non era il caso di dire a Silvia di non guardare “i pipi” dei suoi compagni perché era la volta buona che ci si sarebbe messa d’impegno a farlo, ho creduto saggio farle il discorsetto romantico che pensavo fosse d’uopo, non avendo minimamente chiaro che lei non era proprio in grado di seguirmi:
«Vedi amore, ricordati sempre che quando fai certe cose devi metterci un po’ di cuore. Non importa altro che questo. Sforzati di usare il cuore sempre e comunque e di non farle solo per il gusto.»
«Sì ma quando uso tanto il cuore poi mi spinge la pancia e mi viene sempre da ruttare.»
«Ecco, proprio cosi, hai capito tutto. Rutta amore, rutta che ti fa bene.»
E sarebbe finita qui se poi la sera non avessimo incontrato uno dei compagnucci suoi, uno che viene adorabilmente appellato dagli amici con un vezzeggiativo che lo descrive alla perfezione: “Filippo la Teppa”. Faccia da marrano, modi da buzzurrone, faccia burrosa. Potrei portare il suo già bel curriculum vitae e accettare scommesse su cosa possa diventare da grande. Mi limiterò a dire solo che non è esattamente il primo della classe. Atmosfera molto friendly. Troppo friendly. Il ragazzino è con la famiglia. La mamma – una bionda sfiorita che sono certo negli anni Ottanta mietesse vittime su vittime tra gli uomini ma che ora si muove come se non avesse compreso che sono passati trent’anni da allora –, mi sorride e fa:
«Rischiamo di diventar parenti, sai?»
Faccio finta di non capire. Cerco di trovare il modo per sgattaiolare via perché ho brutte sensazioni addosso. Il padre invece, un energumeno con la voce e i modi che un camallo che lavora al porto di Livorno sembrerebbe un gentleman inglese, mi incalza:
«Sapere che Filippo ha imparato il bacio cin-cin da tua figlia mi rende orgoglioso, sai?»
Sangue alla testa.
Ufo Robot, Ufo Robot Ufo Robot, Ufo Robot. Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole fra le stelle sprinta e va…
Guardo Silvia e le dico a voce bassa, guardando per terra, sperando in una sua bugia pietosa.
«Cosa è esattamente il bacio cin-cin tesoro?»
E lei, non sapendo che avevo già armato l’alabarda spaziale, mi mostra un movimento secco della lingua stile serpente che entra e esce dalla bocca. Naturalmente dura a lungo. Filippo il marrano gongola allo stesso modo cinguettando cin-cin, cin-cin, cin-cin. L’idiota.
Lancia laser che sembran fulmini, è protetto da scudi termici, sentinella lui ci fa… quando schiaccia un pulsante magico, lui diventa un ipergalattico, lotta per l’umanità…
«Be’, vorrà dire che usciremo una sera tutti assieme così ci conosceremo meglio…» fa la mamma del piccolo maialino a cui vorrei estirpare il pipo prima che ne faccia un uso sbagliato.
«È un periodaccio.»
«No dai, ci farebbe tanto piacere.»
«Non appena possibile.»
«Sì dai, anche i ragazzi sarebbero felici» rilancia il padre-bestione.
«Appunto, quindi sto-cazzo!» questo però non glielo dico.
«Adesso vediamo…»
Adoro l’espressione “vediamo”. Sembra che al suo interno ci sia tutto e invece non c’è niente. Come dentro di me.
Più tardi in macchina, riacquistato il controllo, mi decido a sfogare la mia rabbia su mia figlia e a brutto muso le urlo:
«Stai bene attenta sai, perché se cominci a giocare con i baci cin-cin poi si passa ai baci cin-cion e non va bene. E se me ne accorgo ne buschi. E non mi dire che poi non te l’avevo detto.»
E come amava dire il grande Nick Carter:
«E l’ultimo chiuda la porta!»