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Salomé di Oscar Wilde è un atto unico di trecentonovantuno battute che fin da subito – funditus infra – si presenta con urgenza e nettezza come un concerto di sguardi: la prima chiave interpretativa fondante.

In circa settanta battute compaiono i verbi regarder e voir, per un totale di circa cento ricorrenze. Nella traduzione italiana i due verbi sono talvolta occultati: per esempio, dietro «rimirarsi» sta se regarder, «fissate» tradisce regardez e «scorse» traduce vue. In almeno altri trenta casi abbiamo a che fare con sguardi sottintesi: l’incipit, la serie di invocazioni di Salomé alla vista del Battista (Il tuo corpo è bianco come il giglio di un prato, battuta 145 e seguenti), le ricorrenti osservazioni del genere «Ha un’aria triste, il tetrarca. Non trovi che sembra triste?»  (314). Meno spesso ma altrettanto significativamente ricorre il tema del montrer/cacher. Per esempio riguardo al mostrarsi o meno di Dio (Di questi tempi Dio non si mostra. Si nasconde, 218 e seguenti) o al nascondere il cadavere del giovane siriano (Bisogna nascondere il cadavere. Bisogna che il tetrarca non lo veda, 168).

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La tragedia ha inizio con uno sguardo:

 1 – Com’è bella questa sera la principessa Salomé!

e per lungo tempo, con l’eccezione del breve inserto dei due soldati (cinque battute), sulla scena troviamo sempre e soltanto“guardanti”:

1 –  Com’è bella questa sera la principessa Salomé

2 – Guardate la luna. La luna ha un’aria strana […]

3 – Ha un’aria strana. Assomiglia a una piccola principessa […].

4 – È come una donna morta. Si muove così lenta.

10 –  Com’è bella questa sera la principessa Salomé

11 – La guardate sempre. La guardate troppo […]

12 – È tanto bella questa sera…

13 – Il tetrarca ha l’aria triste.

Questo scambio di osservazioni tra guardanti continua fino alla battuta 24.

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Il concerto di sguardi va costruire una spazialità che non è contenuta dalla scena. Lo spazio della Salomé non è costituito da qui e , da sul divano o quel ventaglio. A differenza degli altri testi teatrali di Wilde, non si riscontrano molte indicazioni sceniche, deittici orientati al qui e ora del palcoscenico. Non ci sono luoghi, ma direzioni. Innumerevoli sguardi, come frecce, calcano le stesse tracce aeree, fino a imprimere le direttrici di uno spazio superscenico. Le battute disegnano profondità e altezze, vicinanze e lontananze; alla stessa stregua dei segni fisicamente in scena, prendono corpo anche i vettori di forze invisibili. La deissi è fantasmatica.

Quello così costituito è dunque, più che scenico o esteriore, uno spazio orale e interno. Ma quando una vocalità così insistente designa un’altezza non concreta ma sensibile, come quella della luna guardata (dove lo sguardo è detto), o una profondità dinamica, come quella della voce proveniente da Iokanaan, ovvero se le parole costituiscono una loro spazialità piuttosto che descrivere uno spazio dato, siamo vicini a un’autoreferenzialità che è tipicamente musicale: lo spazio che sentiamo nella Salomé è uno spazio musicale.

Giustamente Montanari nella sua Introduzione nota che «brevi temi e motivi percorrono tutto il testo, battute semplici e incisive passano di bocca in bocca, come melodie suonate di volta in volta da strumenti diversi; melodie, ovvero frasi e immagini, che affiorano sulla superficie del dialogo, si immergono, sembrano dimenticate, poi riaffiorano per sorprenderci, uguali a prima eppure diverse, modificate dal tempo che è trascorso e dalle parole e dalle emozioni che si sono susseguite davanti a noi».

Salomé è effettivamente strutturata come una sinfonia in piena simbiosi con quanto teorizzato da Wilde riguardo alla necessità della prosa di tornare alla voce e alla musica: «[…] studiando, per esempio, i tempi metrici di una prosa con la stessa scientificità con cui un moderno musicista studia l’armonia e il contrappunto e, inutile dirlo, con un istinto estetico molto più acuto, in ciò [i Greci] avevano ragione, come avevano ragione su tutto. Con l’introduzione della stampa e al fatale sviluppo dell’abitudine alla lettura tra le classi medie e inferiori di questo paese, nella letteratura si è avuta una tendenza a far presa sempre più sull’occhio e sempre meno sull’orecchio, che è, in realtà, dal punto di vista dell’arte pura, il senso che essa dovrebbe cercare di compiacere e ai sui canoni di piacere dovrebbe sempre attenersi» (Oscar Wilde, Il critico come artista, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Feltrinelli, Milano 1995, pag. 37 e seguenti).

In quest’ottica è da intendersi anche il ritmo ternario individuato dallo stesso Montanari all’interno dell’intero atto unico. Non a caso Richard Strauss sostenne che Salomé fosse «un testo teatrale che richiede la musica» (Introduzione di Guido Almansi a Oscar Wilde, Il ventaglio di Lady Windermere, L’importanze di essere Fedele, Salomé, Garzanti, Milano 1993) e dette seguito alle sue affermazioni, musicando una traduzione tedesca appena dodici anni dopo la pubblicazione del testo francese originale (Salomé, scritta nel 1891, fu pubblicata in francese nel 1893. L’opera di Strauss fu eseguita per la prima volta a Dresda il 9 dicembre 1905).

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Tornando al testo, a Wilde sono sufficienti due battute per suscitare la spazialità di cui supra:

1 – Com’è bella questa sera la principessa Salomé!

2 – Guardate la luna. La luna ha un’aria strana.

Con la prima battuta viene generato l’asse orizzontale, con la seconda quello verticale. Sul primo asse stanno gli sguardi del paggio verso il siriano, di Erodiade verso Erode e a loro volta del siriano e di Erode verso Salomé, secondo una dinamica centripeta che dispone Salomé al centro dell’attenzione e quindi dello scenario acustico:

paggio  →  siriano  →  Salomé  ← Erode  ←  Erodiade

Sullo stesso asse costituiscono una contromelodia gli sguardi dei soldati verso Erode ed Erodiade. Dal punto di vista sinfonico, il ruolo dei soldati è sin dall’inizio della partitura quello del controcanto: prima irrompono con un inserto acustico nel bel mezzo della melodia di sguardi iniziale (5 – Che baccano! Chi sono queste bestie selvagge che urlano?), poi distraggono con brevi incisi l’attenzione dalla coppia Salomé-luna a Erode-Erodiade (12 – Il tetrarca ha un’aria triste…; 21 – Erodiade ha versato da bere al tetrarca…) delineando un motivo secondario della sinfonia.

La centralità di Salomé è confermata dalla sua posizione sul secondo asse, infatti se è vero che ognuno, per proprio conto, guarda la luna rapportandosi a lei in modo diverso

   2 – IL PAGGIO: […] Si direbbe una donna che esce dal sepolcro. Assomiglia a una donna morta. Si direbbe che stia cercando dei morti.

 3 – IL SIRIANO: […] Assomiglia a una piccola principessa che porta un velo giallo, e ha piedi d’argento come colombe bianche… si direbbe che stia danzando.

71 – SALOMÉ: […] Sembra una monetina. O un fiorellino d’argento. È fredda e casta, la luna… Sono sicuro ch’è vergine. Ha la bellezza di una vergine… Sì, è vergine. Non si è mai sporcata. Non si è mai data agli uomini, come le altre dee.

172 – ERODE: […] Sembra una donna isterica, una donna isterica che cerca amanti dappertutto. È anche nuda. È completamente nuda. Le nuvole cercano di vestirla, ma lei non vuole. Si mostra al cielo completamente nuda. Vacilla tra le nuvole come un’ubriaca…

è altrettanto vero che  l’identificazione tra Salomé e la luna è compiuta con evidenza sin dalla terza battuta.

Sulla principessa sono riflessi i diversi significati dati alla luna: presagio di morte (il paggio), delicata e volatile sensualità (il siriano), castità incorrotta (autoidentificazione di Salomé con la luna), soggetto-oggetto di desiderio erotico (Erode). Salomé è il centro anche degli sguardi diretti verso la  luna: passano tutti per lei. Sullo stesso asse si trova il Battista. Verrà portato alla luce per capriccio della principessa, ma il suo luogo è la profondità: la sua voce proviene inizialmente dalla prigione-cisterna ed è con uno sguardo verso il buio di questo antro che per la prima volta la principessa cerca di intravedere il profeta. Nell’opera di Strauss è un baritono. Nella Salomé di Carmelo Bene invece la dinamica in questione è esaltata da un alto-basso per cui Giovanni è presentato come il più terrestre dei segni (un contadino siciliano) anche linguistici (estrema scurrilità), mentre Salomé è eterea (e calva) come la luna e si esprime con un linguaggio rarefatto, aereo.

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Lo sguardo di Salomé al Battista si impone come linea fatale e melodia principale della parte centrale dell’opera, con numerose riprese e variazioni. Gli sguardi verso la luna e il profeta sono gli unici che si dipartono da Salomé, che non ne viene ricambiata. L’asse verticale è un sistema di sguardi centrifugo dove Salomé risulta il fulcro della relazione tra gli umani e i celesti.

luna

paggio  →  siriano  Salomé  ←  Erode  ← Erodiade

 Giovanni Battista

La figlia di Erodiade paga questa posizione al centro delle forzel’essere umano di fronte a ciò che la trascende – e sconta così simbolicamente una posizione, un destino universale. Aggiunge suggestioni il rilievo di Maurizio Grande che sull’asse verticale individua un rovesciamento dei valori assegnabili al vertice e al baratro, per cui «la voce che giunge dalla tenebra annuncia la luce, un nuovo Regno dello Spirito; [mentre] il candido astro lunare, Salomé, rigurgita di valori opachi, tormentosi richiami del desiderio carnale» (Dodici donne – figure del destino nella letteratura drammatica, Pratiche, Parma 1994, pag. 61).

La principessa è il corpo, Iokanaan lo spirito. Non per niente mettono in luce due diverse facce di Erode. Quando sono uno di fronte all’altra, per la prima volta Salomé è sentita e il Battista è visto. Dal fatto che l’una si ostini a voler possedere con lo sguardo ciò che si rifiuta di essere conosciuto come visibile e che, viceversa, il Battista insista nel voler imporre il regime dell’invisibile laddove ormai regna il potere del desiderio sensuale, scatta il corto circuito che porta alla conclusione tragica

Il trionfo di Salomé su Giovanni è un’autodistruzione, la dissoluzione di ogni possibile salvezza invocata dal profeta. Sbaragliato lo spirito e con esso la possibilità di un oltre, al corpo non rimane che perseguire la soddisfazione (compimento, esito, fine, piccola morte) di ciò che è assolutamente presente..

Salomé è nietzschianamente la più umana. La sua è una tragedia materialistica del desiderio e non la tragedia dell’amore (casomai quella della sua assenza o impossibilità). Potremmo collocare Salomé all’incrocio tra due sentenze «chiave» di Al di là del bene e del male: «155 – Il senso del tragico aumenta e diminuisce con la sensualità» «175 – Infine si ama il proprio desiderio, e non quel che si è desiderato» (Adelphi, Milano 1996, pagg. 80-82).

Affermare il primato dello sguardo e del visibile del resto è già porsi entro un paradigma dominato dal desiderio, in cui l’altro diventa pasto. Siamo oltre il crinale di una qualsiasi possibilità di un pensiero che tenga uniti salvezza e corpo. Del resto Dio, che rappresenta l’utopia opposta, non è visibile. Emblematica in tal senso la battuta 218: Erode ha appena detto che Giovanni è un santo e che ha visto Dio. Un giudeo gli risponde: «È impossibile […]. Di questi tempi Dio non si mostra. Si nasconde, ed è per questo che gravi disgrazie succedono in questo paese».

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Si è discusso molto se Salomé sia veramente una tragedia e, con George Steiner, se sia ancora possibile la tragedia nella modernità. A tal proposito, leggiamo in Northrop Frye:

«Di norma l’eroe tragico è in cima alla ruota della fortuna, a metà strada tra la società umana sulla terra e qualcosa di più grande nei cieli. […] Gli eroi tragici sono avvolti nel mistero della loro possibilità di comunicare con qualcosa che noi possiamo intuire solo attraverso essi, e che è la causa della loro forza e, allo stesso tempo, del loro destino». (Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1987, pagg. 276-277)

Questa è effettivamente la posizione di Salomé e la sua centralità nello spazio tragico coincide perfettamente con la struttura dello spazio musicale, sancendo proprio così, tra l’altro, la straordinariamente riuscita coerenza formale dell’opera di Wilde.

Il personaggio Salomé ha tutti i crismi del tragico. Viene soddisfatto anche l’assioma steineriano per cui la tragedia debba essere segnata dall’impossibilità di qualsiasi redenzione-consolazione, storica o ultraterrena. Salomé si mantiene distante sia dal dramma cristiano-spirituale sia da quello marxista-sociale, e non in quanto tragedia greca fuori tempo massimo, ma anzi come opera allineata con la contemporanea nascita di un nuovo pensiero tragico, così come il suo autore nella provocatoria modernità delle tesi sostenute in Il critico come artista appare in piena sintonia con alcune delle riflessioni (di appena una quindicina d’anni prima) di Nietzsche su musica, tragedia e grecità. Un nesso che fu avvertito forse per primo, e non per caso, da un musicista, quel Richard Strauss che anche allo Zarathustra fece attendere appena una dozzina d’anni per fargli avere una veste sinfonica.

[Per ogni riferimento testuale si fa uso di Oscar Wilde, Salomé, Feltrinelli, Milano 1998, traduzione italiana di Gaia Servadio e Raul Montanari. La cifra affiancata alle citazioni si riferisce alla numerazione delle battute.]

Immagini: Gustave Moreau*, Salomé, (1871-1876); Aubrey Beardsley**, Salomé, (1893)

* Huysmans, À rebours, 1884  (Controcorrente, Garzanti, 1975-2001, Milano – Traduzione di Camillo Sbarbaro: descrizione Salomé di Moreau da pag. 66 a pag. 72: «Fra tutti, un artista esisteva che lo gettava in lunghe estasi e del quale aveva acquistato ambedue i capolavori: Gustave Moreau. Della sua tela che rappresentava Salomé, Des Esseintes indugiava in contemplazione intere notti. Simile all’altar maggiore d’una cattedrale, un trono s’ergeva sotto una fuga a perdita d’occhio di volte, in cui si placava l’impeto di colonne, tozze come pilastri romani; colonne smaltate di piastrelle policrome, incastonate di mosaici, incrostate di lapislazzuli e di sardoniche – dentro un palagio simile ad una basilica, d’una architettura musulmana e al tempo stesso bizantina. Al centro del tabernacolo che sorgeva in cima all’altare e cui si saliva per gradini a semicerchio, sedeva il Tetrarca Erode, coperto d’una tiara, le gambe raccolte, le mani sui ginocchi. La sua faccia era gialla, incartapecorita, gualcita di rughe concentriche, devastata dall’età; sulle stelle di gemme che gremivano la tunica ricamata d’oro, aderente al petto, la barba ondeggiava come candida nuvola. Intorno a quella statua immota, congelata in una posa ieratica da nume indù, profumi bruciavano attorcendo spire di fumo che trapassavano, quasi fosforescenti occhi di belva, i fuochi delle pietre preziose che ingemmavano il trono; quindi il vapore saliva, si perdeva in volute sotto le arcate, mescendo il suo azzurro al pulviscolo d’oro che a fasci cadeva dalle cupole. Tra quegli effluvi perversi, nell’aria surriscaldata di quella chiesa, Salomé, il braccio sinistro disteso in atto di comando, con la destra reggendo all’altezza del viso un grande loto, avanza adagio sulle punte, agli accordi d’una chitarra che pizzica una donna accoccolata. L’espressione raccolta, solenne, augusta quasi, Salomé dà inizio alla lubrica danza che deve ridestare i sensi del vecchio Erode. I seni ondeggiano; stuzzicati dalle collane che vorticano, i capezzoli s’ergono; nel madore della pelle, i diamanti scintillano; sulla veste trionfale, rabescata d’argento, laminata d’oro, dalle costure di perle, il busto, preso in una maglia di gemme, entra in combustione, dardeggia serpentelli di fuoco, brulica sulle carni compatte, sul rosa tea della pelle, simile ad un visibilio d’insetti dalle elitre abbaglianti, marmorizzate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di blu acciaio, striate di verde pavone. Assorta, gli occhi fissi, pari a una sonnambula, essa non vede né il fremente Tetrarca né la madre – la feroce Erodiade – che la sorveglia; né l’ermafrodito o l’eunuco che si tiene, con la sciabola in pugno, a pié del trono: terribile, velato; la mammella di castrato che, come una fiaschetta, penzola sotto la tunica variegata d’arancione. […]»)

** Illustrazioni prima edizione inglese della Salomé di Wilde, pubblicata a Londra nel 1894