Se, come asserisce Jerzy Kosinski in Oltre il Giardino, “la vita è uno stato mentale”, lo stesso potrebbe dirsi dell’Inferno o del Paradiso. O, meglio, forse Paradiso e Inferno sono soltanto la più limpida, cruda e accecante manifestazione di ciò che nel profondo siamo; e forse l’Inferno sta nel nostro riconoscersi come niente, e poi nello sparire, rendendoci conto che il mondo non è minimamente interessato a noi come individui, ma a fantasmi, miti, ombre, elementi che ci disumanizzano e ci privano di noi stessi, facendoci sentire ancora più soli, ancora più inconsistenti.
Mengele, maniaco, nutre un’avversione patologica per la sporcizia. Guai a chi gli prende una penna, le forbici, un libro, sposta una sedia o un tappeto: dà in escandescenze, fuori di sé, e sbraita e geme, come se la scomparsa di un oggetto compromettesse il fragile assetto della sua esistenza o rendesse manifesto il nulla della sua immensa solitudine.
La tortura che Josef Mengele si trova costretto a subire alla fine nella sua vita è la tortura che ha inflitto alle sue vittime: lo scienziato diventa la cavia, lo zimbello di una beffarda giustizia karmica (o divina) che si diverte a vederlo agonizzare, dilazionando i tempi della sua scomparsa, che lo trasforma in mostro, e così della mente brillante e luminare della scienza resta solo un vecchio malato e abbandonato da tutti. Olivier Guez ne La scomparsa di Josef Mengele racconta magistralmente questa discesa agli inferi: non più uomo, non più medico, non più scienziato, non più padre, non più padrone, non più nazista, Mengele diventa alieno alla sua mente, sconosciuto a chi gli sta intorno, mero strumento da usare, fastidio di cui sbarazzarsi.
Scomparire sarebbe anche potuta essere un’esperienza illuminante, redentrice e catartica, ma non per Mengele: per un uomo incapace di vedere altro da sé e altro dal sistema in cui è inserito la propria scomparsa non è altro che un tradimento, la manifestazione della propria insensatezza è inaccettabile, non resta che la fuga da un mondo che odia e che lo odia, per vivere, sempre meno lucido, in un mondo altro, specchio deformato e crudele della vita e dell’ordine da lui inseguiti e sognati durante il delirio nazista.
La cosa inquietante (e cupamente ironica) di tutta la vicenda è proprio l’incapacità di Mengele (e dei nazisti tutti, a quanto ci è dato di sapere) di riconoscersi come membri di un sistema diverso e altro da quello hitleriano; che tali individui, con una percezione così minuscola e ottusa della vita e incapaci di concepire altro ordine se non il loro, potessero arrivare a governare l’Europa (e il mondo) è forse la cosa più agghiacciante dell’epopea nazista, aldilà dei morti e della distruzione che sono solo conseguenze dirette di un ideale di ordine solipsistico e malato.
Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si affievolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si eclissa e alcuni uomini tornano a propagare il male.
Possano restare lontano da noi i sogni e le chimere della notte.
Diffidenza, l’uomo è creatura malleabile, bisogna diffidare degli uomini.
Guez rappresenta indirettamente i nostri tempi: la scomparsa dell’umano, che diventa scomparsa della memoria, che diventa incoscienza di sé, che diventa incoscienza del male; perché la ragione è presenza e consapevolezza. E il resto è niente.
Olivier Guez
La scomparsa di Josef Mengele (2017)
Trad. it. Margherita Botto
Vicenza, Neri Pozza, 2018
pp. 202