Stando al dizionario etimologico, la memoria consta nella capacità della mente di trattenere determinate esperienze ed eventualmente riprodurle, a prescindere dalle occasioni che le hanno suscitate; diverse sono la reminiscenza, ovvero la facoltà di rievocare volontariamente alla mente i concetti appresi, e la ricordanza, che consiste nel momento in cui i fatti si presentano alla mente senza che questa si sforzi di richiamarli a sé.
La memoria è una componente basica della nostra identità, elementare al punto da essere facile da manipolare e alterare: noi possiamo giocare con i nostri ricordi, possiamo impiantarli su un sistema sociale e culturale e dare loro un valore universale, possiamo tirarli fuori in contesti diversi da quello che li ha generati, possiamo rivoltarli, sventrarli, osservarli dall’esterno; questo accade perché non siamo quel che ci è accaduto, ma quel che facciamo con ciò che ci è accaduto.
La tela di Benjamin Stein è strutturata in due “memorie” di due persone che si trovano a fare i conti con esse: Amnon Zichroni, uno psicoanalista capace di rivivere i ricordi degli altri, e Jan Wechsler, un editore che si vede recapitare una valigia smarrita nel suo ultimo viaggio in Israele di dieci anni prima, viaggio che lui non ricorda di aver fatto. Si tratta di due storie distinte e speculari destinate a incontrarsi in due finali che offrono prospettive diverse sulle vicende dei protagonisti, ma senza stravolgerle, lasciando il lettore turbato a riesaminare quanto letto, impantanato nelle inquietanti e feroci ambiguità del racconto.
Quando parlo di violenza, non mi riferisco a una punizione corporale. È piuttosto la brutalità del cuore che, per il bisogno assoluto di fare l’unica cosa giusta, reprime dentro di sé ogni moto contrario.
Il percorso, frustrante e frustrato, che compiono Jan e Amnon è verso una verità assoluta e inoppugnabile e una vita priva di ombre; La tela si rivela così un thriller sulla spietatezza della verità e sulla sua intangibilità, sulla negazione del rimorso, sull’incoscienza della ricerca, sulla fallibilità della nostra lettura del mondo.
Entrambi ebrei osservanti, i protagonisti vivono la loro ricerca con una tensione etica estrema, oscillando tra un desiderio divorante di conoscersi e redimersi, di essere inequivocabilmente nel giusto, e l’impossibilità di esaudirlo; la conseguenza di questa impasse è un’atmosfera di insolubilità, in cui è impossibile leggere i fatti, o progredire nella loro conoscenza delle cose; e gli eventi rimangono non del tutto chiariti, bloccati in un loop inquietante, avvolti in un’aura angosciosa e soffocante.
Quest’uomo credeva forse che per lui, nelle acque della mikvè, cominciasse una nuova vita, una diversa da quella a cui aveva tentato di sfuggire con la menzogna? Credeva di potersi purificare dalla colpa della distruzione che aveva causato e a cui non si poteva più porre rimedio? Com’era possibile? Né con il cuore né con la mente aveva compreso quel che aveva fatto.
Quale comprensione di ciò che facciamo, di ciò che siamo, può dirsi completa?, ci si chiede alla fine delle due storie. Quale esame di ciò che siamo offre risultati soddisfacenti, definitivi? Se anche all’interno di un ambiente eticamente rigidissimo e molto codificato, come quello dell’ortodossia ebraica, c’è il rischio di sprofondare in voragini di ambiguità, e di male, in perfetta buona fede, in che modo si può rimediare all’errore, o al peccato? Non si può, sembra rispondere il romanzo, almeno non in maniera assoluta, perché anche la dimenticanza, condizione da cui parte la storia di Jan, è un palliativo temporaneo e inefficace, bugiardo: il fatto commesso rimane, come un marchio dell’anima, in attesa di riemergere al primo stimolo.
La tela si tesse all’interno di una progressiva tensione claustrofobica, nella convinzione dell’impossibilità di uscire da ciò che siamo, di alleggerirci, di liberarci dalla colpa. Benjamin Stein ci racconta come il nostro passato ci definisce e come noi non possiamo dirci completi senza averlo affrontato e senza averlo illuminato con il nostro sguardo, e di come la compassione, per noi stessi e per gli altri, sia una scelta personale e dal vago sapore anarchico. E ci dice anche che il buio, origine e conclusione di ogni cosa, è una pura illusione.
Benjamin Stein
La tela (2010)
trad. it. Elisa Leonzio
Rovereto, Keller, 2013
pp. 384