La Vertigine raccontata da Julien Green è quella del momento che riassume una vita, o, all’inverso, del momento che si dilata fino a ricoprire una vita intera. I protagonisti dei racconti che compongono il volume, scritti tra il 1920 e il 1956, sono persone che si confrontano con la loro identità attraverso uno sguardo, un atto, una scoperta; più minuscolo è l’atto più è schiacciante il significato che ha agli occhi di chi lo compie.
Mi sembrò di non essere più nient’altro che puro sguardo, ma nella composizione di quello sguardo c’era qualcosa di ciascuno dei sensi; la mia bocca si posava sui suoi occhi come per saziare una gran sete, e chi avrebbe potuto stabilire se fosse una sete del corpo o dell’anima? Ero triste, trista da morire per il fatto che fra noi ci fossero tre passi, che sarebbe come dire sette leghe, ma la felicità di un altro mi sarebbe parsa ben misera cosa in confronto a quella tristezza di cui m’inebriavo e che era una specie di felicità.
(Fabien)
L’interesse che l’autore ha per le relazioni umane in quanto unità di misura della vita è visibile fin dal primo racconto, L’apprendista psichiatra, che, pur essendo debitore alle ossessioni di Poe, mette subito in chiaro che è il rapporto con l’altro a definirci. Ad essere significativi sono gli attimi di vertigine, quelli che aprono la prima delle nostre voragini interiori, con cui dobbiamo confrontarci, finché tutto crolla, si sgretola, talvolta rivelando coazioni a ripetere e incomunicabilità nevrotiche.
In questi racconti ci sono donne che si confrontano con la loro solitudine e con scelte sbagliate, inseguimenti fantasmagorici, vittime e carnefici, osservanti e osservati, artisti che agognano l’opera conclusiva, totale, capace di contenere tutto il dicibile passato, presente e futuro. I paesaggi interiori dello scrittore sono magnifici e perturbanti, e su ogni atto, su ogni parola, aleggia un non detto di potenza uguale e contraria a ciò che le stesse parole disegnano. Ne emerge un panorama dai contorni affilati, feroci, ironici, definiti quanto incerti, netti e contraddittori; una visione capace di diventare universale, di allargare l’orizzonte dello sguardo di chi legge oltre i confini esteriori e interiori, oltre le regole, oltre il percepibile.
Viviamo in mondi paralleli, gli unici legami fra le generazioni sono parole ormai simili a rebus, “chiavi, bar, cinema, nulla”. E intanto il tempo passa; questi ragazzi crescono e dietro di loro già si apre la faglia che presto li separerà dal mondo di domani.
(La risposta)
La vertigine esplorata da Green con tanta perizia e inquietante modernità è la vertigine della nostra intimità, di quello che in noi è nascosto, di quello che va oltre il tangibile e il comprensibile: una intimità dura, ruvida, puntuta e fragilissima, attraverso la quale introiettiamo ciò che il nostro sguardo riesce ad accogliere, quello stesso oggetto che, allo stesso tempo, non sarà mai completamente nostro.
Julien Green
Vertigine (1930, 1989, 1997)
Trad, it. Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco, Francesca Scala, Ezio Sinigaglia, Filippo Tuena
Roma, Nutrimenti, 2017
pp. 228