Esiste un dibattito tanto antico quanto intoccabile, presente come sottotesto di tanti discorsi della contemporaneità, eppure continuamente esorcizzato, ed è quello intorno alle conseguenze dell’arte violenta sulla società.
Antico perché i primi a ragionarci furono Aristotele e Platone, discutendo se la tragedia calmasse o eccitasse le passioni cattive del popolo ateniese. Come è noto, Aristotele sostenne la prima tesi, usando il concetto di catarsi, Platone la seconda.
Intoccabile perché la nostra società, fondata sull’intrattenimento e sulla libertà di parola, è sempre stata ferocemente aristotelica, nonostante i molteplici segnali provenienti da una realtà sociale marcatamente platonica. E tuttavia la posta in gioco è alta. Benché sia evidente che le rappresentazioni artistiche e le narrazioni pop influenzino la realtà, che esistano fenomeni addirittura precedenti alla società di massa come l’effetto Werther a testimoniarlo, e che interi campi di studi come la sociologia dell’arte e i cultural studies si fondino su premesse di questo tipo, dietro la tesi platonica si agita lo spettro della censura e tanto basta per interdire la stessa possibilità di sollevare il discorso.
La trilogia letterario-cinematografico-seriale di Gomorra è un luogo privilegiato per sollevare il dibattito, non fosse altro perché lo ha fatto il suo autore per primo. Roberto Saviano ha manifestato in una serie di interventi pubblici (come questo datato settembre 2011) la sua preoccupazione circa l’influenza che i gangstar movie, uno su tutti Scarface, esercitano sui giovani e meno giovani mafiosi o aspiranti tali. Tanto nel libro, quanto nel film, assistiamo alla diffusione delle icone cinematografiche gangster presso i veri camorristi. Ma lo stesso Saviano quando affronta il tema sa di giocare col fuoco e risulta ambiguo. Da un lato, riporta il successo di Tony Montana come mito e modello da imitare per i criminali di tutto il mondo, dall’altro sostiene l’importanza di rappresentare e raccontare la criminalità in tutta la sua crudezza per educare i più giovani. Nel finale di articolo Saviano si concentra sul come rappresentare, e però, stranamente, proprio Scarface è annoverato tra i film che hanno fatto un buon lavoro in questo senso.
A parte le contraddizioni interne all’articolo, Saviano ha dimostrato con i fatti che il come è fondamentale per la legacy di un’opera criminale negli ambienti criminali. I suoi fatti sono le tre incarnazioni di Gomorra sopra elencate: due si sono rivelate aristoteliche, una platonica, ma dietro a tutte è presente l’intenzione di raccontare il crimine senza celebrarlo. Si tratta di un obiettivo arduo, basti ricordare una citazione attribuita a Truffaut per cui è impossibile fare un film di guerra contro la guerra. Tale citazione trova riscontro nell’adorazione che i militari di ogni paese occidentale nutrono per film come Full Metal Jacket di Kubrick, che apparentemente sostiene che la guerra renda i soldati stupidi e infantili ma poi, a livello mitico, i suoi protagonisti vengono percepiti come gente con due palle così che bisogna rispettare o si finisce male. La stessa contraddizione struttura la maggior parte dei gangster movie che, nonostante l’ineluttabilità del destino dei loro antieroi, non eludono la fascinazione verso la vita da semidei che hanno avuto.
Poiché parliamo quasi sempre di cinema, si potrebbe pensare che sia la potenza dell’immagine in movimento, la sua natura imperativa a precedere e sovrascrivere qualsiasi discorso, a presupporre una incomunicabilità dei “messaggi positivi” in un film violento. La trilogia di Gomorra ci fa riconsiderare questa ipotesi.
Infatti, non solo il libro, ma anche il film di Matteo Garrone non hanno esercitato il minimo fascino presso criminali e aspiranti tali. È indubbio che sia il libro, sia il film Gomorra non presentino una struttura narrativa classica, quella cioè del romanzo e della maggior parte dei film. Più che una storia con protagonista, antagonista e personaggi comprimari distribuiti su un arco narrativo, siamo di fronte a una molteplicità di scene, unite solamente dallo sguardo di un osservatore. Una struttura vicina più al documentario o all’inchiesta che non alla fiction. Come è noto, nessun criminale si identificò in quei personaggi, Saviano e Gomorra subirono il disprezzo e l’odio della camorra e di chiunque a Napoli e dintorni si identificasse con una certa way of life criminale, che poi la praticasse o la sognasse poco conta.
Negli stessi anni, un altro oggetto narrativo tripartito in libro, film e serie tv, ebbe un notevole successo: Romanzo criminale del giudice Gianfranco De Cataldo, scritto nel 2002 e ispirato alla storia della banda della magliana, distaccandosene significativamente in più punti per ragioni narrative. Nel 2005 uscì il film diretto da Michele Placido e tre anni dopo la serie televisiva diretta da Stefano Sollima (tra i registi, poi, della serie Gomorra). Quest’ultima incarnazione narrativa ha avuto l’impatto più forte su pubblico e critica. Unanimemente applaudita come protagonista della rinascita della serie tv italiana assieme alla coeva Boris, conquistò anche il cuore di una generazione di adolescenti che si identificava nei fichissimi alter-ego dei criminali della banda della magliana. Chiunque ha vissuto a Roma alla fine del decennio scorso ricorderà che ogni comitiva di pischelli sapeva tutte le battute a memoria e distribuiva nel gruppo i soprannomi degli eroi televisivi. Il nascente Facebook era infestato da immagini motivazionali con frasi a effetto sulle facce degli attori del telefilm, quel genere di comunicazione visiva che già si era affermata usando altri uomini duri del cinema, da Vin Diesel all’Al Pacino di Scarface, appunto. E ci fu anche chi si spinse oltre.
Quest’insieme preciso di fenomeni lo ritroviamo, oggi, come “effetto di Gomorra (la serie) sulla gente”: una catena di emulazioni che va da chi lo fa per ridere, al criminale vero e proprio che si rispecchia in Ciro l’Immortale e Genny Savastano. Come è potuto succedere?
Analizzando il precedente di Romanzo criminale, c’è da dire che tutte e tre le incarnazioni della storia convergevano in un romanzo: una narrazione orientata e armonica che prevede un gruppo di protagonisti, antagonisti, comprimari, le loro rispettive evoluzioni psicologiche attraverso vari love interest e incidenti di percorso, e un finale lieto o drammatico. Rivedere la serie oggi fa un certo effetto, avendo negli occhi il tentativo (purtroppo fallito) di inversione di rotta costituito da Gomorra La serie. Libano, Freddo e Dandy, il core group della banda, ci sono presentati come degli irresistibili, trascinanti, persino commoventi antieroi. Il main theme del telefilm, un pianoforte dolceamaro e nostalgico, suona per la prima volta quando li vediamo giocare a pallone sulla spiaggia d’inverno, subito dopo che hanno deciso di prendersi Roma, ad anticiparci il futuro grandioso, tragico e poetico di questi tre figli della capitale. Suonerà molte altre volte nel corso della serie, caricando ogni scena di sfumature simpatetiche. La violenza che c’è nel telefilm si situa a metà tra la risata goliardica e il fomento da stadio: ogni membro della banda spara una frase a effetto prima di sparare materialmente al deficiente di turno che ha avuto la patetica idea di mettersi di traverso ai re di Roma: “Ah Bufalo, ma che nun lo vedi che nun se regge in piedi” dice un avventore del bar per salvare la pelle di un amico che aveva straparlato da ubriaco, “E che nun lo vedo”, risponde er Bufalo, mentre lo stende a terra con una pallottola in testa. La fine della serie è un manifesto perfetto della poetica generale: siamo ai giorni nostri, il sopracitato Bufalo viene rapinato da giovani criminali senza ideali. Una volta rialzatosi, tira fuori la pistola e ne uccide uno, urlando la sua appartenenza alla più grande storia criminale della città. Si rifugia nel bar della vecchia banda e ha un’allucinazione: vede i suoi vecchi amici, ormai tutti morti, che ridono e scherzano giocando a biliardo e bevendo birra. “Libano, c’è la madama” dice al suo vecchio capo, “Bufalo, e che me ponno fa’ a me? So’ morto” risponde il fantasma; Bufalo ritorna al presente, apre il fuoco sulla polizia e muore titanicamente sulle note di Liberi… liberi di Vasco Rossi: fine da eroe, soldato di un wild bunch di pazzi scatenati ma buoni di cuore, quattro amici al bar che hanno avuto il folle sogno di prendersi Roma; se ne va così l’ultimo membro della banda, cullato dalla nostalgia di “finché eravamo giovani…”, dopo aver rimesso a posto, cioè ammazzato, un ragazzino che aveva mancato di rispetto alla leggenda che rappresenta.
Nelle intenzioni, Gomorra La serie vuole essere la confutazione di questo manifesto. Figlio dell’iperconsapevolezza della questione che abbiamo visto in Saviano e delle polemiche che seguirono a Romanzo Criminale e prodotti simili, la prima stagione di Gomorra è uno splendido tentativo di romanzo criminale senza celebrazione dei criminali. Romanzo perché si distacca dal taglio documentaristico delle prime due incarnazioni dell’opera di Saviano e apparentemente si propone di “raccontare le avventure” di alcuni camorristi. Ma si distacca anche dal suo precedente più immediato, e dalla tradizione dei Crime Movies in generale, cercando inedite strade narrative capaci di disinnescare il meccanismo di immedesimazione. Il mezzo principale è la caratterizzazione di Ciro l’Immortale che, nell’impianto corale della prima stagione, è il personaggio più vicino al ruolo di protagonista, ponendosi come maschera dello spettatore. E però è una maschera che funziona male: Ciro è veramente amorale, non capiamo né le sue intenzioni né la sua scala di valori al punto che lo troviamo a un passo dal fare l’infame: denunciare alla polizia, peggior delitto del codice etico criminale. Vediamo le vicende attraverso i suoi occhi ma non possiamo immedesimarci perché non capiamo mai chi è. Ciò non è bastato. Sebbene anche il tono generale della serie sia decisamente più cupo di Romanzo criminale e non si trovi un briciolo della goliardia che animava le bravate della banda, i camorristi di Gomorra restano criminali: impongono il proprio volere con la violenza, si minacciano a vicenda con le roboanti verità che strutturano il loro universo valoriale. E così, a seguito del grande successo della serie, si mette in moto il circolo di cui abbiamo parlato prima: battute su Gomorra, meme su Gomorra, emulazione di Gomorra.
Tra una stagione e l’altra, Saviano deve rispondere delle critiche che lui stesso sollevò, provenienti addirittura dal sindaco De Magistris, ma con l’avvicendarsi delle stagioni, la situazione non fa che peggiorare. Gomorra finisce vittima di una cosa che chiamerei “effetto Scrubs”, quella dinamica inevitabile che rovina (o migliora, a seconda delle opinioni) le commedie seriali: personaggi che nascevano come macchiette grottesche per costruire scenette surreali acquistano tridimensionalità man mano che la storia va avanti e, proprio come in Scrubs, il tono generale della narrazione si fa più serio, sovente melodrammatico. In un differente contesto, anche i personaggi di Gomorra che venivano inquadrati con un certo distacco per evitare immedesimazioni eccessive, ci si fanno sempre più vicini, direi più umani, con l’aumentare del loro screen time.
Ma il momento in cui la scrittura si rende attivamente complice di questo processo è nell’ultima stagione, la terza. Prendiamo di nuovo Ciro l’Immortale, ormai protagonista assoluto della serie insieme a Genny Savastano. Le sue azioni sono nuovamente incomprensibili ma in senso negativo, cioè non credibili. Se all’inizio della storia ci risultavano imprevedibili e distanti perché motivate da un opportunismo nichilista che rendeva impossibile l’empatia, ora sono genuinamente incomprensibili perché governate dall’invadente mano dello sceneggiatore che lo incammina in una imitatio Christi ridicola. La terza puntata, interamente dedicata alla sua nuova vita fuori dall’Italia, è paradigmatica. Ciro abbandona Napoli, a un passo dal suicidio, dopo che la sete di potere gli aveva fatto perdere moglie e figlia. Divorato dai sensi di colpa, gettato nella disperazione dalla via dal crimine, cosa fa? Il criminale all’estero. In Bulgaria, diventa il braccio destro di una banda locale che traffica droga e esseri umani. Finisce poi per sgominarla da solo e salvare le prostitute dalla loro sorte. Ciro è un eroe della Nouvelle Vague, le samurai, il gangster più onorevole di tutti che si rivolta contro il sistema per ragioni personali (vogliono farlo fuori) ma finisce per fare il Bene. Ciro non si mischia moralmente col Bene, che è affare da mammolette, ma collateralmente lo fa, uccide i cattivi perché è un duro con due palle così e guai a chi gli si mette di traverso, ma a tempo perso aiuta i più deboli. A processo di mitizzazione compiuto, torna a Napoli, sempre per ragioni imperscrutabili, e scopriamo che ha sviluppato una bromance con il suo nemico giurato, Genny Savastano, fondata su presupposti spirituali ineffabili: i due hanno ammazzato/perso diversi rispettivi parenti. La serie, che era partita all’insegna di un realismo estremo, giunge a un topos dell’amico/nemico neanche da film, ma da anime. Si chiude con la redenzione ultima del Ciro cristologico che si sacrifica per salvare la vita del suo Vegeta personale.
Il caso di Gomorra, l’anomalia che rappresenta, è importante per almeno due motivi. Il primo è che, nonostante le esplicite e dichiarate intenzioni dell’autore, raccontare una storia di criminali che non venisse presa a modello da criminali e aspiranti tali si è rivelato impossibile. Tutti gli sforzi si sono infranti dapprima contro la realtà innegabile di un processo di mitizzazione che ha preso quei pochi appigli che gli venivano forniti da un prodotto culturale per rileggerlo in positivo; in seguito, contro la stessa macchina narrativa che “naturalmente” ha sviluppato una profondità psicologica dei personaggi precludendo ogni presa di distanza.
Ma, cosa ancora più stupefacente, è l’opera attraverso la quale si è dimostrata questa paradossale tesi: Saviano e Gomorra come idoli della camorra. L’odio che la parte mafiosa o connivente di Napoli ha manifestato per dieci lunghi anni sembrava escludere uno scenario di questo tipo. Invece, dal 2016 (l’anno della seconda stagione della serie) i camorristi amano una creatura di Saviano.
Laddove l’immagine era riuscita a mostrare senza raccontare, come nel film “documentaristico” del 2008, la narrazione classica, il romanzo, la morfologia della fiaba, l’onnipresente cammino dell’eroe, l’ossatura ricorrente di tutti i congegni narrativi puri da Omero a Sollima, hanno reso possibile l’impossibile: Gomorra come oggetto di idolatria da parte della camorra.
Sono rimasto piacevolmente colpito dalla qualità dello scritto e dalla profondità dell’analisi. Il mio modesto parere è che per ogni mitizzazione del superuomo selvaggio o, più in generale, della volontà di potenza insita in ognuno di noi (reputo la catarsi comunque importante), dovrebbe essere prodotta una versione ridicola dello stesso soggetto. I criminali che vengono idolatrati per la loro ferocia ed il loro “coraggio” nelle serie televisive citate, hanno molti aspetti ridicoli su cui poter giocare per contenere il loro impatto sociale.
Grazie per il commento, Francesco. Il tema è insidioso, qui trovi molto materiale grazie al quale è possibile allargare il quadro (in particolare consiglio l’analisi sociologica di Antonio Sposito):
http://www.crapula.it/sta-senza-pensier-teorie-esercizi-gomorra-la-serie/