Incipit.
Che cos’è.
L’arte dell’eroismo (The hero maker, 1960) è un oggetto-libro[1] rilegato in brossura a filo refe[2], formato in ottavo[3], con copertina in cartone flessibile a bandella doppia e pagine illustrate in bianco e nero non numerate (nel numero di 94 circa).
L’esemplare[4] italiano cui faccio riferimento è stato prodotto nel 1974 dalla casa editrice milanese Edizioni il Formichiere[5], collana Terzo binario[6] (numero 12).
La traduzione dall’inglese è di Anneliese Wolf Belfiore.
Gli autori riportati presso la prima bandella sono: Akbar del Piombo[7] – filosofo, studioso, littérateur – e Norman Rubington[8] – uno straordinario collagista. Ciò è confermato sul frontespizio.
Di che parla.
Questo oggetto-libro non parla per via convenzionale ovvero tramite il susseguirsi di parole ma parla in maniera non convenzionale per immagini con didascalie e posso definirlo, senza tema di essere immantinente stigmatizzato[9], un oggetto narrativo non-identificato[10].
In esso si fa storia e sviluppo e metodo dell’eroismo, in forma di guida illustrata (le immagini, ben curiose, sono ritagli di riviste di epoca vittoriana deterritorializzate e riterritorializzate) e soprattutto in forma satirica.
Sarebbe oltremodo ingiusto esplicitare in sunto o sinossi i contenuti di tale oggetto-libro, ma il tutto può considerarsi esemplificato in questa pagina:
Dell’eroe dice bene Wu Ming 4 in L’eroe imperfetto, Milano, Bompiani, 2010, pp. 34-5:
“[…] l’eroe non può essere che una figura solitaria. Ma il suo non è necessariamente un atto altruistico, un sacrificio individuale per la salvezza collettiva, bensì, al contrario, la celebrazione della propria superiorità, del distacco dai comuni mortali, ai quali è proibito affiancarlo, perché ne sminuirebbe la gloria. A lui solo spetta dimostrare la propria nobiltà, il coraggio, lo sprezzo del pericolo e della vita. E questa è la cosa che conta più di ogni altra, anche se mette a repentaglio la sorte di tutti”.
Non occorre aggiungere nulla a corollario dell’inanità del tutto.
[1] Ho reperito questo oggetto-libro (prezzo d’acquisto, usato, 5 euro insieme al libro Sodoma e Berlino di Ivan Goll, Edizioni Il Formichiere, 1975, e dunque 2,50 euro in ottemperanza al gusto delle giuste proporzioni) il giorno di domenica, 26 novembre 2017, dal cielo nuvoloso e dal clima non caldo non freddo, in orario vicino a quello in cui generalmente pranzo che è un arco temporale tra le 13 e le 14 salvo radi sforamenti per lo più in eccesso, presso uno dei dieci padiglioni della Mostra d’Oltremare di Fuorigrotta, Napoli, struttura imponente che si estende su una superficie di 720.000 m² e che comprende edifici, padiglioni espositivi, fontane, acquario tropicale, giardini, allestita nel 1937 a gloria del regime fascista, in occasione della Fiera del Baratto e dell’Usato 43ª edizione, evento scoperto per caso scrollando la home del social network Facebook (lanciato il 4 febbraio 2004; mi iscrissi tra i primi nel 2007 dopo averne sentito parlare da amici e ex compagni di liceo scientifico diplomati nel 2000 un sabato mattina prima di una partita di calcetto su erbetta sintetica giocata male e presumibilmente persa) e cui ho dedicato la mattinata in compagnia di Erika (a lei è stato destinato l’oggetto-libro Sodoma e Berlino), prezzo d’ingresso 5 euro a testa. Ignoravo testo e autore, conoscevo la casa editrice, sfogliandolo mi ha punto vaghezza di colmare un estemporaneo vuoto di desiderio e così ho fatto, soddisfacendomi e per acquisto e per lettura nei successivi giorni 26 e 27 novembre 2017. Intorno alle 15 Erika mi ha offerto una pizza al gusto di diavola presso la meritevolmente rinomata pizzeria Porzio mentre il Napoli disputava una partita rivelatasi inaspettatamente difficile e risolta con un gol di Jorginho a favore della squadra azzurra, tuttora capolista in serie A mentre il campionato non è ancora giunto al giro di boa.
[2] La rilegatura in brossura a filo refe consta di fascicoli dello stampato cuciti al centro e incollati alla copertina. L’altro tipo di rilegatura in brossura, quella fresata (o brossura a colla), è la più diffusa ed economica; le pagine sono unite alla copertina mediante colla elastica. Fili, colle e carta utilizzata possono variare e differenziare, così, qualità e prezzo.
[3] Il formato in ottavo nei libri antichi esigeva che il foglio venisse impiegato in tre parti; nei libri moderni, invece, la formula si riferisce alla dimensione delle pagine, corrispondente a 22,8 x 15,5 cm (in questo caso: 22 x 13 cm).
[4] Un giorno, presumibilmente nel tramonto della mia esistenza, quando nulla avrà più senso e l’unica cosa che conterà sarà il sempre più veloce battito del mio tempo “finituro” da distillare oziosamente, si spera, in lunghe e lente giornate di deserto interiore, ligio ai primari bisogni e ormai dimentico dei piaceri primordiali, fatta crollare la lunga e “budinosa” torre della nostalgia, deporrò esemplari come questo (libri, foto, video, audio, capelli, peli, unghie) nel laboratorio – palazzina di cemento a tre piani a forma quadrata con impressione di imponenza e fatiscenti rispettivamente muri esterni, infissi, pietre del vialetto d’accesso, antenne, con minuscoli balconi per una persona in numero di dieci in larghezza e quattro in altezza dalle ringhiere arrugginite, nove bocchette dei rifiuti, ottanta ganci per la biancheria, quaranta aspiratori per la ventilazione disposti in ordine perfetto, finestre solide dagli spessi vetri puliti, tettoie in rilievo sulla facciata secondo il motivo di onde, interno con parquet, al centro giardino grande pieno di piante sul quale affacciano le stanze di uguali dimensioni – adibito alla preparazione e conservazione (per sempre, visibili dai soli proprietari) di esemplari per esigenze private trattati con amore e preparati dal signor Deshimaru il cui senso, per i proprietari (me incluso), è “separarsene, così si compie il suo destino ultimo” (cfr. Yoko Ogawa, L’anulare, 1994, traduzione di Cristiana Ceci, Milano, Adelphi, terza edizione del 2011, p. 26).
[5] Informazioni, non esaustive, reperibili dal web (motore di ricerca: Google):
Stefano Jacini (Milano, 26 aprile 1939), scrittore con esperienze in campo editoriale (Sugar, il Saggiatore e, oggi, Edt), ha fondato e diretto le Edizioni il Formichiere per dieci anni avvalendosi della collaborazione di Cristina Pariset (la quale, dice Mario Andrease in Uomini e libri, Bompiani, 2015, “all’epoca contendeva legittimamente a Tamara Baroni il titolo di bella di Parma”);
la casa editrice, che avrebbe chiuso nel 1980, pubblicava narrativa contemporanea e non, saggistica, monografie, libri sul cinema;
la prima pubblicazione attestata dal motore di ricerca è del 1973, l’ultima è del 1980;
da ricordare la pubblicazione, nel 1977, del controverso romanzo di Giorgio De Maria Le 20 giornate di Torino, libro cult recuperato solo nel 2017 dalla casa editrice Frassinelli.
[6] Le collane attestate dal motore di ricerca sono sei: Gli Anelli; Terzo binario; Biblioteche; Cinema; Il Cinema di Genere; Il Solaio.
[7] Akbar del Piombo è nom de plume di Norman Rubington.
[8] Norman Rubington, nato il 20 giugno del 1921 in New Haven, Connecticut, fu pittore e illustratore e morì il 1° gennaio 1991. Informazioni più dettagliate sono reperibili dal sito web http://www.normanrubington.com
[9] “I greci, che sembra fossero molto versati nell’uso dei mezzi di comunicazione visiva, furono i primi a servirsi della parola stigma per indicare quei segni fisici che vengono associati agli aspetti insoliti e criticabili della condizione morale di chi li ha. Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, o comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato, specialmente nei luoghi pubblici. Più tardi, dopo il sorgere del Cristianesimo, a questo termine vennero ad aggiungersi due livelli metaforici. Il primo si riferisce ai segni corporei della Grazia, che prendevano la forma di sfoghi della pelle, e il secondo ai segni corporei del disordine fisico. Era quest’ultimo un’allusione medica alla allusione religiosa. Oggi il termine è largamente usato in quello che potremmo chiamare il suo originale senso letterale, ma si applica più alla minorazione che alle prove fisiche di essa. Inoltre ci sono stati dei cambiamenti nel tipo di minorazione che suscita ribrezzo e preoccupazione”.
(Erving Goffman, Stigma. L’identità negata, 1963, traduzione di Roberto Giammanco, Verona, Ombre Corte, sesta ristampa del febbraio 2011, p. 11).
Stando allo studio del sociologo americano, il rischio sarebbe di rientrare nel secondo tipo di stigma “per gli aspetti criticabili del carattere che vengono percepiti come mancanza di volontà, passioni sfrenate o innaturali, credenze malefiche o dogmatiche, disonestà” e io non manco di distinguermi, allo sguardo altrui, per eccesso di dogmatismo come sarebbe questo il caso seppur casi siffatti non rientrano in quell’insidioso campo delle religioni che tutt’oggi miete vittime facendo di queste, talvolta, mine per esplosioni di cosiddetto fanatismo che vanno dal collettivo suicidio al terrorismo passando per molteplici forme meno estreme ma altrettanto anti-sociali.
[10] Ovvero esorbitante i generi classici se vogliamo che i generi classici esistano. La formula oggetto narrativo non-identificato ha avuto una certa interessante esposizione durante il lungo e rumoroso e inconsistente dibattito letterario intorno al New Italian Epic stimolato dai satiri mediatici Wu Ming ex Luther Blissett e terminato con la pubblicazione di New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009 e dimenticato con la pubblicazione di Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza, 2012 (preceduto da un articolo dello stesso, su «Repubblica», l’8 agosto 2011). Erano tempi in cui la fiducia sconsiderata nella potenza del web si nutriva della fanciullesca ignoranza circa le possibilità del web, sembrano passate ere da allora, ma si sa, il tempo più si va avanti più gira velocemente e il demiurgo è un criceto.
Urge tuttavia salvare qualcosa che ancora ci può essere utile, seppur decontestualizzando e incistando altrove per volontà personale o quantomeno per monumento ai caduti: “I libri del New Italian Epic, durante la loro genesi, possono avere uno sviluppo «aberrante» e nascere con sembianza di «mostri»” (New Italian Epic, cit., p. 41).