Ripeschiamo un vecchio testo – vecchio di quando Baggio Roberto ancora giocava, ed ancora più esoterico eremitico del codino degli ultimi anni – per richiamare un tema che a lungo ha avuto, nel secolo scorso, voce ed appoggio tanto mediatico quanto teorico, e che ora pare essersi ingrigito, quantomeno dal punto di vista teorico: le avanguardie. Nel testo sotto ci si riferisce all’influenza delle avanguardie storiche su un certo tipo d’arte (si circoscrive in maniera piuttosto definitiva; non fateci caso, lettori, al contrario, fatevi sotto). Ciò che crapulamente uno spererebbe di generare qui, in effetti, è una quistione più generale sul senso ed il ruolo dell’avanguardia, il cui tema sarebbe le avanguardie storiche stesse : futurismo, dadaismo, surrealismo, situazionismo cosí come movimenti e tendenze molto più recenti che tuttavia con questi ultimi conservano stretti legami concettuali (afterpop, sociologia “derridiana” delle letteratura etc.) In altri termini: per quale motivo Joyce e Beckett sono percepiti come classici mentre Breton è un pezzo d’antiquariato esoterico? O per tornare recenti (e spostarsi in territorio iberoamericano) chi è più audace, Riccardo Piglia di Respirazione artificiale o la generazione Nocilla? E soprattutto, che vuol dire essere audace?
“Le avanguardie e la loro filiazione.
E così, questi uomini hanno scoperto il logos e girandogli intorno gli hanno fatto le smorfie per tutta la vita, ripetendo, o meglio dimostrando il teorema del logos. E questa è la storia di tre generazioni di artisti.
D’altra parte, per uomini nutriti e colonizzati a quel modo, è stato impossibile, fisiologicamente, superare il varco della scoperta, così come lo è stato per i loro progenitori, i fanatici dell’espressione. Ma questo non è assurdo. Uno sguardo più alto, dall’alto, può considerare questi stessi uomini come campioni di una fase attraverso la quale tale scoperta – il logos e il suo doppio –, è stata volgarizzata ossia diffusa come una preparazione e un antidoto – e cos’è l’arte se non questo – e ancora, una fase in cui, per estenuazione, l’arte, l’arte superiore e malata, insieme a tutti i suoi luoghi e mezzi, si è praticamente estinta, è arrivata a esporre le sue ultime conseguenze, e tesi, proprio lasciando salire in superficie tutte le contraddizioni più cocenti della sua formazione – esposizione il cui merito è proprio di queste tre generazioni di artisti il cui ultimo rappresentante è stato Carmelo Bene.
Che ancora oggi, nei luoghi dell’arte, e dunque soprattutto nei corpi degli artisti, si giochi a tentare l’alterità, il surrealismo, il siluramento dell’idea, è un lampante effetto di una catacresi, e dunque di una volgarizzazione i cui effetti sono lunghi, se non addirittura catastrofici..
Ciò che le avanguardie, e la loro filiazione, per un secolo hanno fatto, è stato trasferire l’intero problema della forma sul piano dell’espressione.
E l’espressione è ciò che maggiormente vincola, inibisce e rende impossibile ogni pensiero tetico, e dunque ogni rischio – e, sia detto solo per qualcuno, essa è soprattutto una volgarità, oppure la risata di un satiro, o meglio di un dio, il settimo giorno.
Questi artisti hanno giocato all’ombra dell’epigrafe monumentale disce subesse deo,
e comunque sono stati i migliori, essendo stato l’intero mondo all’ombra di quest’epigrafe, finora.
È stato il modo in cui Bene rinvi ad Artaud che chiarisce il senso di quel trasferimento di cui sopra :
“..superamento d’Artaud e della lingua degli angeli..”;
“..Artaud sta ancora nella rappresentazione..”.
Ciò che Artaud ha insegnato è il fatto catastrofico e destinale della presenza.Il resto è una rivolta hegeliana contro Hegel. Così come una rivolta hegeliana contro Hegel è stato l’intero movimento della superiore arte europea da un paio di secoli a questa parte. E aggiungo suo malgrado.
Suo malgrado poiché le conseguenze, o meglio l’eredità stessa della cultura europea supera nettamente la scoperta di una crepa, ed è un fatto il cui peso resta tuttora schiacciante. Nè ciò implica in alcun modo che questo fatto, il peso e l’eredità della cultura europea, debba compiersi all’aperto come in un teatro, o meglio non è detto che lo spettatore debba capire.
L’opera delle avanguardie e dei loro figli eletti è stata soprattutto una consolazione molto ardita, poiché estrema e interna, un espediente fatico cui si è giunti per avere comunque qualcosa, un orizzonte, fosse anche l’espressione – offrendo tra l’altro, il tema di un’intera esistenza a tutti quelli che istintivamente hanno scelto la via del commento, i poveri di spirito, gli avvocati di dio.
Come, l’espressione – una giustificazione ?”
Forse anche l'arte è morta… se non altro, i suoi fantasmi fanno ridere spesso e volentieri, e se Duchamp decontestualizza un orinatoio e ne fa un pezzo unico, Manzoni può benissimo cagare in serie e sentire una unicità provenire dal suo retto…. sta ad abili pubblicitari e critici decidere cosa è arte, oggi..inorridisco se penso a cosa avrebbero potuto fare i critici nel rinascimento, magari avrebbero sentenziato che Monnalisa era brutta -per dire…-, e Leonardo si sarebbe dato alla sellatura dei cavalli…
Concordo in linea di massima. Allo stesso tempo, però, uno deve pure considerare che, storicamente e filosoficamente, i sentieri attraverso cui la critica è nata come tale, sono gli stessi per cui gli artisti hanno smesso di dipingere madonne e ritratti di nobili.(un aneddoto interessante: fino alle prime esposizioni pubbliche del salone di Parigi di inizio 800, non esistevano i titoli delle opere, che sono stati poi introdotti per differenziare un'opera dall'altra, poichè i quadri stavano letteralmente gli uni sugli altri. Pensare al ruolo concettuale che poi hanno assunto i titoli, soprattutto nelle arti visive…)