La bellezza uccide, la bellezza è l’assassino.
Gregory Corso
12.00
Alle dodici dell’ultima domenica di marzo la città si riversa sul lungomare per festeggiare l’ingresso della primavera. Passeggiatori saltellano scoprendosi le spalle, soffiandosi sul petto. I camerieri invitano a sedersi all’ombra, nei ristoranti già pieni. I fiori, riversi sui bordi dei vasi, annunciano l’estate in anticipo.
«Che bello, a mamma, guarda! Che bello, guarda, guarda… sì, sì, sì, oplà!»
Alice regge il neonato sul braccio destro, gli indica le barche, i gabbiani sugli scogli; fa un mezzo giro e gli indica i bambini, i cani, i suonatori. Ha gli occhiali da sole che fanno da fermacapelli e le sopracciglia aggrottate per la luce. Dario è appoggiato, quasi accasciato sul passeggino, guarda fisso il mare. In prossimità degli scogli il cadavere di un topo galleggia sul dorso: il corpo grigio e gonfio, il capo reclinato sotto la superficie dell’acqua, come fosse stato mozzato, le zampe dritte e lunghe.
«Dario, ehi, Dario?!»
Alice mette Davide nel passeggino e guarda nella stessa direzione di Dario. Fissano il topo, non parlano.
15.17
Oggi fa un caldo importuno. Donne entrano ed escono dalla toilette, io resto immobile davanti allo specchio. Una ragazza è chiusa nel gabinetto da diversi minuti, la sento vomitare. Fuori è caos allegro, farfuglio vivace, con risa che si levano nel mucchio e gridolini di stupore. Mi avvicino di soppiatto alla porta del gabinetto e seguo il ritmo dei conati. La ragazza scarica ed esce, ha occhiaie di rimmel. Non sembra sorpresa che origliassi. Si lava le mani e mi guarda attraverso lo specchio.
«C’era un topo morto che galleggiava vicino agli scogli. Era così gonfio. Che cosa orribile».
«L’ho visto anch’io!».
«Quel topo mi ha rovinato la domenica».
«Sei molto sensibile alla morte?»
«Sono molto sensibile al brutto».
«Ah. C’è qualcosa di più brutto della morte?»
«Il morto che non muore. Il topo stava lì, galleggiante, pareva intrappolato nel tempo, orribile».
«Ma oggi è una bellissima giornata, non lasciamo che un dettaglio la rovini».
Prendo la borsa, intenta a uscire. La ragazza inclina la testa, sorride e strofina le dita sotto gli occhi per rimuovere il nero.
«La mia vita è solo un’accozzaglia di dettagli, io non ho la visione del tutto».
Poggio nuovamente la borsa sul lavandino, affiancandomi al suo corpo di nemmeno vent’anni, di nemmeno cinquanta chili.
«Qualcuno ha detto che nei dettagli c’è dio» le suggerisco.
«C’è anche chi ha detto che nei dettagli si nasconde il diavolo. Roba da artisti. Non sanno fare altro che procedere di rimando. Uno dice una cosa e il giorno dopo c’è chi dice il contrario, e così credono di creare, invece quello che fanno è dare un nome alle cose e tirarle a sé come nel gioco della fune. Ognuno chiama mondo l’angolo dal quale sta giocando».
«Sei un’artista?»
«Sono figlia di artisti».
«E che vuol dire vivere di dettagli?»
«Che mi manca il senso complessivo dell’esistenza. Procedo per piccoli salti caotici: da un’ora all’altra, da un mese all’altro, da un anno all’altro, in nessuna direzione, se non quella del tempo».
Abbassa la testa nel lavandino per lavarsi i denti, vedo la schiena sobbalzare nel tentativo di fermare i conati.
«Senti, hai un disturbo alimentare?»
«Non è un disturbo alimentare, è un disturbo estetico, è ereditario».
Confusa, prendo di nuovo la borsa e di nuovo la poso. Lei si volta: si asciuga la bocca con il polso e mi guarda in faccia per la prima volta, con occhi stretti e acquosi, di un verde tendente al grigio. Una signora esce dal gabinetto, accenna un sorriso senza guardarci, si sciacqua furtivamente le mani e in gran fretta ci lascia sole.
«Il senso della mia vita sta al tavolo: ho un figlio piccolo. Torno da lui».
Annuisce con la testa, ma senza ascoltare, non riesce a frenare l’eruzione che le risale da dentro.
«Io vorrei tornare da mia nonna, in Giappone. Là sono stata toccata dalla bellezza. Andavamo a guardare lo spettacolo delle effimere. Sono insetti che assomigliano alle libellule. Dopo più di un anno escono dallo stato larvale e volano a migliaia sui corsi d’acqua. Ricoprivano l’intero lago, luccicando; sembravano sbocciare come fiori. Muoiono dopo poche ore dalla schiusa. Gli uomini vogliono vivere cent’anni. Ma la durata della vita non conta se accade qualcosa di tanto bello da essere perfetto, come la danza delle effimere. Non è vero che la bellezza si può creare, come farneticano gli artisti, la bellezza càpita».
«Bellezza, perfezione, non sono cose da artisti?»
«Sono cose del mondo. Quando cadono nelle mani degli uomini diventano idee e poi mostri. Gli artisti inseguono le idee e tentano di raggiungerle col perfezionismo. Ma il perfezionismo è una malattia, può portare anche al suicidio».
«Non sono d’accordo. Dietro un suicidio si nasconde un grande dolore».
«Più spesso si nasconde il vuoto. Andare avanti e non riuscire a sentirsi, fare di meglio, fare il meglio e non provare niente. Alzare l’asticella e continuare a non provare niente: il morto che non muore».
«E perché mai un morto dovrebbe uccidersi?»
«Perché è condannato a galleggiare nel mondo come cosa impotente. È il perfezionista che non raggiunge mai l’idea. Il suicidio è smetterla di morire».
17.12
«Cos’è quest’odore?»
«Quale odore?»
Si avvicina allarmata ai fiori sul davanzale, li annusa, li esamina.
«Cos’hanno? Sono flosci per il caldo improvviso, bisogna annaffiarli».
«L’odore mi disturba».
Alice trascina i vasi fuori al balcone con le chiavi di casa ancora in mano, gli occhiali da sole caduti sul naso. L’ultimo a essere spostato è il cactus, il più difficile da trascinare, è alto un metro e mezzo e sulla punta ha delle protuberanze grosse come metastasi.
«Alice, ti sono sempre piaciuti i fiori e stasera ti disturbano…»
«Ma almeno ti sei accorto che le mosche ci hanno invaso casa? Stanno depositando le uova sulla frutta. Dovresti lavarla».
2.45
Un altro tuono. Davide è spaventato, piange; lo tengo in braccio, lo cullo. Lei non rincasa. Ho tolto le chiavi dalla serratura, non posso sopportare un’intera notte di temporale senza Alice che si occupa di Davide, marcia per casa e mi insulta perché sono un insetto. L’ha detto stasera, io ho ribattuto prontamente: «Un inetto? Lavoro tutto il giorno, molto più di te!»
«Un insetto, Dario, non un inetto. Vuol dire che, per quante cose tu faccia, sei un uomo piccolo così. Lavori come gli insetti, perché devi farlo, perché così sei programmato. Vai avanti come un automa: l’efficienza e la noia. Non ami niente e nessuno».
«Amo i libri, sono un lettore onnivoro».
«Un bulimico, Dario, non un onnivoro. Tanta lettura e non sai chiamare le cose col proprio nome: bulimico! Lo sei in tutto. Ingurgiti, rigetti, mischi ogni cosa senza capacità di discernimento, che disgusto mi fai. Questo non è amore, è essere ingordi, senza fondo, vuoti».
«Amo tutto tranne te. È questo a farti infuriare».
Non ha detto nulla. È andata in camera, ha sfilato tutti i vestiti dalle grucce, ha aperto i cassetti, ha rovistato nel bagno. Io ero impietrito con le mani sul tavolo e le mele tirate a lucido. Non so dare i nomi alle cose: mele, mele annurche, mele banane? Avrei voluto dirle “Alice, torna a tavola, parliamo delle mele, spiegami cos’è che rende tale una cosa e non un’altra. Te ne stai andando perché sono un insetto o perché non ti amo?”
6.00
È tornata perché ha freddo e ha paura. Mi avvicino con un balzo, le prendo il collo tra le mani.
«Io sono la mosca e tu la mela. Sei molto più bella tu. Ma marcisci prima», poi faccio un respiro profondo: c’è un odore nuovo, intenso, paradisiaco. Annuso l’aria: è ovunque. Lo seguo fin fuori al balcone, la città è ancora in silenzio, coperta da un manto d’argento umido. Sono sbocciati cinque fiori di cactus grandi quanto la mia mano, bianchi, che promanano un odore mai sentito. Quei bozzi turgidi e nauseabondi hanno impiegato un anno per crescere e sono sbocciati in poche ore. Quei tumori erano fiori. Una volta Alice ha raccolto un fiore di magnolia che marciva sotto la pioggia; l’ha messo al riparo sotto il tettuccio di una cabina telefonica, dove sempre il barbone del quartiere va a comporre la sua sequenza numerica immaginaria e mai si capacita della non risposta, mai si arrende, batte file interminabili di numeri che ricopia dalla sua agendina, così satura d’inchiostro che non è rimasto nemmeno un angolo bianco. La sera, mentre le massaggiavo i piedi e sentivo il suo corpo già schiudersi sotto le mani e il cuore accelerava e le guardavo le labbra, non già per sentire l’ultima frase, ma per cadere dentro la sua bocca, con tutti i vestiti, pronto a farglieli mangiare, le toccavo il ginocchio, mi si induriva tutto e cercavo l’interno coscia perché era impossibile che mi provocasse oltre, ha detto: «trovare il fiore di magnolia è stato il momento più bello della giornata. Lo ricorderò per sempre. Forse di questo giorno, o di questi anni, ricorderò solo quel momento. A volte un dettaglio prende il posto di ogni altro ricordo. Dario, ci pensi se un dettaglio prendesse il posto di un’intera vita?»
Il corpo è immobile, gli occhi aperti, sembra voler stare lì per sempre. Ha detto che sono vuoto. Un morto che si ostina a rimanere vivo.
9.30
Il commissario è un tipo ben piazzato, centodieci chili in camicia azzurra, maniche risvoltate, suda perfino nei baffi e non lascia in pace l’agente scelto. Trasforma il picco insulinico in sarcasmo da scaricare immediatamente su qualcuno.
«Oggi è una giornata impossibile! Un caldo micidiale… a marzo, ti pare? Ma che vuoi saperne tu, Berto, l’unica cosa che ti accalora è il momento in cui devi comunicare le ferie e solo la paura ti fa sudare!»
«Commissario: Dario Margutta».
Dario avanza circospetto, sbandando, tirando su col naso. Ha le occhiaie e la camicia aperta fino al quarto bottone e sotto le ascelle macchie di sudore che arrivano quasi alla vita.
«Lei è in stato di shock, lo comprendo perfettamente. Mi dica tutto quello che ricorda, nell’ordine in cui lo ricorda. Inutile dirle che maggiore è la precisione, maggiori saranno le possibilità di fare chiarezza. Se non riesce, ci fermiamo. Berto, porta dell’acqua».
«Ieri io e mia moglie abbiamo iniziato a litigare dal pomeriggio. Mi ha dato dell’insetto. Allora sono uscito di casa, ho vagato per qualche ora. Quando sono rientrato l’ho trovata morta. Si è ammazzata. Ma io lo so, lo so, c’entra una ragazza che le ha messo strane idee in testa».
«Quali idee e quale ragazza?»
«Una ragazza che ha conosciuto nel bagno del ristorante dove eravamo a pranzo. Le ha parlato di certi insetti che vivono un solo giorno. Le effimere, si chiamano. Quando nascono sono talmente tante e volano così veloci che riescono a oscurare il lago, l’acqua da verde diventa grigia. Le ha detto che sono bellissime, ma al tramonto sono già morte».
«E lei cosa le ha detto?»
«Che deve smettere di rodere d’invidia per tutto quello di cui altri godono, che non sa aspettare. Se avesse aspettato avrebbe visto sbocciare i fiori di cactus».
«Nessuno s’è mai ammazzato per due farfalle, né qualcuno è mai tornato in vita perché ogni tanto sbocciano due fiori pure nel deserto, le pare? Che problemi c’erano?»
«Abbiamo un figlio di sei mesi. Lo stress, immagino. Forse depressione post-partum. Non lo so, sono confuso».
«Si prenda un momento, vada in bagno».
Non appena si richiude la porta alle spalle di Dario, interviene Berto, non interpellato:
«Però una volta un uomo s’è ammazzato perché da un giorno all’altro il suo Bonsai Ficus Benjamin ha perso tutte le foglie».
«Ti pare il momento, Berto?», poi, non resistendo all’impulso sardonico:
«Era giapponese?»
«Sì. Un orologiaio shintoista».
«Ti pareva! Certi popoli hanno il culto della morte per mano propria».
«E della bellezza, che è il tempo in cui il divino si muove in tutte le cose. “Un albero spoglio in mezzo a orologi che non si fermano, orribile”, ha lasciato scritto. Bisogna stare attenti alle cose molto belle, commissario».
«Questo non è un tuo problema, Berto. Ti pare? Tu sei il tipo d’uomo brutto e contento, disarmante. Non sembri di questa città. Sei uno straniero, caro Berto. Tu e quest’afa venite da molto, molto lontano».
In copertina: Vincent van Gogh, Ramo di mandorlo in fiore o Ramo di mandorlo fiorito, 1890.