Si dice che il signor Razzoli vada a letto con le galline. Mi sono sempre chiesto come faccia, ma non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo. Però vorrei tanto saperlo, così decido di andare a trovarlo. Prendo il mio cappotto, quello blu con i bottoni dorati. Mi guardo allo specchio, sono soddisfatto; ho un’aria intellettuale con gli occhiali nuovi, ma il cappotto sdrammatizza. Fa una battuta che non capisco. Prendo le chiavi ed esco. Cammino lungo il fiume e vado a caccia di farfalle, le rincorro, cerco di prenderle, mi sfuggono facendomi una pernacchia. Hanno colori che mi ipnotizzano, corro avanti e indietro sulle sponde del fiume. Ormai si è fatto buio e non posso più andare dal signor Razzoli a quest’ora. Non vorrei disturbarlo e poi, se è con le galline? Cosa faccio? Ci andrò domani, magari lo chiamo prima e gli chiedo se posso passare, se è solo. Arrivato a casa guardo fuori dalla finestra. Nei film e nei libri ha sempre un che di affascinante, ma nella realtà guardi solo fuori dalla finestra, niente di più. Passa un cane seguito dal padrone al guinzaglio. Alcuni cani portano i padroni al guinzaglio, li tirano, decidono e comandano loro, altri invece sono docili. Mi stufo presto di guardare fuori dalla finestra. Mi ero fatto troppe aspettative, è stato deludente. Mi siedo per terra e penso che dovrei comprare delle sedie, che dovrei studiare per gli esami, che mancano solo quattro giorni al primo, sei al secondo e dovrei chiamare mia madre che ha chiamato tre volte oggi, non ho risposto, ma ero impegnato, sono andato a caccia di farfalle oggi. E domani andrò a trovare il signor Razzoli. Mi immagino il signor Razzoli che va a letto con le galline, non una, non due, ma tre. Io non sono mai andato a letto con più di una gallina contemporaneamente. Ma in realtà, a pensarci bene, nemmeno con una. Faccio la doccia e mi infilo sotto le coperte. È buio. Conto le pecore. Penso che se ci fosse il signor Razzoli con le sue galline qui, ci sarebbero tanti animali in questa stanza. Ho perso il conto, ricomincio da capo: una, due, tre, quattro… Mi chiedo se le pecore contino gli uomini prima di andare a dormire. E se le galline vadano a letto con gli uomini. Se sia una simpatia reciproca oppure no, un rapporto consenziente oppure costretto. Per un momento mi dispiace per le galline del signor Razzoli e mi sento in obbligo di salvarle, ma rimando tutto a domani.
Dopo aver fatto colazione e aver appurato l’urgenza dell’acquisto di una sedia decido di chiamare il signor Razzoli. Ho una certa antipatia per il telefono, forse quasi lo temo. Digito il numero, squilla, il signor Razzoli non risponde. Mi vesto e vado all’università. Seguo un ciclo di lezioni sulle tragedie italiane nel Cinquecento. Pedalo lungo il fiume, giro a destra, attraverso il ponte, il parco, la strada e sono arrivato. La piazza davanti alla facoltà brulica di gente, a lezione siamo in pochi; quattro o cinque, dipende dalle volte. Oggi siamo in quattro. Sono l’unico uomo, come sempre. Le facoltà umanistiche, si sa. Sorrido alla bionda perché in realtà mi piace la mora, ma non voglio che si capisca e quindi adesso tutti pensano che mi piaccia la bionda. Ma non mi piace, non ho occhi per le altre, la mora di cui ancora non conosco il nome e che ride ora con la rossa mi piace troppo. Mi chiedo perché non ci siamo mai presentati, tutti quanti. Non lo so. Mi chiedo anche quante possibilità ci siano di avere una mora, una bionda e una rossa in un corso. Se la professoressa fosse castana inizierei a pensare di essere in paradiso. Ma la professoressa Nillaga è una vecchia rugosa con la voce stridula, vestiti larghi e scuri. Quando parla fa ampi gesti con le braccia, dall’alto verso il basso. Noi tutti la ascoltiamo attenti. Poi finisce la lezione e ognuno se ne va per la sua strada. Attraverso a piedi il parco e mi accorgo di aver dimenticato la bicicletta davanti all’università, torno a recuperarla e mentre pedalo chiamo mia madre che mi chiede dove sono. Le dico che sto tornando a casa. Mi chiede se sono in bici e mi ordina di scendere, le dico che sono sceso, ma in realtà continuo a pedalare, mi sento un ribelle e ne vado fiero. Mi chiede se ho comprato le sedie, le dico che al massimo me ne servirebbe una. Mi risponde che se voglio invitare qualcuno a prendere un caffè o un tè ho bisogno di almeno due sedie. Penso che non ho né caffè né tè, ma non dico nulla. Penso anche che non ho amici qui, ma non posso dirglielo, altrimenti si agiterebbe. Le dico che devo andare, si raccomanda di fare la spesa e ci salutiamo. Forse dovrei veramente fare la spesa. Pedalo fino al supermercato. È da poco che vivo da solo, in questa città. Compro tre pizze surgelate (sono in offerta), una bottiglia di vino rosso, quello meno costoso, un pacchetto di sigarette. Credo che mia madre intendesse una spesa salutare, ma oggi mi sento molto ribelle. A casa mi accorgo di non avere un cavatappi. Intanto metto la pizza in forno e aspetto. Mi chiedo perché il signor Razzoli non risponde. Non voglio richiamare, penserebbe che sono insistente e non voglio dare quest’impressione, poi la voce gira e la ragazza mora di cui mi sono innamorato lo verrà a sapere e mi rifiuterà. Non mi sono ancora presentato ai vicini, ho sempre rimandato e ora mi sembra troppo tardi. Però potrei chiedere un cavatappi e presentarmi. O presentarmi e chiedere un cavatappi. O chiedere semplicemente un cavatappi senza presentarmi. O presentarmi e basta, senza chiedere un cavatappi, ma allora non avrebbe senso presentarsi. Quindi no, non mi presento. Mentre mangio la pizza penso alla ragazza mora del corso sulla tragedia. Visto che ha qualcosa della Bachmann decido di battezzarla Ingeborg. Penso che potrei portarla al fiume e andare a caccia di farfalle, prenderne un po’ e farle vedere la mia collezione, mangiare pizza surgelata e andare a letto, contare insieme le pecore e poi le racconterei del signor Razzoli e dei vicini che non vogliono darmi il cavatappi e allora lei prenderà l’iniziativa e andrà, avvolta nel mio accappatoio, dal vicino, che è un vecchio barbuto con gli occhi piccoli, a chiedergli il cavatappi, aprirà la bottiglia e fumeremo sigarette e berremo vino, leggendo poesie. Oppure mi guarderà sorridendo e mi chiederà se ho un coltello. Io dirò di sì e lei, con un gesto teatrale, aprirà la bottiglia tagliandone la testa. Ma questa scapperà, perché se ha la testa deve avere anche le gambe, e si nasconderà e noi resteremo di nuovo senza vino. Forse la prossima volta dovrei comprare quelle bottiglie che si svitano, così non avrei bisogno del cavatappi e poi costano ancora meno. Per una settimana rimango a casa a studiare per gli esami. Mi mancano le farfalle e mi accontento delle pecore. Ogni tanto guardo le notizie regionali sul computer e leggo le interviste del signor Razzoli che dice che i giovani non leggono. Non è vero, io sono giovane e leggo!, urlo al signor Razzoli, sul display, che mi guarda con un sorrisetto beffardo.
Oggi finalmente è mercoledì. Il corso sulle tragedie del Cinquecento e Ingeborg mi aspettano. Mi lavo e metto il gel, pulisco gli occhiali e lucido le scarpe, sono pronto! Pedalo con ansia verso la facoltà, salgo di corsa le scale, faccio una pausa per non arrivare sudato e senza fiato, mi guardo nel riflesso della porta a vetri, la apro e mi dirigo verso l’aula. Vuota. Ma come? Prendo il cellulare, entro nel sito dell’università, è mercoledì. Oddio, mercoledì! Mi sono dimenticato che la settimana scorsa era l’ultima lezione e che c’erano gli esami e che non ho dato gli esami, è il mio primo semestre e tutte queste scadenze mi confondono. Mi viene da piangere, più per Ingeborg che per gli esami. Mi trattengo e vado a prendere la bici. Penso che non la rivedrò mai più, che non so neanche come si chiama e pedalo per la città. Pedalo a lungo, c’è un grande parco che non ho mai visto. Scendo, lego la bici con il lucchetto e inizio a camminare. C’è un laghetto e tanto, tanto verde. Penso che ho buttato via un semestre, che non ho sedie in casa, che non ho amici e che non rivedrò mai più la mia amata Ingeborg. Cammino a lungo, il mio stomaco brontola e penso che il signor Razzoli è proprio uno stronzo. Prima non risponde al telefono, poi dice che i giovani non leggono e con che disprezzo! Penso che è anche colpa sua se ho perso il semestre e per tutto quanto. Ma forse no, forse è solo colpa mia, forse avrei dovuto chiedere ai vicini il cavatappi, presentarmi a loro e a Ingeborg, alla rossa e alla bionda e anche alla professoressa Nillaga. Forse avrei dovuto parlare di più al corso, dire qualcosa, fare una battuta, ma è facile piangere sul latte versato. Vado al supermercato e compro del latte, non lo voglio versare e non voglio piangerci su, ma mi è venuta voglia di bere un bicchiere di latte. Stasera voglio uscire. Metterò i pantaloni neri, quelli attillati, una camicia bianca e i mocassini. Gli occhiali li lascerò a casa e potrei incontrare Ingeborg, ma senza occhiali non la riconoscerei, quindi decido di portare gli occhiali. Bevo un bicchiere di latte, penso che gli adulti non avrebbero bisogno di latte e che in realtà non è altro che un concentrato di antibiotici, lascio il bicchiere sporco nel lavandino e vado a cercare Ingeborg per i locali della città. Il primo è un bar stretto e lungo, pieno di gente e qui si bevono cocktail. Non voglio fare brutta figura e ne ordino uno anch’io, uno a caso, il terzo della lista, non il primo perché si capirebbe che non ci capisco nulla e che ho scelto il primo, non il secondo perché ha un nome imbarazzante e diventerei rosso, quindi il terzo, che pronuncio senza problemi e sorseggio con una ridicola cannuccia nera. Esco dal locale con il bicchiere, voglio fumare una sigaretta, secondo me Ingeborg fuma e la trovo lì, sola, perché ha lasciato il suo ragazzo per me. Un pelato enorme mi fa segno di no con l’indice. Chiedo perché, mi dice che non posso uscire con il bicchiere. Lo bevo in fretta, è dolce e nauseante. Esco. Ingeborg non c’è, ma c’è una ragazza castana. Le vorrei dire che se fosse venuta al corso sulle tragedie del Cinquecento allora sarei stato in paradiso, ma temo che non capirebbe. L’alcol, a cui non sono abituato, mi dà coraggio e mi avvicino.
“Fumi?”, le chiedo io.
“Sì, non lo vedi?”, sembra divertita. “Come ti chiami?”
“Sono Paul. Tu?”
“Io non svelo il mio nome agli sconosciuti. Vuoi una sigaretta?”
“No, ce l’ho. Grazie”.
Mi accendo una sigaretta e le racconto del trasloco e degli esami dimenticati, lei ride. Le chiedo se vuole fare una passeggiata, mi dice che in genere non accetta inviti da sconosciuti, le dico che non è un invito, ma solo un giro, dice che ho un’aria innocua, non so se prenderlo come un complimento o un’offesa. Camminiamo tutta la notte, ci sediamo in piazza, fumiamo e mi svela il suo nome. Becca. Le chiedo: “Rebecca?” Risponde: “No, solo Becca”. E ride, ha una risata calda e piena che riempie la piazza ormai vuota. Mi chiede se può venire da me. Le dico che pensavo che non accettasse inviti da sconosciuti, mi risponde che questo è autoinvito e quindi non vale, le dico che non ho sedie, mi dice che non servono, ma credo che pensi che stia scherzando. Becca è bellissima. È bellissima anche al mattino, quando si sveglia e mi tira una gomitata e sveglia anche me. È bellissima quando mi guarda scioccata capendo che non scherzavo sulle sedie, apre il frigo e dice che ci sono solo pizza e vino. Le dico che sono uno studente. Mi dice che pizza e vino vanno benissimo per la colazione. Le dico che non ho un cavatappi, mi chiede se ho un coltello, penso che Becca sia meglio di Ingeborg. Con un gesto plateale spacca la bottiglia, è bellissima, una guerriera. Una guerriera nella mia cucina, le do il mio accappatoio, così impara Ingeborg a non rivolgermi la parola. Scaldiamo l’ultima pizza e beviamo prima il latte e poi il vino. Siamo innamorati e bellissimi. Entrambi. Con la pizza ancora in mano Becca fissa i libri che sono ammucchiati per terra, in camera da letto, ne sceglie uno e mi ordina: “Leggi!” Le chiedo: “A voce alta?” Mi risponde: “Sennò come faccio a sentire?” Vorrei tanto poter leggere tra me e me e che lei sentisse, ma ci vogliono tempo e pazienza. Il nostro amore è così nuovo e appena nato! Leggiamo per giorni interi, ordiniamo pizza e lasciamo la mancia al fattorino che ormai ci conosce. Prima o poi decidiamo di uscire e di fare lunghe passeggiate che, come dice Becca, ci liberano la mente. Le racconto di Ingeborg e Becca è gelosa. Fa grandi scenate e piange, dice che lei non è altro che un ripiego, le dico che non è vero e penso che aveva ragione mio padre quando mi diceva di non dire mai la verità alla donne. Poi, per distrarla, le racconto del signor Razzoli, le dico che è sui giornali e che ha ammesso di andare a letto con le galline. Ora Becca ride, non mi prende sul serio, ma almeno ha smesso di piangere. Becca studia filosofia e vive con due ragazzi in un appartamento minuscolo. Sono un po’ geloso, ma cerco di non farglielo capire perché sennò ricominceremmo a litigare e non voglio.
È primavera ed è appena cominciato il nuovo semestre. Seguo tante lezioni, molte facoltative, conosco gente e mi sento un vincente. Mi viene da ridere pensando al semestre scorso. Al corso introduttivo di letteratura comparata c’è anche Ingeborg che in realtà si chiama Laura. Sono molto deluso, ma accetto comunque quando mi chiede di accompagnarla a comprare il materiale per il nuovo semestre. Compra tantissime cose: blocchi, matite, evidenziatori colorati, post-it, un’agenda e penne, cartoncini e pennarelli. Io non compro nulla. Io risparmio: sono uno studente e non ho tanti soldi. Preferisco comprare tabacco e vino. Nel frattempo ho comprato anche un cavatappi, alla faccia dei vicini! E poi un blocco e una matita bastano, ho ancora quelli dell’anno scorso. Andiamo a bere un caffè e mi chiede perché non ho dato l’esame sulle tragedie del Cinquecento. Le dico che ero impegnato con la mia ragazza. Dice: “Ah, hai la ragazza?” Il suo tono è triste, forse deluso. Le dico che Becca non è più la mia ragazza, che le nostre strade hanno preso direzioni diverse. Mi chiede in che direzione vado e io, ne vado molto fiero, le dico: “Dove vuoi tu”. Ingeborg, che si chiama Laura, ride. Le chiedo se posso chiamarla Ingeborg. Mi chiede perché e le dico che assomiglia alla Bachmann, mi tira uno dei blocchi nuovi sulla testa, ride e mi dice che va bene. Prendiamo appuntamento per domani sera, andremo a teatro a vedere l’Edipo Re.
Arrivo un’ora prima e penso che sono uno stronzo a mentire a Becca e anche a Ingeborg, ma spero che nessuna delle due lo scopra. Ingeborg arriva in ritardo. La compagnia è una di quelle moderne che rivisitano i grandi classici modernizzandoli e Ingeborg è entusiasta. A me non piace per nulla, ma sorrido e faccio finta che piaccia anche a me. Poi andiamo a bere qualcosa, Ingeborg vuole offrirmi una birra, dicendo che se non posso comprarmi il materiale per l’università le sembra brutto che offra io, ma con un gesto da eroe le trattengo il braccio e pago io. Per una settimana comprerò pane invece che pasta. Ingeborg mi chiede perché sono venuto qui a studiare. Le spiego che è perché voglio conoscere il signor Razzoli, che è un mito per me. Ingeborg dice che suo padre lo conosceva, quando erano giovani, ma che poi si sono persi di vista. Vorrei chiederle se sa delle galline, ma mi trattengo. Ingeborg flirta con me. Socchiude gli occhi e gioca con i capelli. Alza le sopracciglia e sorride maliziosa.
Becca mi lascia quando legge di nascosto i miei messaggi con Ingeborg. Se ne va via e dimentica a casa mia il suo pigiama. Poi mi scrive che non vuole riaverlo e che me lo regala. Io la ringrazio, lei mi risponde: “Fanculo”. Invito Ingeborg a cena da me. Mi dice che se voglio posso andare io da lei. Ovviamente accetto. La sua coinquilina ha il passo felpato e gli occhi da gatta. Ingeborg è una forza della natura. Il nostro rapporto è molto maturo e non ci stiamo addosso. Ognuno ha i suoi spazi e stiamo bene. Ingeborg non vuole venire a casa mia, dice che la sua è più bella, ma non ha mai visto casa mia, se la immagina, dice lei. Andiamo a lezione insieme e formiamo un gruppo di studio, c’è anche un altro ragazzo che si chiama Mark e tre ragazze: Lucy, Angelica e Marianna. Mark è un signore e affascina le ragazze con il suo modo di fare, ma io non sono da meno. Presto diventiamo amici e ci scriviamo messaggi divertenti. Angelica è alta e magra, porta i capelli legati e si veste da uomo. Le piacciono le donne, dice, e mi dispiace perché è proprio bella. Marianna invece è simpatica. E basta. Ma è molto, molto simpatica. Sembra più grande della sua età. Ci vediamo ogni giorno e ormai non studiamo più, ma ridiamo e chiacchieriamo, usciamo, mangiamo insieme, offre sempre Ingeborg e dice che in realtà offre il papi. Le chiedo se ce lo presenta, in realtà voglio conoscere il signor Razzoli e chiedergli tante cose, soprattutto delle galline, ma anche della poesia e del suo odio per Verga, del suo amore per Handke… Ma Ingeborg ha già capito e dice che non me lo presenta. Peccato. Ma io non mi arrendo. Conoscerò il signor Razzoli. Ogni tanto gli mando qualche cartolina che disegno io, con qualche poesia e a volte lo chiamo, vado sotto casa sua e aspetto che esca, ma niente. Lui non esce, forse ordina la pizza e forse dovrei lavorare come fattorino, forse prenderei le mance e forse gli potrei chiedere tutto. Da quest’anno lavoro come fattorino. Guadagno poco e scopro che la gente è tirchia e non lascia quasi mai la mancia. Il signor Razzoli non ordina la pizza. Ma intanto ho un lavoro e mi sento molto adulto. Mia madre è più tranquilla perché ho la ragazza, non sa che Ingeborg ha altri ragazzi oltre a me. Ma io non le dico niente, si preoccuperebbe. Mia madre dice che vuole venirmi a trovare. Io non voglio perché non ho ancora svuotato gli scatoloni, non ho ancora passato l’aspirapolvere, non ho mai fatto la lavatrice e soprattutto non ho ancora comprato due sedie. Però ho un cavatappi e una ragazza che ha altri ragazzi e un tappeto bellissimo e tra due giorni iniziano gli esami e questa volta li devo dare. Mia madre dice che verrà a trovarmi dopo gli esami, dico che va bene.
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In copertina: Maurits Cornelis Escher, Gallina con uovo, 1916, incisione su linoleum.