Io sono quello che sono. Sono Enrico Truman.
E sono scopato, penetrato da questa Crisi scomunicata. Come un nero musulmano che stupra una nera cristiana.
Nella crisi rotolo come pietra nella frana. Scivolo e uccido nella Crisi come il gas di notte nelle gole dei poveri cristi senzaddio.
Sottomesso, mi muovo nella Crisi esplodendo e dilaniando il mio piccolo corpo di bambino in un supermercato.
Mi muovo nella Crisi come un quindicenne sparatore professionista già morto ammazzato.
Risolvo la Crisi come un tagliatore di teste in un’azienda marcita o in un deserto di milizie impazzite.
Mi muovo nella Crisi odiando le spie che vogliono distruggere il mio piccolo regno appena nato e ancora senza confini. Alle quali sparo un colpo. E un altro colpo. In testa. E poi sorrido. A favore di camera. Dal basso dei miei dodici anni.
Avanzo nella Crisi come un assassino coleottero parassita, punteruolo rosso del cazzo, dentro le palme, mentre le divora, le dissecca, le scarnifica, e le uccide.
Mi muovo nella Crisi cantando a gola nera la canzone di quello lì morto, non morto, il Re Lucertola, quello delle Porte, visto a Parigi, a Tangeri, a New Orleans: “C’è pericolo ai limiti della città/cavalca l’autostrada del Re/scene assurde nelle miniere d’oro/cavalca l’autostrada verso ovest/cavalca il serpente/ cavalca il serpente…”
Aggredisco la crisi, come aggredisco la malattia. Ho un diabete scompensato e non lo sapevo. Che mi sta devastando il corpo. Ma sono già guarito. Nella testa.
Sono… non so più cosa sono… cristo.
Dopo dieci anni, sono tornato a guadagnare come cinque anni fa. Sono un frontaliere che lavora scrivendo in un giornale di questo Piccolo Stato, depuratore del “nero” dello Stivale, e adesso m’hanno tolto quattrocento euro al mese dalla busta paga. La supertassa razzista, prelievo di sangue a seimila italiani. A quelli del posto, no.
Aggredisco la crisi perché in un mese e mezzo ho imparato ad aggredire la malattia, anzi le due malattie che possono farmi morire.
Guardo l’Italia del calcio giocare, guardo Cassano e Balotelli, i due appestati che vivono nella crisi da quando sono nati, guardo De Rossi, quello con l’ex moglie figlia di un pregiudicato morto ammazzato. Siamo italiani, figli delle nostre crisi e nella crisi ci siamo sempre stati da quando quella nostra madre dura come una mazza di ferro sui menischi c’ha messo al mondo.
Sono improvvisamente duro, lucido, forte, aggressivo. Sono un uomo, finalmente. Veloce. Che risolve i problemi uno alla volta. Un problema, una soluzione. Un problema, una soluzione. Ma sto perdendo per strada la mia moglie amatissima, perché sono duro, lucido, forte, aggressivo. Non mi riconosce più.
Ha davanti a sé un’altra persona, uno sconosciuto. Ho nella testa incorporato un faro da diecimila watt, vedo le cose da fare diecimila nanosecondi prima di lei. Non mi segue, non riesce a starmi dietro. Mi avvolge in una spirale di decine di problemi inutili che io ho già risolto diecimila nanosecondi prima che lei mi chieda ancora una volta: “Perché?” E io m’incazzo.
Mi rallenta, mi fa perdere tempo. Ci penso io, amore, non ti preoccupare. Ma è ancora peggio, sto perdendo la mia moglie amatissima perché è travolta, soffocata.
Sono ipercinetico, sono senza fine, ho un’energia spaventosa, la malattia mi esalta, mi corrobora, metto in rete, nella mia Rete, tutto quello che ho accumulato. Sono un’idea, sono una notizia, con decine di correlati che arricchiscono, integrano, implementano. Sono travolto da quest’attività cerebrale. Troppe idee, una sull’altra, una sotto l’altra, una davanti all’altra, una dietro l’altra. Sono circondato dalla mia Rete, rischio una Guantanamo, il 41 bis, il carcere duro delle idee e delle illusioni.
Sto perdendo la mia amatissima moglie, ma non posso rinunciare alla prigione aperta del cervello che mi fa volare, volare, volare. Sono felice, diobboia. E se mia moglie mi lascia c’è poco da fare. Preferisco vivere così, vivere scompensato e diabetico, epatico da morire, a metà tra la cirrosi e la sopravvivenza, in bilico sul bordo della vita. Perché questa è la vita di un uomo in un mondo di bambini nati ricchi. Vecchi bambini, vecchi grassi bambini di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta, ottanta, novant’anni. Cento. Anni.
Una piaga rossa nell’inguine che andava e veniva. Una candidosi, una balanite sulla cappella del mio uccello sfogliata e piena di puntini rossi, che andava e veniva, da mesi. E mia moglie che mi accusava ogni giorno di più. Dove l’hai presa, perché non va via, perché non ti curi. Eppure io mi curavo, pomate, antibiotici, niente. Andava e veniva.
E ancora. Una bocca agra, arsa, bere litri di acqua e pisciare un minuto dopo. E la bocca sempre arsa, le labbra di colla che non riescono a staccarsi. Non riuscire quasi a parlare. Bere e pisciare, bere e pisciarti addosso, perché non sei arrivato in tempo in un cesso qualsiasi. Mani e gambe, pieni di punture, di mille spilli, grattarti e ancora grattarti. Anche di notte quando mi sdraio nel letto accanto alla mia moglie amatissima che s’incazza perché faccio volare la coperta con uno scatto rabbioso. Esasperata, sfinita.
E svegliarsi la mattina con le gambe che ti fanno male da sotto il ginocchio sino ai piedi. Calo del desiderio, e ancora, grazie a Dio, non del tutto dell’erezione. E mia moglie che mi domanda perché, perché, perché non mi vuoi più. La mia bellissima moglie, la donna della mia vita, quella che ho incontrato a una fermata dell’autobus e si è innamorata di me così: ho rischiato di perdere la corsa per andare a comprare il giornale. È strano questo tipo, è interessante questo italiano, si è detta, la mia amatissima moglie che dopo un anno ho sposato e non ho mai tradito. Per la prima volta in vita mia non ho tradito una donna. Il matrimonio me l’ha impedito. Una regola semplice, antica come il mondo, che su di me ha avuto un fortissimo potere ancestrale. Sono un italiano antico e modernissimo, sono un italiano al tempo della Crisi, che la Crisi la conosce da quando è nato dalla pancia di una madre veneta, dura come l’altipiano del Cansiglio dal quale era arrivata negli anni ‛30 per venire a partorirmi nelle bonificate paludi pontine in un caldissimo luglio come questo alla Clinica Santa Maria Goretti. Primo maschio. Gli altri due fratelli, a casa con l’ostetrica.
Sono dimagrito quattordici chili in due mesi, il diabete divora il corpo mio. E il padre mio è morto dalla bocca cagando. Era stato nello stesso reparto per sette anni e nemmeno con una tac hanno visto che il malaccio lo aveva mangiato dentro, tutto. Occluso, dalla bocca cagando è morto. E io non mi sono mai più fidato dei medici. Anche perché sono stato tre anni con un chirurgo donna e ho saputo l’ira di dio che c’era dentro in uno ospedale.
Era occluso tuo padre, ha detto anche il primario di epatologia che dopo la visita mi aveva fatto dare il prossimo appuntamento per il 30 novembre, sei mesi dopo il primo. All’infermiera avevo detto: “Mi faccia chiamare entro domani, altrimenti lo denuncio alle autorità sanitarie competenti, alla polizia, ai carabinieri, alla finanza, al tribunale del malato”. Dopo dieci minuti m’ha chiamato.
“Lei alza sempre la voce con i miei collaboratori”.
“Io non alzo la voce, io impongo il contesto altrimenti non si capisce perché la voglio denunciare”, ho risposto.
Sono ossessionato dal contesto e dalla discrezione sulle mie malattie. Sono io che devo decidere quando e con chi parlarne. Non il mio migliore amico che in buona fede fa danni devastanti a me e alla mia famiglia. La buona fede, un’altra giustificazione mortifera, un tanto al chilo, della crisi.
Ho registrato la telefonata del primario di epatologia. L’ho messo in viva voce. Al culmine della discussione mi ha sbattuto il telefono in faccia. Ho richiamato l’infermiera e gli ho detto che avevo registrato la telefonata e l’avrei allegata agli atti della denuncia. Dopo mezz’ora hanno ritelefonato, mi hanno dato appuntamento per il giorno dopo. Troppo comodo, Sant’Antonio. Troppo comodo e troppo facile.
A mio zio gli hanno tagliato la gamba per il diabete.
Anna, l’amica mia, è un anno che va avanti con un piede che rischia di perdere, è curata nel mio stesso centro. A me hai detto, primario del cazzo, dopo aver visto l’ecografia dell’addome, che avevo anche un calcolo di cinque cm nella cistifellea e che alla prossima colica, la cistifellea, me la dovevo togliere tutta. E anche un calcolo, quasi uguale, nei reni, hai trovato.
Arrivo per un’epatite assassina esplosa insieme al diabete all’improvviso e con la quale avevo convissuto tranquillamente per quindici anni, e mi ritrovo anche senza cistifellea. Sono una miniera. Di malattie. Ma sono anche una miniera di documentazione che non si trova più, cristodiddio. Ecografie all’addome, una settimana in ospedale per una colica renale, una biopsia, una cosina che costa centinaia e centinaia di euro, il genotipo, niente, è tutto introvabile. Il primario si è attaccato al telefono per un’ora nel primo appuntamento, non è riuscito nemmeno lui a trovare qualcosa negli archivi dell’ospedale. Eppure era l’unico reparto informatizzato dell’ospedale. Ma hanno digitalizzato solo gli ultimi cinque anni del cartaceo. Il resto è malattia perduta in tonnellate e tonnellate di carte .
Ho fatto domande semplici al primario e volevo risposte semplici. O si, o no. Non rispondeva, traccheggiava, sminuiva, sfuggiva.
In reparto, un paio di settimane prima, la caposala alla mia domanda se potevo prendere le pasticche per il diabete durante il digiuno per le analisi aveva risposto di no. Un’infermiera, cinque minuti dopo, mentre mi stringeva il laccio emostatico aveva risposto di sì. Ti fanno impazzire queste cose. Domande semplici risposte diverse.
“Non mi terrorizzi le mie giovani dottoresse, Truman”, aveva detto il primario. Solo perché con la giovane radiologa il giorno prima avevo verificato che tutta la mia biografia di malato era stata letteralmente perduta. Non c’era più niente. E il primario diceva che le terrorizzavo.
Dov’è l’ultima ecografia addominale, dottoressa? Ero sicuro di averne fatta una durante i famosi cinque anni digitalizzati. Niente, sparita.
Al Primario, mentre registravo avevo fatto una domanda semplice. Dottore, me lo devo cercare io, da solo, quello che nemmeno lei riesce a trovare? Sì o no, dottore? Non aveva risposto.
Io non terrorizzo nessuno, io chiedo e voglio risposte certe, sicure. Non mi devono dire cazzate sulle mie due malattie, diobboia.
“Allora, dottore, veramente rischio di morire tra un paio d’anni?”. Il dottore non ha risposto. Lungo silenzio, poi ha detto: “Però… se fa questo, questo, e quest’altro, allora, forse…”
E via col diabete scompensato e l’epatite che silenziosissima ti mangia il fegato e nemmeno te ne accorgi.
“Prima dobbiamo risolvere il diabete, poi possiamo attaccare l’epatite”. Il farmaco per la prima malattia, il diabete, distrugge quello che il farmaco per la seconda malattia, l’epatite, ricrea. Scompensato anche nella cura.
L’interferone, quello che dovrebbe uccidere l’epatite, ha una possibilità di successo del cinquanta per cento. E poi ti porta le febbri e tanta depressione. Per sei mesi, un anno, un anno e mezzo. Non si sa, ogni corpo ha i suoi tempi. E allora io devo restare malato, devo vivere nella perenne crisi della malattia, non me lo posso permettere un anno e mezzo di interferone. È uscito un nuovo farmaco, ma il trattamento costa 60, 70.000 euro.
Hai capito, Truman, dunque devi restare malato. Devi stare dentro la Crisi, devi vivere la Crisi, piattaforma moltiplicatrice di opportunità per il nuovo mondo come dicono gli ottimisti e gli ottimati, diobboia.