È noto che George Lucas per Star Wars si sia ispirato a L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, e tuttavia poteva anche non farlo allo stesso modo in cui chi scrive favole non ha bisogno di conoscere Morfologia della fiaba di Vladimir Propp. Le teorie sono infatti sempre postume, anche rispetto alle opere che le seguono.
Ciò che ci interessa è che questa prima opera di Campbell, uno dei più famosi studi di mitologia comparata, sia diventato anche uno strumento di interpretazione e di creazione di narrazioni e questo in virtù dell’oggetto di cui tratta: l’archetipo dell’eroe, attraverso il confronto di miti e religioni.
Le definizioni
È saggio e giusto, sempre, iniziare dalle definizioni. Due concetti chiave qui trattati sono il mito e l’archetipo, concetti che ineriscono i campi dell’antropologia, della religione e della psicanalisi.
Per una definizione di “mito” rimandiamo alle parole di Mircea Eliade per il quale esso è “Modello esemplare”:
Il mito narra una storia sacra, cioè un evento primordiale che ha avuto luogo in principio, ab initio. Raccontare una storia sacra significa rivelare un mistero, poiché i personaggi dei miti non sono esseri umani: sono dèi, oppure Eroi civilizzatori, ragione per cui le loro gesta costituiscono dei misteri: l’uomo non poteva conoscerli se non gli fossero state rivelate. […] “Dire” un mito significa proclamare ciò che è accaduto ab origine. Una volta “detto”, cioè rivelato, il mito diventa verità apodittica: stabilisce la verità assoluta. […] Il mito annuncia la comparsa di una nuova “situazione” cosmica o di un evento primordiale. Pertanto è sempre la rappresentazione di una “creazione”: vi si racconta come è stato fatto qualcosa, e in che modo questo qualcosa ha cominciato ad essere.
[Il sacro e il profano, 1965, traduzione di Edoardo Fadini, Boringhieri, 1981, p. 63.]
Per quanto riguarda l’“archetipo”, lo psicanalista Carl Gustav Jung, nella sua ultima opera L’uomo e i suoi simboli – raccolta di saggi cui partecipano anche i suoi collaboratori –, si esprime in questi termini:
L’archetipo è invece la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo modello fondamentale. Esistono, per esempio, molte rappresentazioni del motivo dei fratelli nemici, ma il motivo rimane sempre lo stesso.
[Introduzione all’inconscio, in Carl Gustav Jung e Marie-Louise von Franz, Joseph L. Henderson, Jolande Jacobi, Aniela Jaffé, coordinato da John Freeman, L’uomo e i suoi simboli, 1964, traduzione di Roberto Tettucci, TEA, 1998, p. 52.]
L’interpretazione di questo concetto è stata spesso equivocata – non è esente dall’errore, pare, nemmeno Campbell: l’archetipo è una facoltà, e non la rappresentazione. Il sociologo canadese Marshall McLuhan lo fa notare quando si sofferma nella sua ricezione e nel suo utilizzo nella critica letteraria:
La critica letteraria in genere si è limitata ad usare la parola «archetipo» considerandola più o meno all’insegna della psicanalisi. La critica più recente invece la usa come simbolo primordiale oppure, come nel caso Yeats, come simbolo ancestrale. Jung e i suoi discepoli sono stati attenti nell’insistere che l’archetipo è da distinguersi dalla sua espressione. L’archetipo junghiano è, in senso stretto, una facoltà e potere della psiche.
[Dal cliché all’archetipo. L’uomo tecnologico nel villaggio globale, 1970, traduzione di Francesca Gorjup Valente e Carla Plevano Pezzini, Sugarco, 1994, p. 33.]
E tuttavia McLuhan trova una giustificazione all’equivoco nel fatto che proprio Jung nei suoi scritti usa il termine “con significati intercambiabili” e induce a confondere l’archetipo con il simbolo primordiale. Lo stesso antropologo e sociologo Gilbert Durand, in un classico dell’archetipologia quale è Le strutture antropologiche dell’immaginario (1963; traduzione di Ettore Catalano, Edizioni Dedalo, 2009), afferma che “gli archetipi costituiscono le sostantificazioni degli schemi” (p. 61) e ricorda come Jung insista “sul carattere collettivo e innato delle immagini primordiali” (p. 62).
I miti e l’uomo
Campbell dimostra che l’avventura dell’eroe è strutturabile in costanti universali e cioè nel “monomito” (ovvero lo schema) riassumibile in tre fasi: partenza (appello all’eroe, suo iniziale rifiuto, aiuto soprannaturale, ecc.), iniziazione (prove da affrontare, incontro con la dea e con la donna, riconciliazione con il padre, ecc.), ritorno (rifiuto di tornare, fuga, aiuto dall’esterno, ecc.).
L’eroe non è solo da intendersi come il salvatore della comunità (scrive Wu Ming 4 a tal proposito: “La figura eroica è precisamente questo: un personaggio in grado di identificarsi con l’intera comunità, di filtrare l’intero flusso degli eventi attraverso se stesso”, L’eroe imperfetto, Bompiani, 2010, p. 26). Campbell afferma, in virtù dell’adesione alla psicanalisi junghiana, che il monomito riguarda anche noi, questo perché da sempre i miti (e i riti) forniscono i “simboli che aiutano il progresso dello spirito umano” (L’eroe dai mille volti, 1949, nella terza edizione del 2008, traduzione di Franca Piazza, Lindau, 2016, p. 20), sicché l’avventura dell’eroe corrisponde all’avventura della nostra psiche:
L’eroe, perciò, è colui o colei che ha saputo superare le proprie limitazioni personali e ambientali e raggiungere le forme universalmente valide. Queste immagini, idee e ispirazioni scaturiscono dalle principali sorgenti della vita e del pensiero umano. Esse perciò sono gli emblemi non della psiche e della società attuale in disintegrazione, ma della sorgente inestinguibile che rigenera la società.
[p. 30.]
Wu Ming 4 esprime con chiarezza il legame esistenziale tra i miti e l’uomo senza ricorrere alla psicanalisi, e propone una soluzione in termini semiotici e di “discorso” (in senso foucaultiano) alle narrazioni mitiche trattate spesso, nella Storia, come esempi, quasi come “storie morali” che il lettore/ascoltatore deve tener sempre a mente in quel viaggio che pure è la vita (non a caso i miti sono spesso legati ai riti di iniziazione, confermando di svolgere una funzione “sociale”):
Che ci piaccia o no, i miti persistono, fuori e dentro di noi, perché è solo attraverso le narrazioni che l’umanità racconta se stessa e prende coscienza della propria esperienza storica.
Quello che allora ci serve è imparare a mettere in crisi i miti con altri miti, a intervenire nella trama, rompendone l’apparente coerenza, provocando cortocircuiti di senso. Bisogna ricomporre i miti affinché il nostro fare vada a buon fine: scoprire una via alternativa da Camelot a Damasco, e da Damasco a qualunque altro luogo.
[L’eroe imperfetto, cit., p. 47.]
Da Campbell a Vogler: il monomito come modello delle storie
Lo sceneggiatore e story analist statunitense Christopher Vogler, ne Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema (1992), ha applicato l’opera di Campbell alla scrittura. Il suo presupposto è che molte storie, siano esse cinematografiche o letterarie, possono essere analizzate ricorrendo al monomito:
Saremo guidati da una semplice teoria: che tutti i racconti sono costituiti da alcuni elementi strutturali comuni, che si trovano universalmente nel mito, nelle fiabe, nei sogni e nel film. Nel loro insieme essi sono conosciuti come “il viaggio dell’eroe”.
[Traduzione di Jusi Loreti, Dino Audino, 2005, p. 6.]
Come il mito, anche il racconto ha un rapporto con la psicanalisi in quanto offre elementi interpretabili per comprendere l’uomo:
Che cos’è il mito? […] il mito non è finzione, ma un modo per raggiungere una verità più profonda. Che cos’è un racconto dunque? Anche il racconto è metafora, l’esemplificazione di qualche comportamento umano. È un modo di riflettere con il quale verifichiamo le nostre teorie e i nostri sentimenti riguardo alle qualità umane per cercare di imparare.
[p. 5.]
Ciò che rende facilmente criticabile il lavoro di Vogler è l’utilizzo del monomito come schema cui riferirsi anche “per creare” storie. Vogler fu accusato di avere influenzato gli sceneggiatori di Hollywood nei tempi in cui una sua versione sintetica e abbozzata della Guida circolava sottobanco. È vero che lo sceneggiatore, cosciente della giustezza di una tale critica, mette in guardia lo scrittore affermando che “il modello del viaggio dell’eroe è un orientamento, non è una ricetta di libro di cucina o una formula matematica da applicarsi in modo rigido a ogni storia” (p. 160). Eppure a parole tanto chiare e ragionevoli si contrappone, in questo manuale di scrittura, il suo approccio alle storie che analizza/commenta: Vogler trova dei limiti in certe sceneggiature perché non aderiscono perfettamente al monomito, perché non approfondiscono alcuni punti dello schema, dimostrando che, nei fatti, la sua visione del modello è tutt’altro che orientativa, è rigida.
Joseph Campbell
L’eroe dai mille volti (1949; 2008)
Traduzione di Franca Piazza
Torino, Lindau, 2016 (I edizione, 2012)
pp. 528
Chris Vogler
Il viaggio dell’eroe (1992)
Traduzione di Jusi Loreti
Roma, Dino Audino, 2005 (I edizione, 1999)
pp. 175