Jorge Carrión, Librerie, 2015, Garzanti, traduzione di Paolo Lucca
Il metaviaggiatore
Nei miei due anni a Barcellona, in cui ha preso forma il passaggio dalla scrittura come necessità alla scrittura come progetto professionale necessario, ho conosciuto vari aspetti di Jorge Carrión: il professore universitario, il performer, lo scrittore di finzioni e di saggi, il giocatore di pallacanestro. Leggendo Librerie, appena uscito per i tipi di Garzanti, mi accorgo che un aspetto fondamentale mi è sfuggito: il viaggiatore.
“Quale fu la prima cosa che feci una volta atterrato a Johannesburg? Ovviamente, chiedere quale fosse la migliore libreria della città.”
Lo spettro geografico di Librerie è il mondo intero, i suoi i luoghi fisici – le librerie visitate, esperite e manipolate dal viaggiatore Carrión – spaziano dall’Europa all’America Latina, dalla costa sud del Mediterraneo al Giappone, il Canada, gli Stati Uniti, l’Australia. Eppure Librerie è più di una cronaca di viaggio – l’ethos del viaggio, di fatto, informa la scrittura di Carrión in modo intimo e molteplice. Egli stesso scrive in un post facebook:
“Quale sarebbe la differenza tra saggio e romanzo? Il saggio (el ensayo) si scrive (se ensaya, in spagnolo verbo e genere letterario hanno la stessa radice) narrando, ovvero le idee preesistono alla narrazione e si sviluppano, si esplorano e comunicano grazie a essa. Nel romanzo, invece, si narra provando (ensayando), le idee vengono attraverso i personaggi e gli eventi della finzione – non sono solo idee contradditorie, grazie ad esempio alla polifonia, ma sono anche, attraverso il metodo per prova ed errore, parte di un testo che è al tempo stesso un altro tipo di saggio, un saggio scientifico o teatrale. Questa, credo, sarebbe la differenza tra i miei saggi Teleshakespeare e Librerie, e i miei romanzi I morti, Gli orfani e I turisti (gli ultimi due inediti in Italia).”
E in un commento allo stesso post:
“Poiché i miei saggi tendono alla cronaca, e i miei romanzi incorporano la cronaca e il saggio.”
Se finzione, scrittura saggistica e cronaca si fondono insieme, Librerie si colloca in una dimensione di limbo, di contatto e risonanza tra forme e generi diversi, transgender – una dimensione che mi ha ricordato, in parte, il Ricardo Piglia de L’ultimo lettore, il quale a sua volta declina e attualizza il metodo borgesiano, quel modo specifico di mettere a reagire le categorie di finzione e realtà in un unico calderone. Non a caso Carrión dice di se stesso, nel libro, metaviaggiatore.
Da Borges, infatti, si parte con Librerie – o meglio, da un racconto di Stefan Zweig, “Mendel dei Libri”, da cui si passa, per necessità e affinità elettiva, a “Funes, o della memoria”.
Memoria viva: il primo tema che attraversa il libro è quello dello statuto della libreria nella modernità, la sua funzione culturale e civile e dunque politica. La libreria come motore d’innovazione e resistenza, come moltiplicatore di libertà d’opinione e differenza. La sua fragilità politica rispetto alla biblioteca, la cui natura istituzionale fa di essa un luogo statico e conservatore, all’ombra del potere – la libreria al contrario è fragile, dinamica e instabile, trasmette tendenze e saperi devianti, come un virus.
La libreria, inoltre, come vettore economico – portatrice sana di quel principio proprio della borghesia moderna: la libertà, per prima cosa, come libero agire economico. La libreria come fattore di emancipazione culturale ed economica.
La fine di un mondo
C’è inoltre un aria benjaminiana in Librerie: è il vagare del metaviaggiatore Carrión tra le librerie del mondo intero, la sua continua ricerca di esperienza, di contatto fisico, sensuale, con gli oggetti (i libri) e gli spazi che li contengono. Proprio questo contatto, insieme alle storie che vengono fuori per sfregamento (quelle mitiche della City Lights di San Francisco o della Shakespeare and Company di Parigi, della cricca internazionale di Tangeri intorno alla Librairie des colonnes; e quelle private: le iniziazioni, gli scandali e gli entusiasmi del ragazzino che mette piede nel regno dei libri) – riesce a tenere uniti i luoghi e le storie più disparate ed eterogenee e renderle, se non proprio omogenee, armoniosamente disposte insieme.
E c’è uno iato: cosa accade alla libreria (e anche, ovviamente, al libro) nell’era digitale?
Prima ancora di affrontare la questione del libro elettronico, Carrión analizza il cambio paradigmatico che investe la libreria come luogo. Se il fattore economico non è mai perso di vista nello svolgimento del saggio, è in questo punto che esso prende la scena: attraverso gli esempi della Boekhandel Selexyz Dominicanen di Maastricht, della Central del Raval a Barcellona o di Callao a Madrid, Carrión analizza il modo in cui la libreria affronta il cambio di paradigma tecnologico che investe l’abitare umano in ogni suo aspetto. Se è l’immagine la chiave di volta della società tecnologica, il suo proliferare globale a velocità e ritmi ignoti in precedenza, la libreria si adatta e muta. L’architettura dello spazio, il design degli interni, sono più importanti dei libri – così come i margini di profitto sulle vendite di bevande e cibo nei bar e ristoranti integrati alle librerie, o dei gadget (feticci pop: le foto d’autore, le repliche di oggetti d’autore) che decorano abitando lo spazio, sono più alti rispetto ai margini di profitto sui libri. La libreria assume le sembianze di un museo – meglio ancora, del musem shop all’entrata del museo. Allo stesso modo, cambia anche l’abito del visitatore della libreria: non più il lettore richiamato dai titoli a disposizione, ma il turista culturale attratto dall’aura glamour (anche questa benjaminiana) del luogo.
Se per un momento pare profilarsi un giudizio puramente negativo sulla società ipertecnologica, questa impressione è smentita con decisione quando Carrión affronta la questione del libro elettronico.
L’autore di Librerie prende la questione alla larga – e fa bene. Ricorda per prima cosa le discussioni tardoantiche intorno al supporto in pergamena (siamo nel III secolo d.c.): per la sua rudezza, la pergamena non riusciva, all’inizio, ad assurgere al titolo di “libro”, onore riservato unicamente al papiro, nonostante quest’ultimo fosse più facilmente danneggiabile, nonché più caro.
Carrión riprende inoltre gli argomenti di Roger Chartier (Inscrivere e cancellare. Cultura scritta e letteratura): nel passaggio alla tecnologia della stampa, si verifica un cambio nell’abito del lettore, da una pratica di lettura intensiva (dove si legge e rilegge, commenta e annota gli stessi libri: una lettura a carattere sacro-religioso) a una estensiva, in cui il lettore divora a ritmi più serrati una quantità di libri più ampia. Questo cambio si accompagna alla crescita e all’emergenza della critica, della libera interpretazione e la distanza ironica dai testi, alla loro profanazione.
A differenza di Calasso (o di Eco nelle sue ultime uscite), Carrión vede nella rivoluzione tecnologica digitale non un’illusione di superamento, una falsa coscienza e un passo indietro rispetto alla tecnologia e al mondo della stampa, ma una spinta in avanti nella stessa direzione: se è vero che l’oggetto digitale si accompagna alla distrazione e al multitasking estremo, alla supremazia della superficie sulla profondità, è anche vero, per lo stesso motivo, che a venirne fuori potenziato è proprio lo sguardo ironico, dissacrante e agile, capace di muoversi da un ambito all’altro con leggerezza: “il trionfo politico dell’ironia sul sacro”.
In questo quadro, se la libreria così come l’abbiamo conosciuta nell’era della stampa assume sempre più le vestigia dell’oblio – un fascino museale come la Villa dei Papiri a Ercolano – l’orizzonte del libro davanti a noi è quanto mai aperto e dinamico. Come scrive Carrión in chiusa di Librerie, le prospettive di uso (lettura e fruizione) di un testo digitale, la possibilità di alterarlo, tradurlo, personalizzarlo fino a limiti che oggi riusciamo appena a immaginare, vanno nella stessa direzione di quell’umanesimo il quale, fondandosi sulla disciplina filologica, riuscì a mettere in questione e poi abbattere l’autorità (non auctoritas sed veritas facit legem).
Ecco: nuovo umanesimo digitale, con la sua aria lievemente ossimorica, suona decisamente meglio che le grida di fine del mondo, fine della cultura, fine di fine che si sentono ripetere in giro come un mantra inerziale.