Andrea Berselli.
Quando ho smesso di giocare ho provato a fare l’allenatore, ma ho accumulato tre retrocessioni dalla B alla C, e dopo non mi ha voluto più nessuno. La tv me la sono giocata quando ho litigato con la D’Amico, per averle dato della poco di buono, sì, proprio così, della «bagascia, perché tu sei come tutte altre», e perché ero incazzato a morte per aver perso tutto su un cavallo che Semola mi aveva dato per sicuro, si chiamava Telefunken, come i televisori, poi ho bevuto due bottiglie di Bacardi Reserva e sono andato in diretta Sky, e appunto ho battibeccato con Ilaria che mi ha ricordato di quando ho fatto quel fallo nella finale di Coppa dei Campioni – era l’ultima edizione in cui la coppa più importante del continente avrebbe portato quel nome – nel 1992, ma dico io, ora peso centodieci chili, cosa vuoi che debba importarmi di un dannatissimo fallo quando ho speso centomila euro sull’unghia per questo cavallo del cazzo che ha pure perso, Ilaria. Insomma non è difficile immaginare cosa succede quando auna donna uno dice quello che io ho detto ad Ilaria: di tutte le volte che nella mia vita ho affibbiato a una donna questo titolo, alcune davvero a ragione, e in ogni caso ho ottenuto sempre gli effetti più nefasti, anche se era vero, persino peggiori di quando semplicemente le trattavo una schifezza, oppure persino di quella volta in cui infilai delle patate nel tubo di scappamento della macchina di Gabriella, la mia prima fidanzata.
E quindi ora mi cercano tutti questi giornalisti fetentissimi che vogliono l’intervista dal grande campione Berselli, la parabola dello sciupafemmine sciupasoldi alcolizzato senza la patina talentuosa di Best, un cliché di sfiga da media borghesia calcistica, io regista basso di centrocampo, senza ovviamente il cazzo di Gullit, ma i soldi e le macchine naturalmente hanno compensato ciò che al mio membro mancava in centimetri. Perché insomma parlare di me, mi chiedo, quando tutti gli ex calciatori ormai dicono le stesse cose, Almeyda che beveva come un dannato e Petit con la droga, ecco, perché volete sentir parlare me che ho sempre avuto paura della coca di Maradona?, io vengo pur sempre da Boscoreale, per me la coca era una cosa che il nonno mi diceva avevano portato gli americani, quei farabutti.
Ora però questo attico a piazza Castello non so chi possa continuare a pagarlo, e la Porsche dovrò venderla, magari se riesco a smettere di giocare e cancello un paio di numeri posso rimettermi in riga, e forse allo scopo sarebbe necessario che io mi accasassi, nonostante i centodieci chili di cui sopra ormai prossimi ai centoquindici; se potessi, invece, ripescare dalla rubrica i numeri giusti, qualche ex fidanzata, non una di quelle che è stata con me per gli amici famosi e, indovinate un po’, i soldi, o una di quelle che mi ha spezzato il cuore non ricambiando mai veramente il mio amore, ma una di quelle due o tre che mi sono state davvero devote, come si può concedere la prossimità soltanto a chi riesce a trovare nei propri sentimenti le stimmate della venerazione. Ne sarà rimasta qualcuna a volerle contare fra le carte del commercialista, no?
Fondamentalmente sono stato un uomo solo, per questo ho sperperato i miei soldi, perché nessuno si contornasse a me sperando che io elargissi fortune; cioè usavo i soldi per farmi avvicinare dalle persone, ma solo per poterli gettare via dalla finestra e vedere chi mi sarebbe rimasto accanto. La risposta è nessuno. D’altronde anche fare beneficenza è volgare, la carità è offensiva, questo ritengo, e poi il brivido della sfida, quel vuoto in cui mi aveva lasciato il ritiro, perché niente può compensare quelle botte di adrenalina delle coppe, e Marassi me lo ricordo, Boskov con quelle frasi assurde: «amore è quella cosa che serve di chiavare meglio», ci diceva. Una volta Galeazzi col suo impermeabile venne negli spogliatoi, molto prima di quella finale, e mi disse che avrei dovuto tagliarmi i baffi, e io ancora oggi non me li sono tagliati, solo che allora costeggiavano le labbra di un uomo prestante, mentre adesso sono le propaggini di un’impudica lardosità che tracima persino dalla linea in verità abbastanza sottile della mia bocca. Devo mettermi a dieta, altrimenti scoppierò.
Mi chiama l’avvocato, in realtà un amico di vecchia data, Andrea Paventi, di Gricignano. Sono le tre di notte.
«Sei sveglio?», mi fa.
«Non dormo mai, lo sai».
«È l’alcol, Berse’, è l’alcol, tieni troppo zucchero nel sangue. Quann’ a fernemm sarà sempre troppo tardi».
«Paventi, fatti i cazzi tuoi».
«Come me li faccio i cazzi miei, visto che qua io curo i tuoi interessi. Senti, piuttosto ti volevo dire che quella cessa della tua ex moglie ancora va trovando la casa di Punta Licosa, il suo avvocato ha presentato istanza di revisione della sentenza al tribunale europeo, e non so se lo sai, ma in Europa sono più attenti a chi è già denunciato per lesioni».
«Andre’, lo sai pure tu che non le ho mai messo le mani addosso».
«Sì ma quando le sei corso dietro a Roma Termini perché avevi scoperto che sì, tu l’hai tradita è così via, ma lei aveva una relazione parallela con Coppola, il tuo agente, allora ecco il tuo inseguimento è ritenuto dolo sufficiente a conclamare la sussistenza del reato, perché lei è caduta e si è sfracellata il naso, non so se mi spiego».
«Ti spieghi, ti spieghi, ma quale capocchia di giudice può pensare che io e il mio abbondante quintale distribuiti su un metro e ottanta di altezza possiamo costituire una seria minaccia in termini di prestazione atletica rispetto ad una donna che pesa sì e no trenta chili?»
«Berse’, l’evidenza è la nostra prova, l’accusa non è stata obiettata. Comunque, se vuoi tenerti Punta Licosa, per via del valore affettivo ecc., le offriamo una liquidazione e mettiamo tutto a posto».
«E da dove li prendiamo i soldi, ne Andre’?»
«Stammi a sentire, noi vendiamo la Porsche e vendiamo pure un paio di coppe e magliette che hai all’asta, magari scrivi un’autobiografia. Faccio fare tutto a Rosanna, non ti preoccupare».
«Sì ma se mi vendi la maglietta di Platini a te t’arap o’ cul e a Rosanna non te lo posso dire, sono pur sempre un gentiluomo».
«Qua’ gentiluomo, Berse’, tu sei soltanto una capocchia a cui piaceva troppo la fessa e col vizio dei cavalli, non farmi ridere, tre mogli tutte la stessa fine gli hai fatto fare».
«’Mparat a usare i pronomi avvoca’».
«Sarà, ma il problema qua rimane la fessa, Berse’, quanti soldi hai speso per questa cazzo di fessa?».
«Già, la fessa».
Comunque gli dico che per me va bene, basta che mi lasci in pace pure quest’altra, che comunque io avrò annusato pure centinaia di altre vagine, ma pur sempre è stata lei a crescere i miei figli, avevo già deciso che dopo Teresa avrei avuto dei figli da una sola donna, cioè dopo Jacopo, e il matrimonio con Anna è durato solo sei mesi, e poi pure questo fatto che non possiamo usare la sua relazione con Coppola in tribunale perché non possiamo provare che è cominciata quando lei era ancora ufficialmente mia moglie, e d’altronde la mia poligamia era già bella che manifesta, quindi Paventi dice che non è il caso, e che potremmo andare a finire pure peggio di come abbiamo iniziato, tutto questo mi sta veramente sul cazzo.
Vada allora per la Porsche, e mi viene in mente un frammento di un tg1 del 1993, quando mi prese un colpo a vedere la Porsche di Lentini inesistente dopo uno schianto, e magari è questa macchina qui che porta un po’ di rogna.
Quel diavolo di Müsterpitnovic, il mio nuovo agente, è riuscito a organizzare un’intervista in tv, proprio con Sky, e mi ha chiamato dicendomi che quelli di Sky sono persone intelligenti e ben disposte, «larghe vedute», testualmente, non come a Mediaset o alla Rai, nessuna censura, e quale migliore occasione per dimostrarlo se non concedere a quel diavolo di Berselli una puntata dello speciale di mezzora sui grandi della storia del calcio.
«Tu gli hai dato della puttana» – dice.
«No, ho detto “bagascia”, ma ero solo arrabbiato e ubriaco».
«Appunto».
«Appunto» un corno, il programma si chiama I protagonisti, per l’occasione sarò intervistato da Compagnoni, il mio preferito, Müsterpitnovic l’ha spuntata pure su questo, l’argentino con il padre serbo-tedesco. Inoltre, non dovrò tornare nemmeno negli studi televisivi, perché l’intervista vengono a girarla a casa.
Ad ogni modo, il giorno in cui vengono per le riprese risucchio come un aspirapolvere intergalatticotutto il liquido dell’angolo bar che mi è rimasto, dando adito anche alla celebre pratica della bomba, qualcosa in cui in sostanza ci si mette una benda davanti agli occhi, si prende una bottiglia a caso, e se ne beve un quarto, e così via, e non importa cosa capiti, può anche essere che dopo la vodka devi bere il rhum. Questo in realtà fra la notte e la mattina dell’intervista, che è fissata alle 15. Vado quindi a dormire verso le 8, ma tempo un’ora e ho gli occhi spalancati sul mucchio di vestiti ai piedi del letto; mi alzo, vado in cucina e faccio le mie tre macchinette del caffè per riprendermi. Quando suonano al citofono sono in condizioni discrete, ho lavato tre volte i denti.
«Buongiorno Berselli, ti trovo in forma».
«Compagno’, come cazzo fai a trovarmi in forma, dico io, che peso due quintali!», affermo, provando a mettere in lustrini la spiritualità campana che mi rimane dopo tutti questi anni di settentrione, accompagnando l’ilare giocondità del mio viso con gesti ampi e rasserenanti, accoglienti. Poi offro dell’altro caffè ai convenuti, i quali gradiscono.
«Sai, mio nonno era proprio di Napoli Napoli, della Pignasecca, e quando faceva il caffè ci spiegava come dovevamo pressarlo, cioè come non dovevamo pressarlo, e poi del livello dell’acqua, mai superiore al quarto della valvola, non metà, se no viene troppo lungo, e poi la fiamma che non deve superare la circonferenza della macchinetta, mentre sosteneva con ferma convinzione che il vero caffè non dovesse avere la schiuma, perché la schiuma lui diceva “serv’ pe s’ammacchià quand’ o cafè nun ven’ buon’”. Così, proprio così diceva, perché le metafore proprio non gli sono mai piaciute».
Sistemano le luci nel salotto, e io dico al ragazzo qui che fa l’aiutante che può spostare questa cazzo di testa di leone di ebano, che Elena ha fatto comprare durante quel viaggio in Africa in cui pensavano mi fossi beccato la malaria, ma malaria non era, era solo una merda di influenza, a fronte del fatto che mi fecero cacare addosso, quel cazzo di francese di Medici senza frontiere. Mi sa che ha pure giocato al dottore con Elena, lei ha una passione per questi filantropi di merda. E ora il leone pare voglia mangiarmi la testa.
«Allora, Berselli, noi di Sky siamo per una televisione verità, che riproduca la realtà col minor scarto possibile, cioè che sia insomma soprattutto adiacente all’oggettività, non so se mi spiego, quindi noi non ti censureremo, potrai dire ciò che vuoi, la libertà di espressione è da sempre al centro della politica della nostra emittente, come ben sai».
«Bello Compagno’, davvero bello».
«Ecco, quindi io, come avrai notato, non ti ho mandato alcun trafiletto con le domande via mail prima del nostro incontro, voglio che tu sia spontaneo, e che risponda sul momento, ma so che su questo non dovrebbero esserci problemi», e qui ridiamo entrambi, e si sente pure dietro il tecnico delle luci che ride, e il microfonista che fa eco.
«Eh, ma come sta Ilaria?», altre risate.
«Senti allora io direi che dopo il trucco cominciamo subito, giriamo un’ora, e poi taglieremo per cucire sulla mezzora, ma non ci saranno ovviamente manipolazioni di quello che dirai, se eliminiamo qualcosa lo facciamo in tronco, e comunque vorrei che passassi poi agli studi, cosi possiamo dare un’occhiata insieme».
«Compagno’ non ti preoccupare, di te mi fido».
«Andrea Berselli, nato a Napoli nel 1961, un personaggio controverso e sui generis per il mondo del calcio, un rivoluzionario nella sua persona singola della figura del calciatore in universale, un uomo controcorrente e la cui sfrontatezza è stata inferiore forse soltanto alla sua intelligenza», il cappello di Compagnoni.
«Non ho capito, Compagno’, ma qua mi stai prendendo in giro o mi stai facendo un complimento? Mi devo grattare? Perché mi pare proprio un coccodrillo…»
Ridiamo ancora.
«Posso darle del tu?»
«E quando mai mi hai dato del lei, Compagno’?».
«Ecco, vorrei partire dall’inizio della carriera di un calciatore, quali sono i sacrifici che si fanno e che nessuno vede; cioè, parliamoci chiaro, la gente è abituata a vedere già il prodotto finale, il calciatore fatto e finito che ha le belle donne, le macchine portentose, e il denaro, naturalmente, ma prima, e intorno, che cosa c’è?»
«Guarda, quello è un grande dramma, io se avessi avuto una vocazione sociale più spinta, o se avessi avuto una vocazione sociale in generale, avrei pure fondato un’associazione per aiutare per esempio quei poveri disgraziati che arrivano alle soglie della prima squadra dalla primavera e poi si rompono tibia e perone e non tornano mai più quelli di prima, perché il calcio è uno sport crudele, che può ammazzarti quando sei ancora in fasce e non hai le spalle abbastanza larghe da sopportare un tale peso, intendo la zavorra del fallimento galattico che ti si abbatte addosso quando ti sconquassa e tu non sai davvero come riprenderti. È una costante della vita, ma nel calcio arriva prima. Insomma il fatto è che tu fai un investimento, e la mia generazione non è nemmeno di quella che nelle scuole calcio trova i licei e gli insegnanti e così via, ai miei tempi o studiavi o giocavi a calcio, e se giocavi a calcio rischiavi di essere molto rozzo, e se non sfondavi non potevi avere quei soldi che ti avrebbero permesso di riscattare in toto la tua grettezza spirituale, ma per fortuna io sono diventato uno dei registi bassi più forti di tutti i tempi, e mi sono salvato. Ma ti assicuro che nella primavera dell’Avellino c’era gente anche più dotata di me, per esempio Cinciarullo, un’ala destra come non ne ho mai viste in vita mia, un fulmine coi piedi di Garrincha e l’intelligenza calcistica di Ancelotti e Rijkaard messi insieme, non so se mi spiego. Certo noi le veline non le abbiamo avute subito, il concetto del calciatore come star globale è cominciato dopo, diciamo metà anni Ottanta, ma rimane che per chi non ce la fa la vita diventa una specie di condanna emessa quando tu sei un bambino e che si divora tutto quello che viene dopo».
«Tu parlavi però dello studiare, del riscatto, ecco, ma invece tu sei sempre stato famoso perché nelle interviste citavi i grandi autori della letteratura, una specie di Gascoigne con la memoria di Giordano Bruno».
«Ma guarda, Compagno’, io poi ho letto molto, non è che ho studiato veramente, non mi sono mai voluto laureare, pur potendomi permettere lo sfizio sociale di una laurea in materie umanistiche, tanto di soldi ce ne avevo a palate, però i ritiri erano lunghi, non c’era niente da fare, e anche a Boscoreale quando ero piccolo non c’era molto con cui gingillarsi, se non giocare a pallone o leggere libri, e mio padre aveva questa biblioteca…».
«Quindi dobbiamo sfatare un po’ questo mito del calciatore analfabeta che emargina tutto ciò che gli puzza di cultura».
«Guarda, io penso che sia anche un fatto di tempi, oggi la gioventù è stata anestetizzata dai media, dai media di nuova generazione, gli smartphone, i tablet, e tutto il resto. Non mi piace molto Pasolini, ma aveva ragione sulla televisione, e chissà cosa direbbe ora di tutto questo. Cioè io ora mi sto odiando perché sto parlando come un moralista, ma cosa devo farci se non sempre la verità può essere immorale. Comunque a me nessuno rompeva le scatole se in ritiro volevo leggere invece di giocare a carte, tanto poi ero simpatico e mi facevo voler bene lo stesso facendo gruppo quando c’era da fare gruppo, solo che la sera in alta montagna non mi dovevano disturbare, io provavo questa necessità di non essere normale e distinguermi».
«A proposito di ritiri, è vero che con Vialli e Mancini chiudevano un occhio quando scappavano dagli alberghi?»
«Mah, il fatto è che come fai, tutti scappavamo dai ritiri, solo che di qualcuno si chiacchierava di più, perché più ti avvicini alla porta più nel calcio il tuo ruolo diventa mediaticamente esposto, ma questi sono problemi secondari».
«Ecco, per tornare invece alla questione importante, cosa succede alla tua vita quando diventi un calciatore affermato, cosa cambia?»
«Be’, inutile nascondere che i soldi ti permettono di accedere a dimensioni terrene di cui prima non avevi nemmeno la più remota idea che potessero anche solo essere pensate. Io purtroppo ho vissuto nel periodo di terrore per l’AIDS, altrimenti forse avrei fatto di più, c’è stato questo rinculo dovuto a questa patologia della libertà sessuale e a Freddie Mercury, ma mi sono rifatto più avanti, e poi a me all’epoca interessava solo il pallone, diciamo che le donne sono cominciate a diventare un problema verso fine carriera, dopo Wembley e la punizione di quell’animale di Koeman, fino ad allora avevo avuto una sola moglie, lì è cominciato invece a diventare tutto pericoloso, la mia rabbia agonistica nella fase calante della mia carriera si era incanalata verso un vicolo cieco, e non potendo più esplodere sul campo, mi sarei fracassato il ginocchio due anni dopo in ritiro con la Lazio, come ben sai, si è riversata sulla fessa, ecco, se posso dire così, la trovo una parola così liberatoria e aderente all’oggetto che deve significare, una cosa così sordida eppure così angelica e iperuranea, capace di far declinare le cime dei monti e annientare le vite degli uomini. Di peggio ci sono solo i cavalli, ma se la giocano, eh».
«La tua immagine di campione è stata un po’ annacquata da questa esistenza post-calcistica così dissoluta, almeno per il grande pubblico, mentre ti sei creato una sacca di ammirazione di nicchia ma maggiormente resistente, pare, soprattutto in questo nuovo filone di giornalismo sportivo più letterario, che oggi su internet va per la maggiore, per esempio la cricca de L’ultimo uomo, c’è un bel pezzo di Manusia su di te».
«Capisco, ma chiaramente a me non me ne frega davvero nulla, possono scrivere quello che vogliono, ci possono fare anche un racconto su di me, è davvero uguale».
«La tua più grande delusione sportiva resta Wembley, quindi?»
«Guarda io quel fallo dovevo farlo, Boskov si era raccomandato di non concedere tiri franchi a quell’assassino, ma eravamo ai supplementari, eravamo tutti stanchi, e alla fine ho fatto la seconda scivolata della mia carriera, non ho mai amato fare i tackle, l’ho sempre trovato un gesto rude e poco consono a quello che secondo me è lo spirito del gioco, che è pienamente geometrico e vaticinatore, ma lì dovevo, l’ho fatto per la squadra, io che ero un individualista atipico, troppo al centro del gioco per poter fare in modo che la mia tecnica mi facesse risaltare come il fine solista che pure ero».
«Puoi spiegarti meglio, per favore?»
«Compagno’, coi piedi che avevo io potevo giocare almeno trenta metri più avanti, e col tiro che mi ritrovavo avrei potuto fare non so quanti gol da trequartista, da dieci, ma per me giocare da dieci era troppo facile, a me interessavano le geometrie invisibili del gioco; dal centro della trequarti sono tutti bravi a fare i passaggi filtranti, ma è nei sessanta metri che si vede la precisione, l’ermeneutica della giocata. Quando lanciavo Vialli in contropiede e la palla faceva quella parabola che io le conferivo col destro d’esterno – Brera disse in tempi non sospetti che nel mio destro c’era un mancino tanta la naturalezza del tocco –, per me quello valeva più di ogni imbeccata fulminante di un Mancini, che pure ovviamente è un grandissimo campione, ci mancherebbe. E un amico. Ma la mia filosofia era questa, questa è la mia visione delle cose, per me c’è una perfetta trama geometrica che si nasconde dietro la realtà e sul campo da calcio tu puoi scoprirla, non so se mi capisci».
«Forse. Ma torniamo ancora una volta al lato oscuro del campione. Ne accennavi prima: cosa ne è stato del Berselli fuori dal campo?».
«Compagno’, guarda ho capito il gioco: un colpo al cerchio e uno alla botte, così mi fai distrarre e vuoto il sacco. Comunque ti rispondo lo stesso anche se tenti di manipolarmi, a me non me ne fotte davvero più di niente. La risposta è: un disastro, ma non lo so, non è solo colpa mia, alla fine io sono un uomo debole. Si può davvero biasimare un uomo per le crepe del suo carattere? Ho perso i mondiali americani non perché ero vecchio o cosa, ma perché erano cominciate a girare queste voci, e io vivevo una bufera a casa, la mia prima ex moglie aveva cominciato a sospettare delle donne, e nella stagione post-Wembley non sai cosa ho combinato, quante ne ho fatte, nei ritiri prenotavo piani interi di alberghi, nessuno poteva sapere niente, ero con la squadra, e invece no, quella strega, faceva le carte, un giorno lascia il bambino dai miei suoceri e si presenta all’Hilton a Milano, e trova la sua estetista che era effettivamente una delle mie amanti, e ho dovuto pagare venti milioni di danni per evitare che la faccenda venisse fuori e mettere a tacere il personale, per fortuna almeno i giornalisti che erano al seguito della squadra erano amici, li conoscevo uno a uno, e non ebbi nemmeno bisogno di fare pressioni perché la storia non uscisse. E insomma da lì è stato un pozzo senza fondo, la fessa non mi bastava mai, dovevo vincere sempre, ogni partita ne richiamava altre cento, ma Nathalie, lei sì, mi ha spezzato il cuore, mi ero rifatto una vita, ma mi ha lasciato sull’altare, avevo trentanove anni, e lì ho sentito come se qualcuno avesse chiuso il rubinetto della felicità. Il dolore è stato troppo grande, ho cominciato a mangiare e non ho smesso più, e poi i cavalli, e anche su quello non ho mai smesso. Il problema è che la vita di un calciatore dopo l’attività agonistica si svuota, e tu che hai girato gli stadi di mezza Europa e vissuto le passioni più turbolente, cerchi un modo per riviverle, anche se in forma mediata e non del tutto cospicua, tangibile, e allora questo ci sta, o la fessa o la droga o il gioco d’azzardo».
«Chi è stato il giocatore più forte che hai visto giocare?»
«Guarda faccio una differenza fra quelli che ho visto quando io ero sul campo, e quelli che ho visto dopo. Per la prima categoria non voglio citare Maradona, sarebbe troppo semplice, ma dico Bergkamp, l’ho incrociato in un’amichevole, lui era ancora all’Ajax, faceva delle cose spaventose con una semplicità irrisoria, una tecnica la cui naturalezza era misteriosa. Per la seconda categoria, scelgo il vero Ronaldo Luiz Nazario, un giocare totale, che se avesse avuto meno sfortuna a quest’ora ci saremmo dimenticati di Ronaldo il portoghese e Messi, un calciatore mostruoso, una specie di uomo bionico con le ali di un cigno magico che trasformava ogni pallone toccato o soltanto vagheggiato in una bellezza inossidabile e schiacciante, un capolavoro la cui fragilità l’ho sempre trovata abbastanza allegorica della felicità più incommensurabile che ci tocca provare nella vita, così intensa, travolgente e apicale, tanto quanto sa essere effimera e passeggera».
«Perché hai fallito da allenatore? Avevi un rapporto troppo aperto coi giocatori? Poca tattica e applicazione difensiva? Ne sono circolate di voci…».
«Guarda io ho allenato solo in B, ma comunque ho allenato nel periodo sbagliato, il mio calcio di posizione avrebbe scompaginato soltanto qualche anno dopo la scena mondiale, e forse non avevo nemmeno i calciatori giusti per farlo, degli autentici macellai, ma mi sono incaponito, perché ho sempre trovato straordinariamente più appagante costringere il singolo nell’utopia e da lì donargli individualità che non viceversa, ma non è andata bene, forse nessuno capiva gli allenamenti col pallone invisibile, ma io me li ricordo con la nazionale di Sacchi, lui urlava da bordo campo uno sviluppo possibile dell’azione, e noi dovevamo posizionarci di risposta effettuando il movimento senza avere la palla, per accrescere e coltivare un istinto la cui prossimità fra natura e artificio in partita ci avrebbe potuto permettere di schiacciare l’avversario nell’applicazione cristallina e metodica dell’ingranaggio che quel preciso istante di gioco e quella certa giocata avrebbero richiesto».
«Poi però quella nazionale toccò il suo culmine con l’individualità di Baggio».
«Certo, ma l’Italia più bella giocò gli Europei, dopo cinque anni di Sacchi, lì erano pronti, allora io ero già fuori, ma lì erano pronti, solo che il calcio rimane un gioco e anche in generale la fortuna non è che non conti, anzi, è determinante, assolutamente, e la fortuna è dei singoli, mai della squadra».
«Ti sentiresti di dire qualcosa per convincerci che il calcio è ancora il gioco più bello del mondo?»
«No».
«Ok, direi che abbiamo finito, e noi ti ringraziamo per questo pomeriggio e per la tua disponibilità».
«Non c’è di che».
Dopo l’intervista sono uscito, sono andato da Sandra, e ho bevuto non so quanti whiskey. Sandra è l’unica donna che conosco con cui non chiavo e non ho mai chiavato, ma con la quale ho sviluppato un rapporto di intimità e di connivenza sororale che quasi stento a credervi quando mi fermo a pensare per i miei cinque minuti quotidiani di meditazione.
Le ho raccontato un po’ di cose, di quella stronza di Elena che vuole tutto, e ora dobbiamo darle la Porsche, o almeno i soldi che ricaveremo dalla vendita della Porsche, che dobbiamo fare questa autobiografia, io vorrei chiamarla La verità è meno rotonda della fessa ma il pallone è una sfera, e poi del fatto che di tanto in tanto penso ancora a Nathalie, maledizione, «ne ho parlato anche nell’intervista», le dico.
«Magari la vede e ti richiama. O, se non lo fa, richiamala tu».
«O Gesù, Sandra, tengo… quanti anni tengo? A sì aspetta, cinquantaquattro, cosa vuoi che mi metta a fare il trentenne emotivo che si trastulla coi sentimenti? Non avevamo detto che esiste solo la fessa?».
«Fesserie, Andre’, tu sei sempre stato un uomo che si è devoluto all’amore con una profondità pari soltanto alla naturalezza con cui ha sperperato il suo denaro».
«Eh».
«Sei un uomo sensibile, e come tutti gli uomini di una sensibilità oltre-umana soffri schifosamente, in te è tutto amplificato, tutto esasperato, sei una cassa di risonanza del dolore cosmico, André».
«Maronn’».
«Ma cosa vuoi farci, ci piaci per questo».
«Secondo te Nathalie mi ama ancora?»
«Guarda, non vorrei risponderti come la vecchia zia di Herzog, o mi pare che fosse la vecchia zia del povero Moses, comunque alle donne succede semplicemente che ad un certo punto non provano più amore, senza alcuna spiegazione razionale che vi passi nel mezzo».
«E allora perché mi inciti a richiamarla?»
Dopodiché mi abbraccia, ma la mia pancia robusta e diligente impedisce a quel gesto illibato di chiudere il cerchio della sua perfezione. Dormo nella camera degli ospiti, lei oggi parte per Bali, e quando davvero riprendo conoscenza dopo un sonno che mi appare breve quanto lo è la vita di un uomo rispetto a quella delle stelle, mi accorgo che sono passati due giorni due dall’intervista.
Quando torno a casa rimetto il wi-fi all’i-phone, e trovo un paio di messaggi vocali di Müsterpitnovic, il quale mi dice che ha visto l’intervista, che l’hanno trasmessa praticamente subito, in barba alla linea editoriale – queste cose dovrebbero andare in onda dopo qualche mese –, io sono incazzato perché Compagno’, e che cazzo, ma Musterciccio insiste che era una bomba, e che ormai io mi ero riscattato dalla figura di merda con la D’Amico, poiché ero diventato un personaggio schietto e autentico, un uomo della verità oggettiva, quella che puoi toccare e non è complicata ed è lineare e solida come un fusto di detersivo, come tanto piace agli inquisitori moderni, e poi mi diceva in quel suo accento strascicato: «Andreaa, è il momento, dobbiamo scrivere un libro, ssai, tu ora, è il tuo momento, amigo, adelante! Dobbiamo solo scegliere il ghost writer, Alciato è bravo, hai letto quello su Ancelotti?». E allora io gli registro questo: «Musterciccicciovic, se mi permetti, qua il libro lo scrivo io, non esiste alcuno scrittore italiano attualmente competente che possa fare meglio di me, figuriamoci un giornalista, Mustercicciovic».
Mi siedo sul divano, e osservo la notte diventare l’alba, fumo otto sigarette, e poi mi addormento, senza che sul mio volto prenda davvero forma un’espressione umana.
Jacopo Berselli.
Sono a casa di mamma, è dicembre, e sono appena tornato da Parigi. Miriam è con me, viene sempre qui quando io torno da Parigi, anche se sa di Bérénice, che è tutto così momentaneo ed irrisorio, anche se sa che la vita incespica sempre su sé stessa a causa della nequizia del tempo e del suo disincanto.
Comunque in realtà non c’è nessuno, e allora io e Miriam siamo sul divano che guardiamo la tv senza dirci niente, come facevamo quando eravamo piccoli, solo che adesso la sua terza naturale, queste due borracce antigravitazionali, stazionano sotto il mio sguardo e si puntellano nel contrasto fra la chiarezza inusitata dell’areola e l’oscurità del capezzolo, un fatto ben strano, e mi sollevano dall’abbrutimento lavorativo in cui riversavo fino a ieri l’altro presso Luigi – autentica pizzeria napoletana, che sta accanto al Muséum National d’Histoire naturelle. Vediamo un po’ di Benjamin Button, ma il film è troppo lungo, Brad Pitt troppo bello, e io vorrei evitare di sollazzarla con una tale figura maschile, soprattutto adesso che, lo ribadisco, i suoi seni sono nudi, e magari dopo non me la dà, queste qui tirano brutti scherzi, anche se sulla devozione di Miriam, come dicevo, tendo a spezzare una lancia in favore di un sì con sfumature decisamente assolutistiche.
Sennonché giro sul 201 di Sky, e trovo quella testa di cazzo di mio padre che fa il fanfarone e ci spiega come vanno le cose e quanto è dura la vita di un ex-calciatore, e allora meglio questo documentario sui coccodrilli di natgeo wild, ah, quanto sono belli e crudeli i coccodrilli, con questa fermezza preistorica dell’assassinio che la natura perpetra contro le sue creature, rendendo la morte stessa immortale e la vita un suo relativo epifenomeno.