“Lo sai tenere un segreto?”, mi diceva con la bocca rimpicciolita, incollata ai denti, gonfiando il petto. Dalla finestra della nostra classe guardavamo i boschi inverdirsi. Il cielo appena venato di nuvole bianche, sospeso tra le montagne e la scuola, tutto avvitato sui valloni circolari e profondi che isolavano il paese, era un grande scivolo che si portava via giornate e spassi. La luce già piena ci imbambolava, cacciandoci in un languore che a maggio combaciava col perfetto dominio delle madri, contente di spedirci in quei precipizi per dar fiato alle loro solitarie e trionfali faccende domestiche.
“Lo sai tenere?”
Gianni Surace aveva l’aria di chi aveva aspettato troppi inverni o tenuto a bada pensieri assillanti, i suoi occhi di un celeste acquoso divoravano per intero il mondo che sapevamo, intrecciato a nascondigli, strade fangose e remote campagne. Nel riverbero di quelle sue pupille coglievo sempre una veletta triste, in mezzo ai suoi inviti selvaggi un inceppo rauco e deluso, come di una forza oscura che lo tenesse ben piantato alla terra e gli dicesse quello che doveva fare, in anticipo sugli altri. Quando sfilava quattro o cinque sigarette dal taschino del giubbotto del padre – per dire della cosa che più lo esaltava – e le portava di nascosto a noi ragazzi educati del paese, la sua espressione quieta, forse un po’ commiserevole, si faceva ostile. Ma io gli scoprivo, dentro quella faccia contratta e oscura ai sentimenti, una certa timidezza, perché arrossiva e si piegava a un disagio, come arreso alla propria sventura di stare al mondo. Parlavamo, guardando i cerchi che le nuvole facevano in cielo, di spavalderie e moto truccate o delle speciali macchine dei padri; poiane e sparvieri, col loro volo planato, stridevano a un pelo dalle nostre teste coprendo le prime confidenze sul sesso: ogni due tiri, cavati amari dalla gola e dagli occhi, stringevamo patti come i grandi, ma lui ci canzonava dicendo che non era cosa nostra fumare e che forse era meglio se tornavamo a succhiare, delicatini, i rami di sambuco o le stoppie della vigna nei bagni della scuola. Così scioglieva quel cenacolo chiassoso e ci rispediva rabbuiati a casa. Sul più bello però spariva, e benché il nostro mondo fosse piccolo e ostinato, chiuso dentro una cortina di ginestre che cingeva i crinali isolati, lui tra gli alberi e le carraie di creta che squamavano i balzi di San Laviero sapeva far sperdere le tracce: l’ultimo mese a scuola se lo chiamava di festa, barattando la promozione con ceste di porcini che infilava in macchina al preside. Non vedeva l’ora che il padre lo ritirasse da quella gogna, per andare con lui sui cantieri.
Ma il padre non si vedeva mai. Era uno di poche parole e s’infiammava facilmente. Faceva il muratore in Brianza, e quando tornava in paese si murava dentro al bar da vera autorità, uscendone solo per sincopare le sue sbronze fini in qualche lite o nella campagna aperta, fin dentro il canalone: sempre solo, pensieroso, gli occhi di ghiaccio nel buio più denso – così raccontano quei pochi che restavano a far bisboccia con lui – teso a studiare l’acqua e lo sguizzo argentato delle anguille, con la sua ombra che si allungava sulle canne, cullata fino all’alba da un’onda insistente.
Lo ricordo con una barba biondiccia e i capelli scompigliati, aveva uno sguardo così pesante da mettere in imbarazzo chiunque incrociasse i propri occhi coi suoi; e poi quel gesto assai inutile di stirare all’indietro il collo e liberare la fronte dal ciuffo, che lo faceva giovane e piacente. Teneva una bella voce, lo sentivi spesso cantare, non per gioia o guasconeria, ma per levarsi pensieri funesti dalla testa. Imbaldanzito dal vino, le camicie sbottonate fino alla pancia, non si faceva scrupoli nell’accompagnarsi, in pieno giorno e quand’era di umore buono, a una forestiera severa e ben composta, fulva nei capelli, snella, flessuosa, con due cosce abbronzate e illuminate dalla vita uguali a quelle dei fotoromanzi – e l’immagine di quando lei sgambettava, dietro i larici della chiesa, sull’Alfetta Gtv di quell’uomo, ben presto rinnovò il canovaccio dei nostri brusii collegiali, specie quando Gianni non c’era. Pensavo, in cuor mio, che non avendo un padre tra i piedi la fortuna lo tenesse da conto: un giorno nelle crepe di San Laviero glielo confidai, rispose indurito che poco gliene importava e che a volte voleva essere come i capovaccai che saltavano giù dai cavi elettrici per fiondarsi inspiegabilmente contro le macchine in corsa, ma che un attimo prima dello schianto, con una virata spettacolare, riprendevano pacifici il volo. “Hai fatto caso? Vedi mai stramazzarne uno?”, m’interrogava e io annuivo disorientato. Poi capii la metafora. Non gli parlai più con invidia.
Abitavamo in cima al paese, in una frazione di cinque o sei case, sopra uno spiazzo erboso, senza vegetazione, dove i bovari seminavano il loglio per i pascoli e variegate erbe foraggere che noi scompigliavamo col pallone nelle interminabili finalissime tra contrade. A sera riversavamo nei cortili dietro casa, curiosando fra quei garage fatti di vecchie lamiere di zinco e materiali di recupero, sacrari a noi inaccessibili dove si custodivano le potenti macchine sportive dei padri. Perlustravamo spavaldi ogni anfratto, ma quando quell’uomo era fuori controllo, con la mente sovragiri come la sua Alfetta, era meglio stare alla larga e lasciar perdere le divagazioni su contachilometri e cilindri; a Gianni Surace saliva un’ansia che contagiava tutti e alla sera, lontano dai nostri occhi, il segreto patto da complici continuava solo tra me e lui: un malessere sordo ci teneva legati persino quando lui prendeva al buio cinghiate da quel genitore nevrotico e io tribolavo, sull’altro crinale e tappato nella mia casa, ma con l’orecchio teso verso la sua spianata, come se sentissi le urla di quella incomprensibile tortura.
Venne a parlarmi una domenica al tramonto, sull’uscio, sudato e inquieto. Lo guardavo in petto, sotto la t-shirt i polmoni tremolavano assieme ai riflessi del cielo rossiccio, un rivoletto di bava seccata gli era rimasta ai lati della bocca. Maggio vestiva i colli di papaveri e lavanda, in mezzo a quel verde crudo di grano e foraggio buoi a perdita d’occhio ruminavano placidi la sulla, scartando ammaestrati i raccolti. Era lo stesso mese che insufflava col suo stordente odore di ginestra la cresta di San Laviero e i cortili e le case: quel breve pezzo di terra appariva gradevole e umano, tramortito forse da troppa malinconia e da cambi repentini del tempo, anticipati dal tocco frenetico dei campanacci: un acquazzone arrivava con una folata di vento freddo, appena si increspava il cielo. Su quelle valli strette e dirupate, con le prime pioggerelline la vecchia provinciale che andava in paese diventava inaffidabile e pericolosa; stretta e in certi punti senza cunette, poteva sperdersi in una nebbia d’altura mentre nello sprofondo, sotto i paracarri, rumoreggiava più forte il fiume.
Venne per dirmi il segreto. Ai tempi, i discorsi iniziati a maggio potevano non concludersi mai, l’estate diventava una parentesi forzata, addirittura dell’intera esistenza, tanto si cresceva in fretta e mutavano umori nel mezzo. Aveva lo stesso sguardo, di dolcezza imperscrutabile e di coraggio, di quando certe mattine lo accompagnavano i carabinieri a scuola. La stessa compostezza della madre; e in madre e figlio, specie nel turbinio di quelle adunanze in presidenza, il tema non mutava: si chiamava vergogna e ammalorava il corpo, solo gli occhi di Gianni, occhi che avevano qualcosa di rapace per scacciare la paura, sapevano riportare un contegno che tenesse lontano le maldicenze e forse il presagio di qualcosa di irreparabile.
“Che è successo?”
“Ho detto a mio padre di lasciarla stare. Di tornarsene da noi”.
Scesi le scale e a testa bassa lo trascinai in cortile, in un gesto risoluto di pudore, almeno così lo voglio credere oggi – un gesto maturo, venutomi in soccorso spontaneo e senza goffaggine: ero padrone della situazione, avvertivo le mura di casa non sicure per raccogliere quelle sue confidenze, così lo trascinai al centro del vigneto. Scrutai la sterrata ghiaiosa che portava sopra la sua collina e mi accorsi che la macchina del padre non c’era, né sulla spianata in cima e nemmeno nel garage. Guardai giù in fondo alla strada, ispezionai la vallata sottostante e trasalii quando vidi il muso dell’Alfetta che spuntava dalle vasche dell’abbeveratoio, l’abitacolo vuoto, il sole abbacinato sul tettuccio aperto. Sorrise per tranquillizzarmi.
“La bionda?”, avevo il batticuore e mi chiedevo che stesse accadendo.
Gianni Surace annuiva frastornato, io ne invidiavo il coraggio. Quella sua forza autofaga.
“E lui?”
“Ha detto che quando torna dobbiamo parlare da uomini… noi due soli!”
Scappava dal terrore, che era rimasto imprigionato nel fondo dei suoi occhi e io lo vedevo. Ma erano, quelle pupille di Gianni, come punte da spilli, e lacrimavano con stilettate amare in un ansito caldo che si mischiava al fiato dei buoi. Ciò che aggiunse, con freddezza e risentimento, diede un’accelerata al tempo, come se avesse ingranato la quarta. Il padre, qualche sera prima, rincasando, lo aveva minacciato con l’accetta: aveva afferrato la moglie per i polsi e brandendo l’arnese in direzione del figlio gli aveva alitato in faccia volgarità e mortificazioni. Allora a Gianni gli si era oscurato il cervello: gli aveva sferrato un pugno secco sulle tempie, stordendolo. Lo misero a letto, e madre e figlio si abbracciarono impauriti. Il padre, rinvenendo, non si era scomposto più di tanto, e come ogni lunedì era ripartito per il nord promettendo al figlio di regolare la questione quando sarebbe tornato.
Distolsi lo sguardo da Gianni e guardai la spianata. I buoi, bardati per la transumanza, pronti a partire da giorni, fissavano il vuoto e scuotevano la testa al rallentatore, come immersi in uno scarto di tempo attardato, liberando sbadigli bavosi che parevano insulti al mondo o il calco preciso dei disegni insondabili di Dio. Gli urlai appresso di non andare, sperando che la crepa della mia voce intercettasse la sua, ma eravamo lontani e non si voltò.
C’era già un’altra aria, con le nuvole che si gonfiavano di pioggia. Non era la prima volta che fregava l’Alfetta al padre, ma quella sera l’insubordinazione aveva il sapore dell’azzardo. A guidare aveva imparato nei boschi: negli sfasciumi della falesia, in un costone adibito a discarica, un giorno avevamo rinvenuto una vecchia Millecento arrugginita, di cui restavano solo la scocca, i pedali e qualche pezzo del cruscotto e da allora con la fantasia guidavamo fino a Milano, sotto il Colosseo e persino in Babilonia o rasenti le mura di Cartagine – che non esistevano ma andavano bene lo stesso perché facevano pendant col resto.
Nella notte mi svegliarono uno strano fragore e fasci a intermittenza di luce blu; il cielo non si vedeva e un vento scuro muoveva le tapparelle e i rami inzuppati di pioggia. Mi riaddormentai a fatica, per lo sgomento i miei sogni bambini prendevano il largo. La mattina tornò a splendere la ginestra, le sue fruste fiorite, tutte sfrangiate, si ridestavano da un sottile tappeto di nebbia e le nuvole s’inseguivano già filamentose all’orizzonte. Per prima cosa andai al balcone e vidi che c’era un viavai continuo sul ballatoio dei Surace, una processione composta di gente scendeva le scale ciondolando il collo, vidi il medico che parlava a tutti pulendosi gli occhiali e l’unico a non venir mai fuori da quella casa era proprio Gianni. Mia madre, che già sapeva, mi preparava il latte. Disse che era meglio se a scuola non andavo, neanche il pulmino sarebbe passato quella mattina. Mi accarezzava i capelli e assieme alle sue mani tremava tutto l’universo. La sentivo come un esile diaframma che m’avvolgeva per non lasciarmi scoperto o fragile preda, era venuta a riprendermi da chissà dove, la ritrovavo lieta, risollevata come le vacche che durante la transumanza, al buio e nei passi più impervi, vanno a riprendersi i vitellini dispersi. Poi mi scrutava con un sorriso di riguardo e di confidenza: se avesse potuto fermare il tempo quella mattina, lei lo avrebbe fatto.
Al giudice il padre di Gianni aveva dichiarato che non lasciava mai le chiavi inserite nel cruscotto e che il figlio le aveva sicuramente sfilate dalla tasca del giubbotto, dove teneva le sigarette. Per la rabbia e il dolore sovrumano aveva forato a pugni tutto il cartongesso della piccola aula del Tribunale, proprio dove i carabinieri in genere torchiavano gli indagati. Aveva addosso ancora la tuta del cantiere, era sceso dal nord senza nemmeno cambiarsi. La notte che lo trattennero fissava le pareti scure e poi i campi e poi quelle strade che strade non erano e infine tutto quel mondo a spirale, di creta e valloni, e la testa gli faceva dire che era in credito con l’eternità, perciò si mise a cantare: Mi strapparono il fiore del mazzo migliore, se lo rubarono per mettere un punto… – ingoiava fasci d’aria impastata a buio e in pieno accordo con le strida dei capovaccai che passavano di lato, radendo i muri sberciati del Tribunale, rintuzzava con note in falsetto: per mettere un punto al cielo scucito. Poi, per levarsi dal naso l’odore di olio bruciato e la cera tumefatta del figlio incastrato nelle lamiere, si mise a cantare Celentano.
Non era vero che Gianni era in punizione, rimandava al mittente ogni accusa. Aveva un’altra vita, niente di male, che a casa provocava qualche incomprensione, ma l’impianto subdolo della procura fin dove voleva spingersi? Avevano fatto un patto, lui e il figlio: parlavano schietti fra loro e come i grandi sapevano chiarirsi, ricattarsi, sfidarsi, stringersi la mano. Il padre lo avrebbe aspettato, fino a che le ombre che si nascondono come le falene tra le travi della casa non sarebbero diventate cataratte e infine oblio nei suoi occhi. Il figlio sarebbe stato un giorno un ottimo giustiziere: un padre, basta poco, lo allontani con una parola pesante, una muscolatura fremente. Ma nel ragionamento quel giudice grigio e malizioso gli mise in bocca il fatto dell’accetta e la procura, per prassi, volle vederci chiaro.
Una luce insipida irradiava i bicipiti robusti color di terra del padre, ormai ballonzolanti e senza avvenire, e sulle colline nude nei giorni appresso tutto tornava docile. I segni della frenata – gli sussurrarono nell’orecchio – non si erano trovati sull’asfalto. Ma il padre aveva già capito. Stirava all’indietro il collo per liberare la fronte del ciuffo e aveva già capito. In quel silenzio primordiale, nel riflesso giallo che si accendeva sulle sponde e sui valloni, risaltava il volo interrotto e frenetico del capovaccaio. Per giorni lo vidi anch’io: dai boschi sboccava nello stradone della contrada e a ripetizione si lasciava cadere a piombo sotto l’erta di San Laviero, come se scendesse a curiosare. Ma appena la sua ombra si stampava sul greto ghiaioso, un attimo prima di cadere al suolo, apriva le ali e disegnava un’iperbole da mozzafiato, fino a fibrillare scomparendo nell’immensità del cielo.