Carissimo Nuvio,
amico mio comprensivo e leale, fratello maggiore, non ho altri che te ora che la mia ultim’ora si appresta.
Ti scrivo da questo luogo buio e freddo creato dalla mia ostinazione, dalla superbia di cui sono stato schiavo e che mi ha reso cieco. Probabilmente non leggerai mai queste mie parole, questo mio testamento dettato dal terrore che sento respirarmi sul collo come una bestia immonda.
Ricordi quello che mi dicesti l’ultima volta? Luto, mi dicesti, stai perdendo di vista la realtà. Rigonfio del mio orgoglio io la presi come un’accusa; e invece il tuo, amico mio, voleva essere un monito. Oggi posso ben capirlo, ma oggi è già troppo tardi.
Ammetto di non vedere più nulla, di essermi perso per sempre in questa foresta di simboli che portano solo ad altri simboli e che ha un nome il cui significato mi sfugge, perché appartiene a una lingua che precede quella degli abitanti del luogo. Costoro, poi, sono zotici che camminano con pellicce di pecora sulla schiena e non fanno che ululare, per quanto difetti loro del tutto il coraggio dei lupi. Anche volendo, i più hanno i denti così marci che potrebbero a fatica azzannare l’aria.
Sono prigioniero di questa dimensione dove tutto si confonde e non sono neanche più sicuro dei giorni che si succedono, delle ore che si smarriscono. Secondo i miei calcoli oggi potrebbe essere il sei di settembre, ma quale importanza può avere una data quando si è così lontani dal mondo?
Mi prende una tale disperazione, carissimo Nuvio… riconosco di essere andato davvero troppo oltre, di aver proseguito senza coscienza, come un morto.
E che cosa poi sarebbe questo oltre, se non qualcosa che si crede di conoscere solo per se stessi? È il luogo di dove viene la vocazione, l’invito imperituro che l’uomo conosce fin dal primo giorno. Io non sono di quelli che si accontentano, lo sai meglio di me. Cerco risposte dalla prima volta che ho aperto un libro. Avrò avuto nove anni, non di più. Senza esservi costretto varcai la soglia della piccola biblioteca scolastica e cominciai a costruirmi delle coordinate. Mi dirai che il mio è stato sin dall’inizio un mondo di carta e io non potrei dartene torto. Ho viaggiato pochissimo, anche da adulto, ma non hai idea dei chilometri che ho percorso tra le mie quattro mura. Neanche tu, che mi conosci meglio di chiunque altro, potresti lontanamente immaginarlo.
Stavolta sono andato così in là che dubito persino dell’opportunità di questa mia missiva. Mi chiedo se le mie disperate parole riusciranno mai a raggiungerti, e anche quando fosse, se non sia troppo il tempo che impiegherebbero per compiere il loro viaggio. Sono in preda a un tale sconforto che già mi manca la forza necessaria per continuare… Se puoi, perdona la mia debolezza, tu che mi hai conosciuto per l’inesauribilità del mio verbo. Il respiro mi si accorcia; il terrore è sempre in agguato, nascosto in questo buio che domina la maggior parte delle ore. Che io sia forse finito all’inferno?
Ascoltami bene, incorruttibile Nuvio. Se mai queste mie parole dovessero raggiungerti, di dovunque vengano, sappi che esiste almeno una traccia nascosta tra le pagine di un antico volume che lasciai sulla mia scrivania. Là dentro dovrai cercarvi un foglio staccato, un foglio dalla grammatura leggera che porta impressa una mappa. Ti avverto che ti apparirà incomprensibile come lo fu ai miei occhi, e per molto e molto tempo. Tentai con tutti i metodi conosciuti di decifrarla, finché non mi arresi al tratto e lasciai che la vista vi si perdesse dentro come in un quadro astratto. Hai presente quelle distese di girasoli che ossessivamente dipinse l’olandese? Quel suo modo furente di addensare il colore, che dappresso non sono che grumi che non ti dicono niente se non retrocedendo fino ad abbracciare tutto in un unico sguardo? Ma da lontano non sono poi che corvi e girasoli e un cielo in tempesta. A forza di fissare la mappa, altre rotte si sono disegnate e una porta si è spalancata su quello che io chiamo l’oltretempo.
Sono stato spogliato di tutto e il freddo mi ha ormai mangiato fin dentro alle ossa. Probabilmente, quando ti sarà arrivata questa mia missiva, di me non sarà rimasta neanche la polvere e non ti resterà che il ricordo di un codardo aggrappato alla sua sapienza.
Non cercare di seguirmi, non commettere anche tu questo imperdonabile errore. L’uomo veramente saggio è colui che capisce quando è il momento di fermarsi. Il vero coraggioso sa fare un passo indietro senza temere di esserne deriso. Evidentemente, io non ero né l’uno né l’altro. Fai perciò come se non ti avessi detto niente e dimenticati di quel libro e di quella mappa. In fondo, a volte mi viene il dubbio che siano soltanto il frutto della mia immaginazione. Potrebbe essere, no? Ho letto così tanto, che chissà quante e quali fantasticherie ho proiettato fuori della mia testa. Forse non sono che in un letto e questo è un sogno dal quale uscirò fuori alla prossima riga.
Ma adesso devo lasciarti, Nuvio mio adorato. Sento i passi di quegli uomini che non comprendo, il rumore che fanno con la gola quando avanzano trascinando i piedi. Vedessi come rovesciano gli occhi quando cercano di comunicarmi qualcosa, la bava che gli cola dal mento quando sembrano sul punto di esplodere! Sono senz’altro dei violenti, anche se finora non mi hanno mai toccato. Forse mi studiano, cercano di capire se io possa in qualche modo nuocergli. Vivo nel terrore del momento in cui decideranno di passare all’azione, il momento in cui la mia parola non potrà niente contro la loro forza bruta, che farà di me una pioggia di indecifrabili coriandoli.
Eccoli davvero, adesso non sono che a un passo.
Perdonami, se puoi, di tutto quello che ho fatto e che non ho fatto. Abbraccia per me i pochi che conoscevo. Io non posso che immaginarmi di stringerti un’ultima volta e di sentirmi addosso il calore della tua stretta. Non ci sono parole per dire questa mancanza, né in questa né in altra lingua. Non lo trovi ridicolo? Arrivare così lontano per capire cosa sia il desiderio di tornare indietro. Era questo che cercavo? Volevo forse una prova della nostra umanità?
Qua non ce n’è, amico mio. Qua non c’è che vento costante, una vocale lunga e insistita che è un’insaziabile tarma dentro all’orecchio. C’è vento e c’è freddo, Nuvio mio. E loro. Loro che adesso stanno entrando. Puoi sentirli, da dove sei? Come bussano! E io non ho che la penna, con cui potrò sperare di cavargli un occhio.
Mi stacco dalla carta, fraterno Nuvio. È ora di brandire la mia ridicola arma. Tu dimenticami. Promettimi di dimenticarmi e di bruciare questa lettera.
Loro sono qua.
Adesso.
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In copertina: Pieter Claesz, Vanitas- Still life, 1625.