Sta seduto accanto a me sul sedile posteriore della Toyota scassata dell’Arabo, ed è il mio migliore amico.
L’Usuraio ha veramente delle ossessioni deluxe, gliele invidio, prima classe, per esempio ce l’ha cacato per un mese con il fatto che cinque anni fa non ha pagato una sua certa insegnante di composizione alla fine delle lezioni e che adesso ci sta male. L’Usuraio aveva ventitré anni al tempo e ancora pensava di poter diventare un compositore, e quando capì che non lo sarebbe mai diventato perché non aveva il talento licenziò la sua insegnante di composizione senza pagarla. Al tempo non gli fregò niente di questa sua porcata, la fece e basta, ma adesso ripensa al suo debito di duecento euro e si sente in colpa. All’Usuraio non è mai fregato niente di niente, tranne che dei suoi libri e dell’abbonamento all’Auditorium e del suo gatto birmano, ma è un anno che è diventato depresso e allora adesso gli frega di tutto quello che può aver fatto di sbagliato alle persone durante la sua vita di Usuraio menefreghista, ci sta male di brutto, si danna per cose qualsiasi come questa. In gergo psicoterapeutico credo si chiami senso di colpa verso il mondo, me l’ha insegnato mio zio che è psicoterapeuta. L’Usuraio non ci poteva dormire per questa cosa dei soldi che doveva alla vecchia: si chiama infatti l’Usuraio perché con i soldi ci sta in fissa e tutte le sue colpe sono veicolate dai soldi ed è giusto così perché è l’Usuraio. Insomma ha cominciato a tempestare di chiamate questa vecchia insegnante di piano di Prati, quartiere residenziale di Roma, ha cominciato a chiamarla per dirle che doveva assolutamente darle questi duecento euro. L’ha cominciata a chiamare in continuazione, doveva assolutamente vederla per darle i soldi. E lei: non si preoccupi, non c’è bisogno. Lui le avrà parlato con il tono da maniaco che ha ultimamente e la vecchia si sarà spaventata. Stia tranquillo, gli ha detto lei, non c’è problema, non serve che me li ridà, sono passati cinque anni, nemmeno me lo ricordavo. No guardi, davvero, ci tengo, ha detto lui, vediamoci, quando ci possiamo vedere? Ma niente, lei non lo voleva vedere. Si sarà spaventata. Lui ha preso a chiamarla come un pazzo, l’ossessione l’aveva preso alla gola, non riusciva proprio a dormirci. Alla fine è andato nell’androne del palazzo di lei e le ha messo duecento euro nella cassetta delle lettere. Però adesso non è sicuro di averli messi nella cassetta giusta e ce lo caca con la sua nuova ossessione, che lei non l’ha ringraziato e nemmeno gli risponde più alle mille chiamate che lui le fa e quindi lui è sicuro al 100% che quei duecento euro se li è presi qualche altro disperato che vive nel palazzo e lui ci sta ancora peggio perché buttare i soldi è la cosa che più lo disturba, all’Usuraio.
Sta seduto accanto a me sul sedile posteriore della Toyota scassata dell’Arabo, ed è il mio migliore amico.
È veramente la persona più egoista che conosco, poi è bipolare, depresso, codardo, è inaffidabile e manipolatore, ed è il mio migliore amico. Succede così, in questa città di Roma, avete presente magari: si è amici delle persone peggiori per fare sfoggio a noi stessi della capacità di essere amici dei mostri, “accettare la diversità” dice qualcuno di noi, altri più raffinati parlano del gioco della contraddizione, degli estremi. Poltiglia. Più spesso si è amici perché ci si conosce fin da quando eravamo bambini, come me, l’Usuraio e l’Arabo. L’Arabo è l’altro mio migliore amico, che si chiama così perché ha studiato l’arabo. Un disperato. Tre disperati, davvero, io faccio il fotografo d’interni per un agente immobiliare mafioso, l’Usuraio dà ripetizioni di latino (è un intellettuale) e l’arabo studia arabo e fa l’autista per attori di cinecittà con la sua Toyota scassata. Conosce Roma a memoria, meglio di un tassista, e ci fa sedere sempre di dietro; così… dice che gli piace così. Deformazione professionale sembrerebbe, e lui aggiunge che ha i suoi pensieri da pensare e che con questa disposizione di lui davanti e noi seduti dietro, dentro lo specchietto retrovisore, li pensa meglio. Adesso corre come un addannato sulla tangenziale e intanto mi fissa nello specchietto retrovisore. La tangenziale est la conosce così bene che non guarda mai avanti. Schiva le macchine come se fossero tutte dentro la sua testa e non nello spazio circostante, come incubi a occhi aperti che evita con raffinate tecniche di sterzata. Uno che guida così bene non l’ho mai conosciuto.
Rallenta che mi ammazzi, Arabo!, strepita l’Usuraio.
Dici sempre che vuoi morire, fa l’Arabo.
Non oggi, lo psichiatra mi ha dato le gocce nuove e sto come un pascià, ribatte l’Usuraio.
Quanto manca?, chiedo io.
Poco, sta dietro via Nomentana, dice l’Arabo, e tira una derapata tremenda fuori dalla tangenziale, appunto verso via Nomentana, che imbocca trenta secondi dopo a centoventi orari digrignando i denti.
Mi chiedo perché quelli dello Stato non mi prendano, dove cazzo lo trovano un’autista come me? ci chiede.
Ah. Hai fatto domanda come t’abbiamo consigliato noi? chiede l’Usuraio, mentre si scaccola il suo naso affilato ed enorme.
Certo, ho compilato il modulo sul sito, risponde l’Arabo mentre tira il freno a mano, incastra la retro e si parcheggia in un buco con un mezzo testacoda.
Ci siamo? chiedo io.
Scendete, fa l’Arabo.
L’Usuraio sbuffa e si gratta la testa. Io pure. Poi scendiamo e andiamo al portabagagli a metterci le tute dell’Italgas che abbiamo comprato al mercato di Porta Portese (ce le potevamo anche mettere prima, ma se ce le mettiamo adesso ti incuriosiamo di più, caro lettore, quindi fattela andare bene) e poi ci dirigiamo al civico 47.
Come si chiama? chiedo io.
Antonio Granata, dice l’Usuraio dopo aver dato una sbirciata al suo block-notes.
Citofono a Granata, interno 7b.
Sì, chi è?
Dottore siamo dell’Italgas, l’abbiamo chiamata prima per l’appuntamento, ci fa salire?
Ah sì, certo, prego.
Mia zia aveva l’ectasia all’aorta ascendente. Vuol dire che l’aorta si era allargata. Ieri mattina, mentre eravamo all’ospedale Umberto Primo e io le tenevo la mano prima dell’intervento, (mi squarteranno, ho paura, mi ha detto lei prima dell’intervento, e io le ho detto andrà tutto bene, questi chirurghi sono forti, non sono più esseri umani, questi li hanno fatti diventare macchine, anzi meglio delle macchine perché hanno anche il cervello, questi non fanno che ripetere la stessa operazione milioni di volte allo stesso identico modo, conoscono tutto a memoria, tutta la zona centrale del corpo umano che è praticamente uguale alla zona centrale della moto che mi ha regalato zio, e hai visto che il meccanico è un attimo e il carburatore te l’aggiusta, manco ci pensa, lo fa a occhi chiusi, devi stare tranquilla zia, questi chirurghi qui non operano il tuo corpo da fuori è come se l’operassero da dentro per quanto bene abitano i corpi mentre maneggiano i loro strumenti, senza parlare della raffinatezza chimica delle sostanze che t’inietteranno, gli ultimi ritrovati in fatto di anestesia, sogni senza sonno, incubi senza memoria, il massimo insomma, non ti preoccupare zia andrà tutto bene, sarà come essere sognata da un sogno; e se puoi muoio, mi ha chiesto allora lei, e io non ho detto nulla ma solo sorriso e poi le ho detto questo è impossibile, ma non posso negare di essermi messo a pensare subito, come del resto avevo fatto negli ultimi tempi, al discorso che avrei fatto al suo funerale, le lacrime, l’affetto degli altri, la stima, parlerò di vestiti, che mia zia era una grande costumista, ne parlerò come ne parlerebbe un grande appassionato, delle trame dei vestiti che disegnava, della scelta dei tessuti, qualche aneddoto sulle volte che da bambino mi portava dietro le quinte degli spettacoli a teatro, qualche cazzata sull’odore dei teatri, mezza lacrima, parlerò con passione, tutto piegato in avanti, col dolore nella bocca, voce roca, e la gente piangerà e applaudirà e poi partirò per un viaggio di un anno, solo, completamente solo, e parlerò alla gente che incontrerò della sofferenza che si prova per la morte di un proprio caro, ma quanto ci rafforza, come la guerra rafforza gli scrittori, come non sia tanto la sofferenza a rafforzarci ma la nostra capacità di sopportarla, di tenerle testa, insomma queste parole imbellettate così per ingrossare il portafoglio narcisistico che ci portiamo sempre dietro incollato al culo, per rafforzare la retorica rivoltando le persone nelle tombe, ti voglio bene zia e le ho dato un bacio sulla fronte prima che la portassero dentro la sala operatoria).
È andato bene l’intervento di tua zia? chiede l’Arabo. Sembra sinceramente preoccupato. È il mio migliore amico, insieme all’Usuraio. Ci conosciamo dall’asilo. È un ragazzo a posto tranne che è ossessionato dalle donne, come me.
È morta, gli rispondo.
È questo che invidio all’Usuraio, che lui ha ossessioni da vero intellettuale, come quella dei soldi che deve all’insegnante di piano, perché lui è un pianista, un pianista incapace certo, le sue composizioni sono orrende, ma intanto il piano lo suona da dio e ci tiene incollati per ore alla sedia suonando melodie impossibili di compositori tanto sconosciuti da non essere esistiti nemmeno quando erano in vita. Io invece non ho proprio niente da dire, solo che sono perennemente depresso anch’io e anch’io ossessionato, ma con le donne… che pena che mi faccio… L’ultima è la Cardiologa, che non mi si caca di pezza, le ho anche detto che mia zia si operava e lei ha commentato dicendo eh capita, ha pure una certa età. Mi scopa e basta, la Cardiologa. Mi piace un sacco perché è molto più grande di me, ha più di quarant’anni, e perché mi nega il sentimento. Io le scrivo brutte lettere e le parlo di me e della mia vita, ma lei non mi ascolta mai per davvero. È come se non registrasse altro che il mio corpo, come un animale che tra i rumori degli oggetti del mondo seleziona solo quelli che gli servono a fini adattativi, in questo caso il mio cazzo, la mia bocca e le mie mani, per godere.
Entriamo nell’appartamento del dottor Antonio Granata e ci presentiamo. Piacere dottore, siamo l’Usuraio, l’Arabo e me.
La casa puzza dell’odore delle case dei vecchi.
Volete un caffè, ragazzi? chiede il dottor Granata, e noi: volentieri.
Ci mettiamo tutti seduti in salotto tranne il dottor Granata, che va in cucina, e l’Usuraio, che si mette a guardare i libri sulle librerie come al suo solito quando andiamo a trovare i vecchi vestiti da impiegati dell’Italgas, perché è un intellettuale Usuraio del porcoddio.
Ehi, guardate, ci fa tutto contento.
Come al solito ha trovato un libro sconosciuto che ci vuole mostrare di conoscere, per farci vedere che lui sa tutto di tutto, che poi è vero, l’Usuraio non ha nemmeno trent’anni e pare aver letto tutto, mentre l’Arabo legge solo libri sulle crociate e studi sul Corano e io leggo solo fumetti tipo Gipi e qualcosa chessò di autori tipo Carrère e Murakami Haruki, insomma robaccia.
Tira fuori un libro di tale Tedoldi se non sbaglio, un libro di racconti che ora non mi ricordo come s’intitola, e comincia a leggere qualcosa che per qualche motivo io mi ricordo, cioè me lo ricordo perché ce l’ho qua davanti mentre scrivo e quindi cito testualmente dalla fine del racconto Le macchine, in Tedoldi, G., Io odio John Updike, Minimum Fax, 2016:
mi annoierò, temo, entrerò in depressione, e non sarò mai più così felice come quando mi renderò conto, sdraiato nella mia stanza d’albergo stordito […], che la depressione è dolce, è un rimedio antico, non fa ricerca, non stordisce i sensi, solo ti uccide.
Così dice il protagonista del racconto di Tedoldi alla fine del racconto, e con lui l’Usuraio. E io e l’Arabo ci compiacciamo della lettura perché l’Usuraio ha questa dote di leggere sempre la cosa giusta al momento giusto. È uno dei motivi per i quali è il nostro migliore amico.
Torna il Granata con i caffè, l’Usuraio trafuga il libro infilandoselo nei pantaloni cargo della sua tuta blu dell’Italgas e si mette anche lui a sedere e ci mettiamo tutti a sorbirci il caffè mentre guardiamo il Granata e il Granata guarda noi. Esordisce l’Arabo, dicendo: allora queste tubature di cui le abbiamo parlato ieri al telefono, dottor Granata.
Il dottor Granata è un egittologo omosessuale di 85 anni, con lo sguardo molto simpatico, e simpatico vuol dire che ti viene voglia di farti dare un paio di dritte su come stare al mondo, ti viene questa voglia non appena ti guarda con il suo sguardo, anche se subito dopo capisci che è inutile farsi dare delle dritte dal Granata perché guardi la sua casa che, benché sia piena zeppa di libri, questi libri sono impolverati e impilati dappertutto sul pavimento e mentre parla il Granata dà calci a questi libri che stanno per terra come se fossero il suo passato e probabilmente non sono altro che il suo passato, e per la noncuranza e la debolezza con cui li calcia si intende che questo suo passato, questa sua lunga vita, è andata piuttosto male, ma che lui ha comunque molta nostalgia.
E il dottor Granata subito l’interrompe all’Arabo, con il suo sguardo vispo malgrado la puzza.
Voi non siete dell’Italgas, ragazzi, io questo lo so benissimo.
Ah signor Granata, lei lo sa. E cosa siamo allora?, fa l’Usuraio con il suo sorriso sardonico a cento denti da Usuraio medioevale.
Sicuramente non siete qui per truffarmi, sennò non vi avrei fatto entrare.
E bravo vecchio! esclamo io che sono un cafone, e gli altri però mi azzittiscono con due occhiate spaventose.
Noi siamo qui per disannoiarla, signor Granata, riprende l’Usuraio. Sappiamo che lei è una persona di una certa caratura intellettuale, sappiamo della sua straordinaria vita, degli anni della guerra partigiana e degli anni come egittologo in Egitto. Disannoiarla vuol dire che noi adesso ci mettiamo seduti qui dove stiamo seduti e lei ci racconta delle cose.
E come fate a sapere tutta ‘sta roba, di grazia? chiede il Granata mentre titilla il manico della sua tazzina.
Abbiamo i nostri informatori… fa misterioso l’Usuraio, ma stavolta il suo tono mi fa davvero incazzare e allora lo interrompo e continuo io.
Lasci stare l’Usuraio dottore, semplicemente abbiamo letto i suoi racconti sull’Egitto che ha pubblicato e sappiamo che lei scriveva le voci per l’enciclopedia, belle voci scritte in perfetto italiano e piene di belle storie. Quindi siamo venuti qui per disannoiarla. Lei non merita la noia, dottor Granata. La prego, ci racconti qualcosa, noi siamo tutt’orecchie.
Ma cosa ne cavate, voi ragazzi, da tutto questo?
L’unica cosa che ci potrebbero cavare tre sfigati come noi, rispondo io, anzi solo uno, perché quello che sta scrivendo questo racconto in cui è riportato il nostro incontro è solo uno, e cioè io. Le sue storie mi servono per il mio racconto, che scriverò con questo stile che oggi va molto forte, “stile cannibale” lo chiama mio zio psicoterapeuta, stile con frasi tipo “tre disperati come noi” e “psicoterapeuta”, e “digrignare i denti” e con personaggi chiamati con nomignoli come “l’Usuraio, l’Arabo, la Cardiologa”. Poi questo racconto lo pubblicherò su una rivista online per cercare di essere notato da un editore.
Mi sembra un piano veramente mal congegnato, mi dice il Granata, e gli altri sghignazzano. Io rimango serio, perché ci mancherebbe porco dio sarò almeno a 18.000 battute vedi un po’ se mollo proprio adesso.
E allora il Granata racconta, e ci racconta tutta la storia della sua vita. Nel giro di un paio d’ore ce la racconta tutta. E cioè non ci racconta niente, perché che vuoi raccontare in due ore di 85 anni di vita, tranne lo splendido amore vissuto con l’aiutante che lo aiutava a scavare in Egitto, in un’estate degli anni ’60, e il fatto che si amavano di nascosto in un gazebo dove tenevano gli attrezzi per gli scavi, e che lui gli traduceva in egiziano le poesie di Ungaretti e gliele leggeva mentre l’altro scavava in cerca di cocci sotto il sole brutale; e poi ci racconta di quando la famiglia l’aveva convinto, la sua famiglia di Bologna, a sottoporsi all’elettroshock per via della sua malattia dell’omosessualità, e di come lui amava così tanto la sua famiglia da decidere di sottoporsi alla cura e non sto qui a riportarti le parole esatte che ci disse il Granata perché non le ricordo e perché non sono capace. Piuttosto ciò che più contava del racconto era l’espressione che faceva mentre raccontava, che da come era stata rilassata e giovanile mentre raccontava dell’aiutante adesso era attraversata dagli stessi spasimi terribili che l’avevano sconvolta durante l’elettroshock.
L’Arabo tira la sua Toyota a più di cento orari, brucia tutti i rossi e in pochi minuti mi porta sotto casa della Cardiologa. Eleonora si chiama lei, questa persona che penso di amare anche se chiaramente non è vero, la desidero perché si nega, come nei peggiori cliché.
Ma scusa non hai da scrivere il discorso per il funerale di tua zia?, mi chiede l’Arabo, e io gli darei pure ragione, se non fosse che devo fare sesso con la Cardiologa per scaricare la tensione, e lei anche deve fare sesso con me per scaricare la sua. Così li mando tutti e due a fanculo, l’Arabo e l’Usuraio, e gli dico a domani. E loro: ma domani non ci sarà, il tuo racconto finisce tra qualche centinaio di battute e noi spariamo alla fine di questa frase.
Come darvi torto ragazzi?, gli faccio io, e li saluto, anzi no non li saluto perché si sono già dileguati nell’orrendo nulla che c’è alla fine di ogni testo.
Piuttosto citofono alla Cardiologa e la Cardiologa mi risponde subito ma mi fa stare qualche minuto fuori da casa sua ad aspettare. Senza motivo, così, poi mi chiama dalla finestra e io entro.
Insomma facciamo sesso e quando abbiamo finito le stringo la testa e la guardo negli occhi grigi e lei non mi dice niente e nemmeno mi sorride e nemmeno io dico niente e poi mi alzo di fretta e vado a prendere una poesia che le ho scritto e gliela leggo e lei non mi dice niente e nemmeno mi sorride. Forse neanche esiste. Torno sul letto, e lei prende ad accarezzarmi. Penso alla zia, morta per un’operazione all’aorta venuta male, a mio zio che mi aspetta a casa perché non sa cucinarsi e gli devo cucinare io. Magari stasera ci facciamo una pizza, penso. Grazie, mi dice intanto la Cardiologa. Grazie a te. E poi come vuoi che finisca, lettore.
Finisce così: mi annoierò, temo, entrerò in depressione, e non sarò mai più così felice come quando mi renderò conto, sdraiato nella tua stanza, stordito dal tuo odore, che la depressione è dolce, è un rimedio antico, non fa ricerca, non stordisce i sensi, solo ti uccide.