Traduzione di Francesca Regni
Ritornò a Madrid con dieci rullini di fotografie, alcuni foulard di Soho, qualche anello, pantaloni a fantasia scozzese, biscotti, occhiali da sole, una maglietta bianca con un disegno invernale e la scritta Snowing in London, alcuni libri acquistati da Dillon’s, barattoli di marmellata e confezioni di tè, una valigia che le ruppero in aeroporto e per la quale fece un reclamo in cui dovette dichiarare dettagliatamente tutto ciò che conteneva: francobolli, tazze, scatole di cioccolatini, carta da regalo, cinque CD, riviste e un bambino.
In quel periodo si occupava di scrivere e illustrare libri da viaggio nei quali includeva le sue stesse fotografie e, quando il bambino aveva quasi un anno, decise che con i soldi guadagnati per il suo ultimo lavoro di aggiornamento della guida di Londra, insieme a quelli che avrebbe ricavato dall’affitto del suo antico appartamento, avrebbe potuto trasferirsi in un appartamento più grande e, soprattutto, in un quartiere dove nessuno avrebbe chiesto niente e sapesse chi fosse. E così fece. Non ci pensò due volte, perché per realizzare il piano che aveva in mente doveva essere sola con il bambino, completamente sola. Gli altri tendono a giudicare su temi che non comprendono. Giudicano, danno consigli, criticano, fanno considerazioni… E il suo progetto era senza dubbio immorale. Strano. Socialmente riprovevole, per giunta. Dunque doveva mantenere il segreto più assoluto per raggiungere una personalità pura, completa e unicamente intellettuale, libera dai nocivi contatti con il resto dell’umanità.
Dopo alcuni anni, l’unica relazione che il bambino Jason aveva con il mondo avveniva tramite lei, i libri, la musica e alcuni programmi televisivi accuratamente selezionati. Gli era permesso solo di vedere telegiornali, programmi culturali e qualche film di particolare interesse. Poiché lei stessa non guardava nient’altro, non fu difficile per il bambino conformarsi alle direttive della madre, dato che si produsse in lui un processo di mimetizzazione molto più sviluppato del normale. Il bambino non ebbe altro genitore da imitare, se non Elena Ocampo. Non ebbe professori dai quali acquisire linee di condotta o abitudini. Nemmeno ebbe la possibilità di giocare con altri bambini, perciò non conosceva la fatica dello spossamento fisico, quando si perde una partita di calcio o quando non si vince nelle staffette, tanto meno sperimentò le sensazioni di amore-odio per gli studenti più grandi, che,per certi versi, sostituiscono la figura, altrimenti troppo invadente, dei genitori. Per tutte queste ragioni Jason imitava solo Elena Ocampo, e tutto ciò che lei faceva lo faceva anche lui nella maniera più spontanea possibile, perché era ciò che aveva visto da quando era nato: leggeva mentre preparava la tavola e ascoltava la musica classica mentre si toglieva i calzini.
Il bambino Jason aveva un viso eccezionalmente pallido e dei modi di fare assolutamente lenti, pesanti e oscillanti. Non era mai stato direttamente a contatto con la luce del sole e le sue attività fisiche si limitavano a camminare per casa, prendere un libro da uno scaffale o alzarsi per bere dell’acqua. Elena Ocampo pensava che gli esercizi ginnici fossero del tutto inutili, il loro unico risultato era uno sfinimento totale del corpo da non permettere alcuna attività ulteriore e, poiché quello che lei voleva ottenere era un individuo eminentemente colto, non poteva permettersi di perdere tempo a cercare una adeguata massa muscolare. Così il piccolo Jason era magrolino e, considerati i suoi otto anni, poco sviluppato fisicamente.Se mai qualcuno avesse potuto conoscerlo in quel periodo, avrebbe detto che non superava i cinque anni, e avrebbe anche percepito immediatamente un’estrema somiglianza con Elena Ocampo in tutti gli aspetti: i movimenti, i gesti, la voce, la maniera di prendere le posate mentre mangiava, i libri mentre leggeva, i quaderni mentre scriveva…Si sarebbe potuto dire che tra i due si manteneva una relazione quasi teatrale: Elena recitava, pianificava, interpretava il suo ruolo di professoressa-madre e Jason apprendeva, reagiva e imitava.
Lei sapeva che se si fosse scoperto che suo figlio Jason non andava e non era mai andato a scuola, la cosa sarebbe potuta degenerare in tragedia. In un modo o nell’altro sarebbero riusciti a trascinarlo in una qualsiasi aula piena di bambini vestiti tutti allo stesso modo e trattati tutti alla stessa maniera. E questo nonostante non si sapesse in che corso inserirlo, visto il suo livello accademico– ovviamente molto superiore a quello che ci si aspettava per la sua età –, e nonostante i professori si sarebbero sentiti sovrastati dall’infinita pioggia di domande mordaci che Jason avrebbe posto loro costantemente. Per quanto riguarda Elena Ocampo, forse avrebbe perso la custodia del bambino. Forse avrebbe perso il suo lavoro… Allo stesso tempo,però, era consapevole del fatto che valeva la pena correre ogni rischio solo pur di vedere, come Jason stesso dimostrava, che un’educazione ben indirizzata poteva dar vita a geni, forse un po’ asociali, però senza dubbio geni. La vita che si sviluppava in gruppo era solo la consolazione immediata per quelli che non riuscivano a trovare soddisfazione in loro stessi e per questo dovevano cercarla negli altri. Elena Ocampo voleva indirizzare la creatività del piccolo fino a portarla al di sopra dei pregiudizi e così mostrarla in tutta la sua autenticità.
La verità era che aveva sempre voluto raggiungere una qualche immortalità. Adesso lavorava in televisione. Faceva la presentatrice di un programma dedicato al turismo rurale, cosa che supponeva in qualche modo l’aver ottenuto una certa permanenza, effimera forse, ma pur sempre reale.Ci aveva già provato molte volte: aveva cercato disperatamente di credere in qualche religione, però non c’era mai riuscita. Volle emigrare in Tibet. Volle conoscere Paul Bowles. Volle inventare qualche oggetto rivoluzionario o scoprire qualcosa che implicasse un grande passo in avanti per l’umanità…Finché un giorno, a Londra, scoprì di essere incinta, e perciò smise di cercare la sua eternità per cominciare a proiettarla sul futuro bambino che sarebbe stato suo figlio Jason. Sarebbe diventata lei stessa infinita attraverso la grandezza di lui. Con questa idea in mente, cominciò l’elaborazione di un progetto formativo fatto su misura per il bambino. Avrebbe creato un metodo educativo speciale e infallibile che avrebbe incluso, tra gli altri, quello di ordinare alle infermiere che, durante il parto, le mettessero musica classica molto vicino al letto e a un volume abbastanza moderato,affinché il bambino sentisse una qualche continuità tra quello che aveva ascoltato per mesi dentro di lei e quello che avrebbe continuato ad ascoltare una volta fuori. Lo fece anche con la volontà di ridurre l’impatto creato dall’espulsione. Molto presto cominciò a cullarlo leggendo a voce alta opere di Gide, Proust, Tolstoj o Woolf. Decorò la sua cameretta con stampe, cartoline e fotografie di Modigliani, Gauguin e Monet. E nemmeno a pensarci di cominciare a parlare con suoni tipo “mamma” o “gioco”– lei volle da sempre farsi chiamare Elena –bensì con parole come “latino”, “libro”, o “Parigi”. In fin dei conti, non c’era troppa differenza tra la pronuncia di “mamma” e quella di “manna” o tra “gioco” e “fioco”. Dal suo punto di vista, insegnare come prima parola qualcosa di così semplice come “mamma” era una perdita del potenziale ricettivo di una mente vergine.
Elena Ocampo si muoveva un po’ inquieta sul sedile posteriore del taxi. Il tassista dedusse che si trattava di impazienza:«Non si preoccupi signorina. Stiamo già superando l’incidente. Guardi lì,che botta! Sicuramente ci saranno feriti… Non glielo stavo dicendo proprio ora? Non mi stupisco affatto, con questa pioggia…»
Lei fissò lo sguardo su quella massa immobile stesa per terra e non smise di guardarla finché il taxi non avanzò abbastanza da perderlo di vista. Quelle luci rosse e quelle luci azzurre. Quegli uomini che cercavano di aiutare altri uomini. Uomini che davano informazioni, che scrivevano… Sarebbe arrivata una gru, avrebbero tolto l’auto, avrebbero cancellatole macchie di sangue, avrebbero fatto sparire i vetri e lì, dopotutto, sarebbe stato come se non fosse successo nulla. Un uomo morto, forse di trentacinque anni, scapolo o forse sposato, avvocato o architetto o arredatore d’interni… Elena Ocampo non aveva mai parlato della morte con suo figlio, però dava per scontato che i libri gli avessero già insegnato qualcosa al riguardo. La morte era un tema costante nella letteratura. Come la guerra o l’amore. Nei telegiornali generalmente non si parlava d’altro, e anche nell’arte c’erano moltissime rappresentazioni di esseri morti. Inoltre lei sapeva che Jason possedeva già le nozioni elementari, perché più di una volta lo aveva sorpreso mentre imitava qualche scena violenta. Niente di serio in realtà. Un giorno lo aveva trovato sotto la luce della lampada della sua stanza da letto, con immense lacrime intorno al viso e il braccio sinistro bagnato di sangue.
Quella stessa sera, dopo mangiato, avevano visto un film sulla guerra. Elena gli si avvicinò e i due osservarono il flusso rosso per un istante.
«Ti fa male?» gli chiese lei.
«Un po’» disse il bambino tremando.
«Io credo che quello che ti succede è che hai paura. Ti fa paura il sangue, vero?»
Jason sollevò la testa, guardò sua madre e non rispose. Continuò a tremare finché Elena Ocampo non finì di curargli la ferita.
Giunta sotto casa, scese dal taxi e disse al tassista di tenere il resto. Una volta nell’ascensore, cominciò a cercare le sue chiavi. Le aveva in qualche posto nella sua borsa, però, dato il gran disordine che vi regnava,non le trovava mai facilmente,. Uscì dall’ascensore, percorse il breve corridoio che portava a casa sua e, quando aprì la porta, notò che stranamente non c’era musica. Il bambino non era nemmeno andato ad accoglierla e Elena cominciò a chiamarlo. Non ricevendo risposta, percorse la biblioteca, la cucina, il lunghissimo corridoio, e lo trovò, infine, nella sua stanza. Jason era pallido, piccolo e magro come sempre, però, in aggiunta, aveva di nuovo le mani piene di sangue e cercava di nascondere un cucchiaio di un rosso opaco sotto la poltrona che lei utilizzava per appoggiare i libri che stava leggendo. Questa volta si era fatto male a una gamba e Elena Ocampo lo aveva trovato terrorizzato, mentre cercava di fermare il flusso di sangue che scorreva lentamente verso le caviglie. Gli si avvicinò e domandò:
«Hai intenzione di rifarlo spesso? Questa cosa diventerà un’abitudine?»
Il bambino non rispose e Elena uscì un attimo dalla stanza per tornare con garze e acqua ossigenata.
«Mi piacerebbe che me lo dicessi in modo da prepararmi e non spaventarmi così tanto ogni volta che torno a casa. Se pensi di continuare a procurarti delle ferite, fammi il favore di dirmelo adesso perché ti assicuro che non è affatto piacevole tornare a casa e trovarti coperto di sangue.»
Suo figlio Jason continuava a tremare senza dire una parola. Fece dei gesti di dolore quando sua madre gli versò l’acqua ossigenata sulla gamba, però non si lamentò e lei agì comunque con la massima freddezza.
«Immagino che bruci, ma questo non è niente. Niente, paragonato a quello che ti può accadere se continui a farti questo tipo di cose.»
Smise di curargli la ferita, si alzò e prese da uno degli scaffali tutti i libri che riuscì a contenere con entrambe le braccia. Poi li lasciò cadere vicino al bambino e, tornando a inginocchiarsi vicino a lui, disse:
«Se continui a farti male è probabile che morirai prima del previsto e quindi mi sembra che tutto questo –Elena indicò i tanti libri sparsi per terra – non servirà a niente.»
Il bambino continuava a tremare.
«Tutto ciò che hai imparato sparirà con te e tutto lo sforzo fatto non sarà servito a niente.»
«Non mi importa» disse a bassa voce.
Elena cominciò a curargli la ferita di nuovo.
«Ah, è così, non ti importa…»
«No.»
«E se ti dicessi che a me invece importa tantissimo? Cosa diresti?»
Aspettò che il bambino dicesse qualcosa, però suo figlio non rispose.
«Non ti interessa il fatto che a me invece importi eccome? Rispondi.»
Il bambino continuava a stare in silenzio, con la testa affondata tra le spalle, e lei cominciò ad accarezzargli i capelli.
«Io voglio che tu sia il migliore, il più intelligente. Voglio che lasci tutti di stucco quando uscirai da casa.»
Il bambino Jason allora alzò la testa:
«Non voglio che resti da sola se io muoio» mormorò.
Elena sorrise. Non capiva cosa volesse dire, però sorrise.
«Io sarò sempre con te, vita mia»gli disse.
«Non voglio che resti da sola se io muoio.»
«Tu no morirai. Studierai e continuerai a imparare cose nuove e sarai il bambino più intelligente del mondo. Tutti gli altri sapranno chi sei e ti ammireranno e ti invidieranno.»
Lei sorrideva confusa mentre guardava gli occhi quasi assenti del figlio che, nel frattempo, aveva preso l’acqua ossigenata dalle mani di lei e che ora si versava il liquido sulla ferita senza riguardi, senza paura, né tremolii.
«Non voglio che resti da sola…» ripeté il bambino Jason senza aver ascoltato una sola parola di ciò che Elena Ocampo gli stava dicendo.
In quel momento lei sgranò gli occhi e capì.
***
Francesca Regni ha studiato Conservazione dei beni culturali e Storia dell’arte contemporanea a Bologna, e si è specializzata in Creazione Letteraria, Scrittura narrativa e Traduzione Letteraria a Barcellona. Nel 2006 viene selezionata dal MACBA di Barcellona per un progetto curatoriale e di critica d’arte, dal quale nasce, nel 2009, la pubblicazione per la mostra Archivo Universal: La condición del documento y la utopía fotográfica moderna. Da allora vive a Barcellona. Nel 2012 intervista la scrittrice e traduttrice, Pilar Adón, premio Nuevo Talento Fnac, 2010 e Finalista del Premio de la Critica, 2010. Nel giugno 2013 pubblica nella sezione Cultura, del quotidiano La Vanguardia, ed è in procinto di terminare la traduzione di La Mirada Italiana, del cattedratico di storia moderna, Joan-Lluís Palos, per l’università di Barcellona.
Crediti: Ringraziamo Pilar Adón per averci concesso il diritto non esclusivo di tradurre in italiano l’inedito “Madre Medea”, da Viajes inocentes, Páginas de espuma, 2005 (antologia).
L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione