E poi c’era Mamma.
Mamma viveva in una di quelle baracche vicino ai campi.
Se da Lucca andavi verso Siena, superate le terre dei Lucenti e presa la svolta per Crosta ci arrivavi tipo in due ore: la sua casa si vedeva bene perché era isolata e poi fuori c’erano sempre dei vasi e dei fiori.
Se andavi a trovare Mamma dovevi stare attenta perché prima di casa sua c’erano dei capannoni; lì ci vivevano quei bambini a cui erano cresciuti i peli e gli artigli, io li chiamavo i bambini lupo – non so bene perché erano così, se si erano inselvatichiti oppure se a un certo punto avevano iniziato a cambiare. Non erano cattivi, però si diceva che delle volte avevano aggredito altri ragazzini, oppure quei vecchi che venivano a lavorare i campi prima che diventassero tutti puzzolenti e fangosi.
Mamma comunque era grassa, grassissima, portava sempre una maglietta rosa da cui le sbucava la pancia, era negra con la pelle scurissima che sul viso però diventava un pochino più chiara. Le nigeriane le gestivano quei papponi grossi con i denti di ferro, però Mamma non la gestiva più nessuno, l’avevano lasciata andare perché lavorava male e rispondeva sempre, e poi con lei guadagnavano poco e allora la pestavano e la violentavano e basta.
Quando raccontava dei papponi, Mamma digrignava i denti e mostrava le sue zanne bianche così grosse che se ti mordeva ti poteva staccare un braccio o squarciare la gola. Mamma li odiava i papponi, e tante volte per farti capire quanto li odiava ti faceva vedere quei segni sulla schiena e poi la cicatrice sul pube di quando uno l’aveva accoltellata vicino alla fica.
Dopo che l’avevano liberata, Mamma era riuscita a farsi i suoi clienti da sola e tutto le andava meglio perché nessuno la picchiava, la accoltellava e la stuprava più, e soprattutto, diceva, i soldi se li teneva tutti per lei.
Da Mamma ci andavano vari tipi di clienti: c’erano quelli che amavano le ciccione, oppure quelli che avevano pochi soldi e allora andavano da lei per spendere meno e sborrare lo stesso, c’erano quelli che si facevano sedere addosso, e anche quelli che gli piaceva quando mamma spalancava la sua fica enorme e gli pisciava in faccia.
Alcuni capitavano per caso, altri tornavano spesso, per esempio c’era un signore che veniva una volta alla settimana, le montava in braccio e le succhiava le tette, lei lo cullava e gli raccontava delle storie africane, storie di spiriti e di spiritesse. Con gli altri ragazzi ci mettevamo lì alla finestra e ascoltavamo, si sentiva la voce di mamma e poi quel succhiare, un succhiare bello che sembrava di averlo in bocca. A volte mi affacciavo e allora vedevo l’uomo con questi enormi capezzoli scuri tra le labbra, succhiava, succhiava, un pochino li mordicchiava, mamma gli carezzava la testa, continuava a raccontare.
Quando alla fine l’uomo se ne andava via lo vedevi calmissimo, però anche triste, gli occhi gli diventavano lucidi e sembrava che ricordasse qualcosa di quando era piccolo e che quella cosa gli mancasse tantissimo.
A Mamma le piaceva mangiare, specialmente schifezze, merendine, cose colorate oppure di cioccolata.
Le merendine piacevano tanto anche a me ma ne dovevo mangiare un po’ meno perché i denti mi erano tutti marciti e uno davanti e uno dietro mi erano già caduti mentre gli altri erano verdi e alcuni anche neri!
Questo non mi impediva però di avere sempre una scorta di dolci e di riempirci i cassetti e quegli spazi segreti sotto le mattonelle della casa dove vivevo con gli altri.
Per fare i miei rifornimenti andavo spesso a Crosta e a Crosta entravo in quel market dove ci lavorava un vecchio cinese, compravo un pacchetto di scingomme e nei pantaloni infilavo il mars e gli snickers – mi dispiaceva sempre rubare, mi sentivo in colpa e l’emozione dei primi furti era finita da un pezzo, però non avevo soldi e nessuno che me li prestasse, e poi secondo me il vecchio cinese aveva capito, e se non mi aveva mai fatto niente voleva dire che alla fine gli andava bene.
Quando arrivavo da Mamma lei ci metteva tantissimo a aprire, era lenta ad alzarsi e quando si alzava sentivi un rumore che sembrava la voce di una balena o di un elefante, quando poi arrivava alla porta sorrideva con quelle zanne e mi toccava tutta da tutte le parti e mi faceva il solletico, io ridevo e facevo sempre finta di non avere niente ma lei lo sapeva che le avevo portato i dolcetti e ovunque li avessi nascosti riusciva ogni volta a trovarli.
Aveva come un senso speciale, un potere, era strano perché aveva le dita grosse e le braccia così gonfie che i polsi non si vedevano nemmeno, ma quando ti cercava diventava abile, veloce più del suo corpo, doveva essere una cosa che aveva imparato facendo la puttana, aveva imparato a toccare.
Io e Mamma passavamo intere nottate a guardare la televisione, lei mi truccava e quando mi truccava Mamma diventavo bellissima, così bella che una volta faccia di stella non mi aveva nemmeno riconosciuta, e secondo me si era anche mezzo innamorato.
Quando poi veniva buio Mamma spesso diventava malinconica, mi diceva sempre che non dovevo fare la puttana, mai. Nemmeno se morivo di fame, nemmeno se non mi rimaneva più niente e rimanevo solissima. Mi diceva di trovarmi un uomo che mi avrebbe protetta, o meglio ancora di diventare così forte da proteggere tutti io, anche lei, che non si sapeva mai.
Un giorno andai da Mamma per portarle una merendina nuova, era una cosa incredibile e gigante, con quattro strati di mou e il pralinato da tutte le parti e poi gli smarties. Quando bussai mi resi conto che la porta era mezza aperta. Non volevo entrare perché magari aveva un cliente, fuori l’aria era fredda però soffiava un vento tiepido che mi muoveva i capelli sul viso e prudeva.
Aspettai un attimo provando a sentire tipo il suono di un pompino, o quel ciaf ciaf del culo e delle tette di Mamma che sbattevano: un po’ perché ormai ero lì, un po’ perché non sentivo niente, alla fine entrai dentro, tipo quelle cose che fai anche se non dovresti e poi succede una cosa bruttissima.
Sono io, dissi. E fu come se due copie di me mi dicessero le cose dentro alle orecchie, una a destra e una a sinistra e poi facessero tipo il suono dei passi con la bocca e il frusciare della merendina e anche la televisione e il libeccio fuori che era caldo e un pochino puzzava.
Mamma, dissi ancora, e poi mi avvicinai.
Mamma era seduta sul divano, tutta affondata dentro con il culo che toccava quasi per terra. Aveva la testa poggiata contro lo schienale e piegata tutta all’indietro, e poi aveva la gola aperta. Era proprio aperta, si vedeva il dentro, della roba rosa e poi rossa, dei grumettini nerastri, e un pezzettino di osso. Il sangue le colava sopra la pelle scura e quasi non si vedeva, sembravano quelle perline di sudore che aveva sempre addosso, oppure quelle macchie che le venivano sotto le tette giganti.
Mamma, dissi. Ho una cosa per te. Però lei non si alzò a farmi il solletico, allora tirai fuori la merendina dalle mutande.
Guarda qua, dissi. Forse puzza un pochino però leggi qua… ultracioccolata col mou.
Il suono della confezione sembrava fortissimo, mi fece male alle orecchie.
Mi misi a sedere accanto a Mamma, detti un morso alla merendina, poi gliela misi in bocca anche a lei, fui costretta a muoverle la mascella per fargliela masticare.
Le lacrime si erano tutte gonfiate dentro gli occhi e bruciavano, però io non piangevo, cioè non facevo quei rumori e quei lamenti che fai quando piangi, piangevo tipo col corpo e tutto quello che usciva erano dei saltellini e qualcosa come il singhiozzo.
Avvicinai la mia mano alla sua, gliela presi, era così grande che praticamente le potevo stringere solo un dito e un pezzettino del palmo.
Quella notte commentai il quiz. Poi le raccontai di Faccia di stella, e poi le dissi che aveva ragione e glielo promettevo, che piuttosto che fare la puttana mangiavo la terra o morivo.
Dopo il quiz dettero un film dell’orrore, di quelli che non fanno paura a nessuno con i mostri di gomma e gli eroi con la fascia ai capelli e le giacche di jeans smanicate. Poi dettero la replica di una cosa di amore che sapevo che a Mamma piaceva, la guardammo insieme, la stanza sembrava più buia del solito, fuori dalle finestre il mondo, la notte, erano diventati completamente neri.
La mattina Mamma era dura, le sue mani caldissime ora erano gelate e anche la sua pelle non era più bella e lucente come era prima, era sbiadita e tendeva al blu e al bianco.
Per portarla fuori di casa dovetti chiamare Faccia di stella, Brodino e Vampiro, ma non ce la facevamo lo stesso e allora vennero anche quei transessuali che vivevano vicino a me e addirittura uno dei bambini lupo disse che la conosceva e ci voleva aiutare. Era fortissimo e quando la afferrava le lasciava dei segni dentro la pelle con gli artigli, segni neri che affondavano dentro e poi zampillavano una roba che era tipo sangue ma era già tutta coagulata e dura.
Lo guardai e mi accorsi che vicino agli occhi il ragazzino lupo aveva la peluria tutta bagnata, doveva volerle bene davvero anche lui.
La cosa più complicata era farla uscire dalla porta perché dentro c’erano così tante cose che non ci muovevamo e poi Mamma era pesantissima e enorme più di quanto sembrava. A un certo punto pensammo pure di portarla via con il divano e tutto, però alla fine riuscimmo a staccarcela e poco dopo a farle attraversare la porta.
La seppellimmo in quel campo dove delle volte nascevano quei fiori che morivano subito ma lì per lì erano bellissimi. Al funerale eravamo io, il cliente di Mamma, Faccia di Stella e il bambino lupo.
La terra gliela mise addosso il cliente, prima di sotterrarla però la abbracciò fortissimo, poi lo staccammo noi perché singhiozzava così forte che sembrava un bambino e ci faceva malissimo e non ce la facevamo più.
Mentre eravamo lì a pensare a cosa bisognava dire arrivò anche un omone con un cappotto lungo e i tatuaggi in faccia. Era un africano con gli occhi cattivi ma dentro ci sguazzavano anche delle altre cose. Lo guardai un po’ e poi capii che quello lì era il pappone, quello che Mamma lo odiava.
Lei non ce lo voleva al funerale e se fosse stata viva secondo me si sarebbe arrabbiata tantissimo, pensai di mandarlo via, pensai di dargli un calcio e poi morderlo fortissimo o di azzannargli la gola fino a staccargliela. Però alla fine non riuscii a fare nulla, mi sentivo male, mi veniva da vomitare e sapevo che non sarebbe cambiato un bel niente.
Allora mi schiarii la gola, feci un passo avanti e mi misi a parlare.
La mia voce era lontanissima però secondo me mi usciva davvero dal cuore, io a Mamma gli volevo bene, anzi io mi sa che la amavo, dissi. Mamma amava la cioccolata e le merendine, amava anche i fiori, anche secchi, e poi i programmi con i quiz che li indovinava sempre lei.
Mamma poi odiava le ingiustizie, odiava la tristezza e odiava anche i papponi, questo lo dissi lanciando uno sguardo all’omone. E poi odiava anche gli insetti, però non li ammazzava mai perché diceva che magari era l’anima di qualcuno che conosceva e anche perché forse era troppo buona.
Per un attimo mi impallai, poi ricominciai a parlare.
L’aveva detto che le puttane finiscono sempre così, che prima o poi trovi il cliente sbagliato e quelle cose lì che diceva, però lei non era una puttana qualsiasi, lei era Mamma… e… comunque Mamma ora non c’è più, era così… grande che non pensavo potesse morire, e io, io adesso non so cosa fare, dissi. E poi non mi riuscì più di parlare e la bocca mi si seccò tantissimo e pensai che forse era stato un discorso stupido.
Cadde di nuovo il silenzio e allora restammo lì tutti insieme davanti a quella fossa di terra, la croce di legno che pendeva un pochino, la scatola di merendine che le avevo lasciato io che ogni tanto frusciava smossa dal vento e per qualche motivo mi faceva arrabbiare.
Pensai tantissime cose, pensai di uccidere il pappone perché magari era stato lui o che comunque lo dovevo ammazzare lo stesso, poi mi venne in mente che forse dovevamo cremarla perché se stava là sotto la mangiavano i vermi, pensai alle sue labbra, alle sue tette, alla pancia grandissima. Me la immaginai tutta ossa, mezza rosicchiata con il torace gigante e un verme che le esce da un occhio, allora scattai in avanti, mi buttai in terra perché all’improvviso mi sentivo scoppiare e la volevo abbracciare, cominciai a scavare con le mani, a gridare, gli altri mi presero per le braccia, cercarono di calmarmi anche se graffiavo e scalciavo, a Faccia di stella gli feci uno squarcio sotto la palpebra che se gli prendevo l’occhio glielo cavavo, gli detti uno schiaffo, lo morsi, poi lo abbracciai fortissimo perché non mi reggevo più in piedi, gli caddi addosso e in quel momento sentii il cuore diventare grandissimo, riempirsi tutto, diventare stracolmo fino a far male.
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Immagine di copertina: frame da Fritz the Cat (USA, 1972) di Ralph Bakshi.