La Marple Private Hospital è una clinica privata in Svizzera. È tutto bianco, alla Marple Private Hospital. Fuori dalle finestre si vedono montagne bianche e innevate; i medici e le infermiere hanno camici bianchi, pantaloni bianchi, pantofole bianche e sorrisi bianchi, e hanno anche la pelle particolarmente bianca; i muri della clinica sono bianchi; i pavimenti sono bianchi; i letti e le coperte e le lenzuola sono bianchi. È tutto bianco, pressappoco. E ciò che non è bianco è luminoso, per via del bianco che c’è intorno. Anche le luci sono bianche.
La Marple Private Hospital è una clinica privata che si occupa esclusivamente di sperimentazione. Non è un vero ospedale, è più che altro un centro per studi clinici – che qui chiamano trial. Non devi necessariamente essere malato per partecipare ai test, anzi, in certi trial è richiesta la presenza di soggetti clinicamente sani e questo per avere un confronto degli effetti dello stesso farmaco su soggetti clinicamente eterogenei. In alcuni casi, un farmaco può essere commercializzato per diversi scopi, a seconda dell’organismo con il quale interagisce. Lo stesso farmaco, per esempio, può curare o stimolare determinate funzioni a seconda della situazione clinica di chi lo utilizza.
Il Galvion è uno di questi. È una pasticca rossa a base di metilfenidato che sollecita il rilascio di dopamina e norepinefrina e feniletilammina. Ha effetto sull’amigdala e sull’area tegmentale ventrale. Il Galvion agisce a livello neuronale e grazie alla sua struttura chimica è in grado di adattarsi all’ambiente nel quale opera. È questa la sua caratteristica principale: la sua capacità di adattamento. Se il trial clinico della Marple Private Hospital dovesse avere successo, il Galvion verrebbe commercializzato come farmaco stimolante polifunzionale per patologie umorali-emotive.

La Sala del Focus Group della Marple Private Hospital è una sala lunga e stretta. Al centro della sala è posizionato un lungo tavolo lucido in legno di faggio. Il soffitto – come in tutte le sale della Marple Private Hospital – è ricoperto da pannelli per controsoffitti Total Acoustics in grado di assorbire e isolare l’acustica delle stanze e alleviare il riverbero sonoro delle voci. I controsoffitti sono di colore pomice e presentano una superficie bucherellata che effettivamente dona ai pannelli una parvenza visiva di capacità d’assorbimento – come la carta a rilievi regolari e disegni geometrici dei rotoli di scottex. Intorno al tavolo ci sono otto sedie dallo schienale reclinabile e i braccioli ergonomici in plastica gommosa – una per ogni metro di lunghezza.
Il tavolo si estende a partire da un grosso telo da proiezione in PVC plastificato e termina in prossimità degli appendiabiti posizionati contro il muro opposto. Un proiettore Samsung EB-L1300U pende dal soffitto a metà sala, incastrato tra due lunghe lampade al neon. Quattro caraffe d’acqua sono posizionate a distanza regolare l’una dall’altra, ognuna ad approvvigionare un segmento di tavolo. Otto bicchieri di vetro cilindrici sono disposti simmetricamente ai due lati del tavolo – quattro da una parte e quattro dall’altra, in coincidenza con la sedia di riferimento. Chi si trova seduto a metà strada tra una brocca e l’altra può scegliere a quale brocca rifornirsi, magari scambiando un cenno d’intesa con la controparte che gli siede dirimpetto, per evitare disparità di abbeveraggio tra l’una e l’altra brocca.
Di là dalle finestre in vetrocamera dagli infissi in polivinilcloruro e strisce di silicone rappreso, si scorge l’orizzonte frastagliato delle montagne svizzere.
Io sono seduto in posizione mediana sulla terza sedia del lato sinistro del tavolo. Di fronte a me c’è Frida, una ragazza dai capelli celesti che mastica un chewing gum rosa. Ha il viso a cuore e la pelle cremosa. Guardarla mi provoca una sensazione di piacere che aumenta i livelli di serotonina. La serotonina è un neurotrasmettitore importante nella cura dei disturbi umorali. È importante guardare Frida, per me. Cerco di non perdere mai il contatto visivo. Non è difficile rintracciarla, per via dei capelli celesti.
Parliamo spesso, io e Frida. Lei viene da Milano e rientra nella categoria di pazienti clinicamente sani. L’unico disturbo che ha è quel chewing gum rosa che continua a masticare, lo mastica rumorosamente e i movimenti della mandibola sono accompagnati da un fcià-fcià-fcià che è il suono che fa la saliva tra le gengive e il chewing gum. Spesso fa delle grosse bolle di gomma e ci soffia dentro fino a che non le si sgonfiano sulle labbra e poi si toglie quel velo raggrinzito con la lingua. È molto eccitante quando fa così.

L’effetto principale del Galvion è stimolare le emozioni. I medici dicono che quando verrà commercializzato la prima caratteristica riportata sulla confezione sarà stimolatore emotivo. Da quello che dicono i medici, io sono il soggetto principe del trial clinico perché sono emotivamente apatico: non so come siano fatte le emozioni, non so che forma hanno e non so nemmeno di che colore sono. Forse sono dei palloncini rosa come quelli che fa Frida. Io me le immagino così. Tanti palloncini rosa che si gonfiano e si sgonfiano.
Da quando è iniziato lo studio clinico sono più emotivo. Non so se è merito del Galvion o se è merito di Frida, forse tutte e due le cose, ma quando sto con Frida mi sento bene. A quanto pare, quando sto con Frida sono eccitato. All’inizio non sapevo nemmeno cosa fosse l’eccitazione. Non sapevo in cosa consistesse. Il secondo giorno alla Marple Private Hospital ho detto a Frida che stare con lei mi piaceva. Le ho detto che era una sensazione strana che non avevo mai provato. Le ho detto che mi piaceva toccarla, ascoltarla, annusarla, che mi piaceva guardarla camminare nella sua tuta bianca sterilizzata in polietilene traspirante e immaginare cosa ci fosse sotto. Lei ha sorriso, mi si è avvicinata al viso e mi ha scoppiato la bolla di chewing gum davanti al naso. Quando la bolla ha fatto pst! e si è sgonfiata ho sentito un fremito sul pene che mi è piaciuto tanto. Frida mi ha accarezzato una coscia e mi ha sussurrato qualche parola all’orecchio. «Sai cosa significa? Significa che ti eccito». Ho sentito il suo fiato caldo sulla cartilagine accartocciata dell’orecchio. Avrei voluto che si avvicinasse di più, magari con la lingua.
Quel pomeriggio, quando ho detto ai medici che Frida mi eccita, i medici hanno sorriso e hanno detto «è un ottimo segno, Paziente 2, significa che il Galvion sta facendo effetto» e poi mi hanno detto di continuare a farlo, se questo mi eccita. «Continui a guardare il Paziente 6, se questo la eccita». A quanto pare, l’interazione e lo scambio di stimoli tra paziente e farmaco è un passaggio fondamentale nella terapia. «Continui a guardare il paziente 6, mi raccomando».

Sono passati tre giorni da quando ho scoperto cos’è l’eccitazione e ora siamo tutti nella Sala del Focus Group della Marple Private Hospital e il dottor Hans Zimmermann sta chiedendo a Frida come si sente a livello umorale. Il dottor Zimmermann è un uomo dai capelli neri e un principio di alopecia e il labbro leporino e la pelle pallida che nutre un particolare interesse carnivoro per le pellicine del suo anulare destro.
«Bene» risponde Frida. «Sono parecchio rilassata».
Il medico Zimmermann annuisce e annota la risposta su un piccolo bloc-notes bianco. Poi le chiede come va a livello emotivo – che è un livello diverso, rispetto a quello umorale.
«Credo di essere leggermente sovreccitata» risponde Frida. «È una sensazione strana. È come se fosse tutto piacevole, e tutto leggero, galleggiante. Mi sembra di galleggiare in un liquido morbido e caldo. Ma è solo una sensazione. Una sensazione di conforto. E di calma».
Il dottor Zimmermann ci ha detto che è molto importante condividere le nostre sensazioni in un focus di gruppo. È per questo che esiste la Sala del Focus Group alla Marple Private Hospital. La comprensione dello stato d’animo altrui è fondamentale nelle terapie umorali: è l’anticamera dell’empatia. E l’empatia è la cosa che più ci rende umani.
Zimmerman mi guarda e mi sorride. «E lei, Paziente 2, come si sente a livello umorale?»
«Oh, bene» dico io. «Mi sento bene».
«E a livello emotivo, come si sente?»
«Bene. Anche io sono… leggermente eccitato, sì. Un po’ più del solito, sì».
«È un ottimo segno, Paziente 2. E continua a provare eccitazione nel guardare il Paziente 6?».
Frida sorride e incrocia le braccia. Inclina leggermente il collo e mi guarda negli occhi. Ha una piccola bolla rosa che si gonfia tra le labbra. È strano, ora. Sto provando una sensazione strana. Non so davvero se è strana, ma so che non l’ho mai provata. Inizio ad avere un po’ caldo. Non riesco a sorridere come vorrei. Ho il cuore che batte più forte e fa il rumore di un cuore in un’asciugatrice. Pu-pum. Pu-pum. Pu-pum.
«Sì» rispondo. «Credo di sì». Le parole mi escono fuori un po’ stridule. Non hanno il suono che vorrei. «Ora non mi sento tanto bene, però». Sento le mani sudate e la testa pesante. Sento che ho le orecchie calde. «Vorrei… Vorrei uscire un attimo» dico.
«Oh, ma certo. Prego» risponde Zimmermann, andando ad aprire la porta. «Ma sappia che questo è un gran bel segno, Paziente 2. Lei sta provando imbarazzo. E l’imbarazzo è una sensazione fondamentale dello spettro emotivo. Ora si riposi, Paziente 2».
Esco dalla Sala del Focus Group della Marple Private Hospital e sento che Frida mi sta guardando e continua a sorridere. Non so perché sorride, ma vorrei tanto leccare la sua lingua.
«Un attacco di panico» dice il dottor Zimmermann appena esco dalla stanza. «Succede spesso ai pazienti emotivamente apatici. Lo stress emotivo è molto più alto nel loro caso. È come passare da una bicicletta a una Ferrari». Gli altri pazienti annuiscono.

È passata un’ora da quando sono uscito dalla Sala del Focus Group della Marple Private Hospital. Mi hanno dato una pasticca di Valium e mi hanno fatto stendere sul divano della Sala Comune, di fronte alla televisione. Non avevo voglia di guardare la tele e così ho osservato per tutto il tempo la tuta bianca sterilizzata in polietilene traspirante che ci hanno fatto indossare il primo giorno. È un tessuto-non tessuto in polimeri sintetici dalla superficie semilucida e plastificata di materiale ipoallergenico. Ha una lunga cerniera bianca e dentellata che parte dal collo e arriva al cavallo della porzione gambale della tuta. Non è separata in due parti. Voglio dire, non è tipo una felpa con dei pantaloni dello stesso colore. È tutta unita, tipo le tute da sci. Tipo una salopette con le maniche. Essendo stampata a caldo, non presenta cuciture. Le tasche hanno una funzione relativa e più che altro accessoria – la forza peso che sono in grado di sopportare è pressoché inesistente – e sono posizionate in coincidenza dei pettorali e delle anche. Sulla tasca sinistra della porzione pettorale c’è una piccola sigla verde: MPH, che sta per Marple Private Hospital. Da quel poco che so, il polietilene è il più semplice tra i polimeri sintetici. È una resina termoplastica che può presentarsi come un solido trasparente (forma amorfa) oppure bianco (forma cristallina). Ha ottime capacità isolanti e di stabilità chimica. È un materiale molto versatile e una delle materie plastiche più economiche. Solitamente, è utilizzato come isolante per cavi elettrici, film per l’agricoltura, sacchetti di plastica, tubazioni e strati interni di contenitori asettici. So un mucchio di cose tipo queste perché leggo molto, qualsiasi roba – anche le etichette dei vestiti o le targhette degli shampoo o le scritte in piccolissimo dei farmaci. Leggere mi piace un sacco. Si scoprono un mucchio di cose, leggendo.
La Sala Comune è una grande stanza circolare. Al centro c’è un grosso tavolo rotondo in acciaio e polivinilcloruro bianco circondato da otto sgabelli bianchi foderati in finta pelle bianca. Sopra il tavolo, a pendere dal soffitto, ci sono quattro televisori Panasonic Full HD uniti ad angolo retto che formano una sorta di cubo galleggiante e iridescente. Ai lati della sala ci sono quattro divani bianchi.
Frida è appena entrata nella Sala Comune e si è seduta accanto a me che sono sdraiato. Ha la testa sopra la mia testa e il seno sopra la mia fronte. Mi sorride come fa sempre e continua a masticare la Big Babol. Ecco, ora inizia a picchiettarmi il polpastrello dell’indice sulla fronte e mi parla seguendo il ritmo cadenzato del picchiettio. «Allora-piccolo-ti-sei-imbarazzato-eh? Che-piccolo-timidone-che-sei». Io chiudo gli occhi e non dico niente. Mi piace sentire il suo dito sulla fronte. Poi sento che mi passa il palmo della mano sulla guancia e mi accarezza. E io continuo a tenere gli occhi chiusi. Poi sento un po’ di caldo e l’odore dolciastro del chewing gum. Immagino che la sua testa sia sopra la mia e chi sa perché penso a come sono fatte le emozioni, penso a quella loro forma lì – quella forma molliccia, rosata, scivolosa, bagnata, come quella di un chewing gum che si gonfia e si sgonfia. Frida ha il fiato caldo e pastoso e dolciastro e continua a respirare lentamente davanti al mio viso. Vorrei che si avvicinasse di più, ma non riesco a dire nulla e ho ancora gli occhi chiusi. Sento che si mette a ridere e una particella di saliva invisibile le vola dalle labbra e ricade sulle mie. Lei non se ne accorge nemmeno. Tira su la testa e mi passa una mano fra i capelli, me li scuote. «Be’, io sono moooolto più eccitata di te, caro mio. E ora me ne vado in camera. A letto. Da sola». Io ho ancora gli occhi chiusi. Lei si abbassa di nuovo e mi bacia la fronte. Una punta di lingua calda e bagnata mi scivola sull’epidermide. Il polietilene della porzione gambale della mia tuta si stira leggermente accompagnando i movimenti sotto-tessutali della carne. Frida si alza dal divano e mi fa scivolare il suo dito indice dalla fronte al naso alla bocca al mento alla gola al petto. «Se vuoi sono in camera» dice, e poi se ne va.

Qualche anno fa, a casa avevamo un gatto soriano che si chiamava Roosevelt. Aveva diciannove anni quando è morto. Un pomeriggio, io sedevo sul divano e lo accarezzavo sulla testa. Gli passavo le unghie sul quel cranio piccolo e duro e peloso e lui faceva le fusa. Io sapevo che lui era felice, perché sapevo che le fusa significano quello. Ci avevo appiccicato sopra un’etichetta immaginaria che diceva «questo è il suono di un gatto felice» e così facevo di tutto per sentire quel suono, perché sapevo che era bello essere felici, anche per un gatto. Quel pomeriggio, Roosevelt faceva delle gran belle fusa, teneva gli occhi semichiusi e faceva quel suono da gatto felice che è tipo rrrrr-rrrrr-rrrrr. Allora ho continuato ad accarezzarlo per più di un’ora. A un certo punto, mio padre è entrato in salotto e mi ha guardato. Aveva un’espressione strana del tipo «qui c’è qualcosa che non va». Si è avvicinato e ha guardato Roosevelt. Roosevelt non faceva più nessun rumore. Era immobile. Mio padre ha appoggiato una mano su Roosevelt e ha detto «cazzo, ma non senti quanto è freddo? Cristo!» Ha preso Roosevelt in braccio e Roosevelt era tipo una mezzaluna pelosa e rigida e ghiacciata. A mio padre si è arricciata tutta la faccia, soprattutto la bocca e gli occhi e il naso. E poi si è messo a piangere. È incredibile quanto sia brutta la gente che piange. Hanno tutti la faccia grinzosa e deforme e molliccia. «Roosevelt» ha mormorato e gli ha dato un piccolo bacio in fronte. Poi l’ha riposto per terra, delicatamente. «Ti prego, pensaci tu» ha detto. «Va bene, pa’» ho risposto. Ho preso Roosevelt e l’ho buttato nel cassonetto dell’umido. Ho dovuto spezzargli la schiena perché altrimenti non ci entrava. La schiena ha fatto tipo STAK! e si è divisa in due. Allora l’ho piegato e l’ho buttato nell’umido. Ho dato una pacca sulla spalla a mio padre e gli ho detto «dai pa’, domani ne prendiamo un altro. Non ti preoccupare».

Sono passate due settimane dall’inizio del trattamento vale a dire dall’inizio del trial vale a dire da che ho iniziato a ingerire due pillole di Galvion al giorno. In queste due settimane ho fatto «passi da gigante». I medici hanno detto così: «lei ha fatto passi da gigante in queste due settimane, Paziente 2. I progressi sono stati davvero stupefacenti». In effetti, ho fatto davvero passi da gigante. Dal secondo giorno di ricovero ho iniziato a provare eccitazione guardando Frida, poi è arrivato l’imbarazzo – il quinto giorno, nella Sala del Focus Group – a cui sono seguiti vergogna – quando Frida ha osservato il mio pene nudo e irrigidito –, sorpresa – quando il mio pene è penetrato nella vagina di Frida –, piacere – quando il mio pene ha eiaculato nella vagina di Frida –, felicità, paura, rabbia, ansia, calma, noia, affetto – in questo ordine preciso.
L’ultimo giorno alla Marple Private Hospital ci siamo svegliati e abbiamo fatto colazione. Nessuno diceva nulla. I medici e le infermiere ci hanno detto che alle 10.30 sarebbe arrivato un pullman per il viaggio di ritorno. Ci hanno consegnato una busta con i risultati dei test clinici e hanno detto a ciascuno «si ricordi che ha firmato una liberatoria. Le arriverà un bonifico entro 90 giorni. La Marple Private Hospital la ringrazia per il suo contributo». Abbiamo preso i bagagli e abbiamo aspettato il pullman nella hall della Marple Private Hospital. Eravamo tutti molto stanchi: i medici, in effetti, ci avevano avvertito. Avevano detto che il Galvion è un medicinale particolarmente invasivo, pur avendo una durata limitata di sei ore: il corpo si abitua rapidamente e la dipendenza è pressoché immediata. Avevano detto che l’astinenza sarebbe stata particolarmente dura, fin dal primo giorno, ma poi sarebbe passata in tempi relativamente brevi. L’importante era superare il primo trauma.
Nelle due settimane del trial, alle 9 del mattino ci veniva somministrata la prima pillola di Galvion e di conseguenza il nostro organismo si era assuefatto alla puntualità del rilascio dei neurotrasmettitori. Ora era come boccheggiare. Ho visto la sagoma isterica di un insetto agitarsi nella campana opaca e traslucida della lampada che stava appoggiata al tavolino di fianco al divano della hall della Marple Private Hospital e non ho provato nulla. Il giorno prima avevo guardato un piccolo insetto affogare nell’acqua del bicchiere e mi ero messo a piangere. Ma ora non provavo nulla. Ho cercato Frida con lo sguardo e ho visto che non c’era. Nella hall della Marple Private Hospital, seduti sui divanetti bianchi in finta pelle, eravamo solamente in sette. Quando mi sono accorto che Frida non c’era non ho provato nulla, ne ho semplicemente preso atto.
Siamo saliti sul pullman e un istante prima che partisse ho visto Frida che scendeva gli scalini della Marple Private Hospital e correva verso il pullman. È salita e mi è venuta incontro. Quando si è seduta, il pullman è partito.
«Non ti eri accorto che non c’ero?» mi ha chiesto.
«Sì, me n’ero accorto» le ho risposto.
«E non hai detto nulla?»
«Non c’ho pensato».
«Be’, indovina dov’ero?»
«Non lo so».
«A fare scorte» ha ridacchiato Frida, e poi ha tirato fuori dallo zaino un piccolo flacone di plastica arancione che conteneva tante pillole rosse. «Allora? Ne vuoi una, musone?»
In quel momento non provavo nulla e non provavo nemmeno il desiderio di provare qualcosa. Però in quelle due settimane avevo appiccicato sopra a quelle pillole un’etichetta immaginaria che diceva «questa è la forma di un uomo felice» e così le ho risposto «sì, grazie» perché sapevo che era bello essere felici.
Frida ha sorriso e ha fatto una grossa bolla di chewing gum. Ho preso la pillola di Galvion e dopo mezz’ora le ho messo il dito nella vagina mentre lei teneva la felpa sopra il grembo. Nessuno se n’è accorto. Erano tutti molto stanchi.

Oggi ho visto Frida in un bar di Milano. Sono passati sei giorni dall’ultima mattina alla Marple Private Hospital. Frida aveva gli occhi gonfi e la pelle molto bianca. Tutto intorno era tutto molto grigio: il cielo di Milano era grigio e i palazzoni erano grigi e le strade erano grigie e le persone erano grigie e il fumo della sigaretta che Frida teneva tra le mani era grigio. Ha ordinato un caffè caldo e ha guardato fuori dalla vetrata che dava sulla strada e ha posato il chewing gum insalivato sul piattino della tazza. Il chewing gum era come un sassolino rosa raggrinzito e somigliava al calcolo renale che mio padre aveva in pancia e che un medico gli aveva asportato recidendogli la schiena. Frida ha sospirato e mi ha detto che aveva smesso col Galvion. Ha detto che pasticche del genere creano assuefazione e a lungo andare ti inibiscono l’apparato emotivo e finisce che senza quelle non provi più emozioni. Poi ha detto che lei stava bene senza pillole, e non voleva crearsi problemi per nulla. Ho pensato che fosse normale e che avesse ragione. Frida mi ha preso la mano e me l’ha accarezzata. Aveva le dita morbide e calde. Ha detto che senza Galvion non provava nulla per me, che smettere col Galvion era come smettere con me e sperava che io capissi la sua scelta.
Ma io non capivo granché, a dire il vero. Mi sembrava tutto molto strano. Ho iniziato a tremare e ho sentito un gran dolore al petto. Mi tremavano le labbra e mi tremavano gli occhi. Sentivo di avere la faccia stropicciata e accartocciata come quelle facce brutte che piangono. Avevo la nausea. C’era una mano invisibile che mi frugava nello stomaco e mi schiacciava i polmoni. Faceva molto male.
Frida ha appoggiato il flacone di plastica arancione sul tavolo e ha detto «prendilo tu. Prendi anche le mie». Poi è uscita dal bar e ha lasciato i soldi sul tavolo.
Ho preso il chewing gum dal suo piattino e ho iniziato a masticarlo. Era freddo e duro.

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Immagine: Damien Hirst, Tough Love, 1996. Image: © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2012.