Scendeva gli scalini a tre alla volta e pensava che doveva essere stata la primavera. Le fottute stagioni ne sono capaci, concluse all’ultima terna di gradini dell’ultima rampa. La primavera era riuscita a farsi strada attraverso le polveri impalpabili della vetreria all’angolo e il fumo degli scappamenti, era scampata alla guerra religiosa che l’aroma di cucina bengalese che risaliva per la tromba delle scale combatteva contro quello di erba pakistana che si sfaldava sulle pareti scrostate dell’appartamento raddensandosi sul soffitto, e lo aveva trovato.
Solo tre minuti prima giaceva sul letto sfatto: era stato come se qualcuno gli avesse agitato piano un fiore davanti al viso. Con gli occhi ancora chiusi, aveva visto un petalo staccarsi da una corolla candida e volare sopra di lui, tenuto sospeso dal suo stesso respiro. Di soprassalto si era svegliato e al posto del bianco lo aveva salutato il rosso dei cristalli liquidi della radiosveglia sul comodino. Il 12 e il 16 erano stati un responso inappellabile. Si era alzato di scatto. Subito era caduto. L’ultima carta aveva cercato di giocarsela bene, cacciando a calci il conato di vomito mentre tentava di rimettersi in piedi. La posta era alta.
La moquette beige consunta attutiva il suono dei movimenti frenetici e disarticolati; annaspava nell’acqua, andava sotto, riemergeva e di nuovo veniva risucchiato verso il fondo. Al terzo tentativo era riuscito a mettersi in ginocchio. Fuori, una sirena urlava sopra il ronzio del traffico del giovedì. Dopo aver recuperato una delle scarpe sotto il divano indecente, aveva indossato i jeans. Una voce, dentro, lo convinse a rinunciare alla maglia dell’Arsenal tenuta senza pause negli ultimi tre giorni e che pendeva come una bandiera ammainata dal bracciolo di una sedia, e lo guidò all’armadio e alla t-shirt gialla ancora ripiegata nella sua confezione di cellophane. Prima di uscire, aveva gettato un’occhiata al letto e alla ragazza addormentata di cui non ricordava il nome, una caramella da un penny incartata in un lembo di lenzuolo.
Quando si era precipitato per le scale, ciascuno dei pianerottoli gli era sembrato lo stadio di una metamorfosi; la hall l’anticamera della luce; il marciapiede sgombro il passaggio di livello in un videogame del cazzo. Una volta fuori, la cosa più sensata fu capire che muoversi in quel momento avrebbe significato mandare tutto a puttane. Si stupì che la fame di endorfine non gli avesse impedito di ragionare. Perciò rimase immobile, davanti all’uscio, mentre il mondo gli girava intorno, prima veloce poi sempre più piano. Quando tutto si fermò, si azzardò a correre. Superò la vetreria. Attraversò la strada. Per restare concentrato e evitare le auto che gli piombavano addosso, ne ripeteva a voce bassa il modello. Correva per guadagnarsi una possibilità.
Quando giunse alla fermata della metropolitana di Brixton fu costretto a fermarsi. Si rese conto che nel prezzo del miracolo dell’essere riuscito a svegliarsi e arrivare sino a quel punto, non erano compresi penny e sterle in tasca. Si voltò verso gli ingressi per i treni, aspettò che uno dei controllori gli desse le spalle e si lanciò verso i blocchi. Arrestò la rincorsa troppo presto e troppo presto iniziò il salto. Superò la barriera ma cadde appena oltre. Il dolore fu solo una fitta, niente di più. Stava già correndo di nuovo. Grida e passi lo incalzavano appena dietro di lui.
Il treno per Walthamstow Central aspettava sulla piattaforma. Scaraventò per terra un ragazzo con le cuffie e si tuffò nel vagone. Le porte si chiusero con uno scatto. Dal finestrino vide la guardia che gli stava dietro fermarsi e chinarsi sul ragazzo che era caduto. A bordo nessuno lo guardò. Nella metro la gente si spegne, pensò, resta sospesa nel tempo tra una fermata e l’altra e aspetta di scendere per riprendere il filo della sua stanca vita esattamente dove l’aveva lasciato, qualche miglio indietro. La voce registrata che scandiva il nome della stazione lo rimise in moto. Scese. Si fece strada tra la gente, senza scrupoli, senza orecchi per ascoltare e occhi per vedere. King’s Cross. Doveva cambiare linea e prendere la Piccadilly e scendere alla prima. Pensò a cosa rischiava di perdere se fosse arrivato in ritardo. E tutto conduceva a quella conclusione. Arrivava tardi da una vita. Perdeva sempre tutto. A questo pensava mentre attendeva sulla banchina.
La folata di vento fresco dalla galleria annunciò che il treno stava per sbucare dal buio. Si sentì toccare forte su una spalla. Quando si girò uno dei due uomini in divisa gli chiese i documenti. Rispose con una testata. Sentì le ossa del naso del poliziotto frantumarsi con un piccolo schiocco e un liquido riscaldargli il collo e la pelle del torace sotto la maglietta che si inzuppava. Il secondo poliziotto aveva messo una mano al fianco a cercare l’arma. Gli sferrò un calcio su un ginocchio proprio nell’istante in cui le persone uscivano dal vagone. Il flusso che si dirigeva verso l’uscita invece di spingerlo in avanti lo inghiottì. Così quando il treno ripartì lui era a bordo. Anche ora che era sporco di sangue nessuno sembrò interessarsi a lui.
Scese a Caledonian Road. Nessuno lo aspettava lì, per fortuna. Il cielo e il sole fuori gli sorrisero e lui corse, corse a perdifiato.
È troppo tardi, pensò quando non restava che la lunga scalinata di pietra. Ogni singolo gradino gli sembrò lo stadio intermedio di un processo involutivo; lo spiazzo davanti alla grande cupola di vetro l’anticamera del buio; il corridoio che portava all’entrata l’ultimo livello di un videogame del cazzo.
Si affacciò sulla tribuna della piscina un attimo dopo che era partita l’ultima frazione della 4X100. Si arrestò. E fermò tutto quello che si agitava, dentro e fuori. Lasciò in funzione solo gli occhi e mirò. Cercò di mettere a fuoco i colori. A metà dell’ultima vasca individuò il nuotatore con la cuffia gialla e lo seguì sino a quando toccò il bordo della piscina.
Matthew tirò fuori la testa dall’acqua. Si tolse gli occhialini. Cercò sul tabellone elettronico la conferma che la sua squadra era arrivata seconda, dietro a quella dove nuotava lo scozzese, il tredicenne, il ragazzo più grande grosso di tutti gli altri. Poi tra la gente sugli spalti vide la maglia gialla con il nome della scuola reso quasi illeggibile da una larga chiazza rosso sangue. E dentro la maglia suo padre che lo salutava. Aveva una mano protesa verso l’alto, ferma, come se fosse in classe e dicesse «presente».