Mescolo tutto di Yasmin Incretolli (Tunué, 2016) è un libro che ha cominciato a far discutere ben prima di essere pubblicato – il successo dei romanzi Tunué e l’anteprima al Salone di Torino hanno probabilmente contribuito. I toni della discussione, tanto gli elogi come i trolls, sono stati spesso fuori luogo: si è parlato della giovinezza dell’autrice, della sua avvenenza, del suo accento, delle formule idiomatiche nell’elocuzione  – tutti modi, questi, per evitare di parlare del libro.

Ora, Mescolo tutto, menzione speciale alla XXVIII edizione del Premio Calvino, non è un libro perfettamente compiuto, ma è a suo modo un libro unico.

Alto-basso.
Non è un’indicazione di pratica erotica antigravitazionale. È il registro – un esempio:

Nella  Cayenne  color  cirrosi  dei  genitori  di  Leonardo  c’ è tepore  e  afrore  di  scorregge  disintasate  dal  vocale  condotto d’un  Gabriele  in  disinvolta  coprolalia.

A questa capacità di unire costantemente merda e angelo, si aggiunge l’invenzione poetica – purissimo dono di trasfigurare a piacimento le cose là fuori:

 I tagli, nient’altro che incantate fessure, ante socchiuse:  spioncini  dai  quali  è  concesso  sbirciare  un  pezzo d’archè.

Vari paragoni sono stati fatti – a torto, a ragione o a rumore: Gadda, Burroughs, Santacroce. I picchi della prosa poetica, in Mescolo tutto, a me fanno invece pensare a una sorta di Una stagione all’inferno dei nostri tempi – nella misura in cui un adolescente di fine ‘800 è un bimbominkia degli anni ‘10.  Una cosa per poeti di diciassette anni, per capirci; una cosa per pochi, una trasfigurazione costante.  Ci sono anche, tuttavia, passaggi in cui si avverte lo sforzo più che la leggerezza di questa trasfigurazione – in cui la lingua stessa s’incarta in figure astruse e in barocchismi ostentati.

Mescolo_tutto_Cover

Una questione di genere?
Le soluzioni linguistiche sono intimamente legate al contesto che Incretolli racconta, un modo di trasformare lo squallore che circonda la protagonista Maria – l’adolescente, la puttana, la studentessa, l’autolesionista. La lingua, in definitiva, ha la stessa funzione sublimante dei tagli che Maria s’infligge.
Al cospetto di un’invenzione poetica selvaggia e di un’idea forte e originale di stile, il libro contiene però pochi spunti narrativi – uno su tutti, peraltro riuscito: il fraintendimento di Chus al festino. Questa carenza di dinamiche narrative contribuisce ad appiattire il testo, e in qualche modo a depotenziare la portata esplosiva, ascensionale della lingua. Allo stesso modo, la frattura tra stile e narrazione crea degli scompensi: quando, in alcuni passaggi, bisogna spiegarsi – la trama o la psicologia o il contesto lo richiedono – , e la lingua si vede costretta a retrocedere al registro medio; e quando, nel momento epifànico del testo, al ritorno dal festino, la lingua invece di accompagnare l’epifania sembra interferire, cozzare col suo svolgimento.

Ora: è qui che conviene ricordare la giovane età dell’autrice e il fatto che si tratti di un esordio – non come una giustificazione ma come una prospettiva. Al netto delle sue imperfezioni – le ridondanze, le forzature e gli appiattimenti – Mescolo tutto rivela una voce straripante, onnivora, morbosa e verginale allo stesso tempo; e la voce, in letteratura, è quasi tutto.

Due note in coda.
Per quanto estremamente diversi nel registro, ho trovato forti punti di contatto tra Mescolo tutto e Il grande animale di Gabriele Di Fronzo, esordiente con Nottetempo. Se entrambi affondano a piene mani nei corpi, Di Fronzo, a differenza di Incretolli, sceglie di modellare una lingua minuta e come familiare, operando trasfigurazioni microscopiche – tenendosi sempre sulle frequenze medie senza per questo risultare meno straniante.
Tunué scommette. Mescolo tutto non ha la compiutezza di Lo scuru di Labbate o di Dalle rovine di Funetta; l’editore scommette sul talento, per quanto acerbo, per farlo sbocciare. C’è rischio in questa scelta, un rischio che pare in pochi vogliano prendersi oggi in Italia.