È la vita che divora la vita.
Antico proverbio fenicio.
Da lontano la sacerdotessa parla con voce lenta a Mōch, il cacciatore fenicio. Gli chiede: «Che cosa resta?»
«Un sogno», risponde Mōch. Poi aggiunge: «Gli occhi non basteranno a riportarmi indietro, a un certo punto mi volterò e sarà tutto finito. Tutto ricomincerà».
«Questo tuo talento ti servirà quando anche tu passerai oltre», gli risponde la donna. «Conosciamo e non conosciamo che cosa stiamo cercando. Meglio tacere», l’ammonisce con calma e sibila in segno di silenzio.
Accade velocemente. La vertigine dura quanto basta. La sacerdotessa gli serra i polsi e le caviglie all’altare, imbeve un panno bianco nel vino di Samo e asperge la fronte di Mōch.
«Tu!» Dice il cacciatore, respirando a bocca aperta. «Non cambi passo, avanzi in verticale ascendendo. Tu, voci senza volto, voci su altre voci. E le voci dei piani inversi e collidenti, dei ricordi di dieci millenni, che non c’è abbastanza spazio per inventarsi un altro sogno».
Poi, resta a fiato corto.
Un uomo e una donna entrarono nelle rovine di un tempio di stile dorico. Costruito su un’altura, il tempio volgeva a sud-est; in fondo il mare placidamente sbatteva sulla roccia calcarea, in alto un castagneto allungava la sua ombra.
Là dove millenni addietro c’era il tetto, restava il cielo stellato. L’uomo ricordò alcuni versi. «Ho sete», disse. La donna gli porse la borraccia.
Perlustrarono il basamento del tempio. L’altare sacrificale era posticcio, un’iscrizione nella lingua del dio degli ultimi diceva qualcosa riguardo alla salvezza, che la natura selvaggia confutava senza speranza.
Seduti al centro di quella che dovette essere la navata, prepararono il pranzo, e veloci vi gettarono le mani.
Fuori del tempio, sulle rocce, per luoghi senza tracce, cacciare è proprio di un’intelligenza scaltrita che sa tenere la posizione eretta e sa arretrare all’occasione e sopporta l’attesa.
Il vento comincia a soffiare, nel sogno e nel bosco. «Che cosa ho mai pensato di quelle voci?» Continua a chiedersi il cacciatore. Finalmente il sole sta calando.
Non sa ciò che farà, le cose stanno cambiando rapidamente. Le ginocchia si sciolgono. Le braccia si fanno pesanti. Il castagneto tace.
La donna e l’uomo camminavano scalzi attraverso i resti crollati del tempio.
«E dove c’è vita, deve esserci anche morte», stava dicendo l’uomo.
«E dov’è morte, lì ci sono le porte del sogno», chiosò la donna.
Si stesero all’ingresso del tempio come supplici. L’attesa del sogno, questo nessuno dei due lo ricordò, è il preludio stesso alla morte.
Il castagneto è attraversato da un torrente. Lì, dentro l’acqua che non è mai la stessa, il cacciatore ha affondato i piedi. Ha imparato a non lasciare tracce. Ha imparato che la corrente cancella; che nel fango sì può trovare più vita complice che nell’aria sottile.
«Sogno spesso a occhi mezzi aperti», dice a voce alta, mentre la sacerdotessa gli versa il ciceone e lo dissesta, lo stordisce. Dallo stesso kantaros beve la sacerdotessa. «E tutto ciò che è accaduto, ancora deve accadere», recita infine. E il sogno si manifesta. E nel sogno di Mōch c’è il vento, eterno, che durerà più del tempo. Il vento non conosce resistenza.
Il ventre di Mōch si contrae. Il ventre di Mōch è il ventre di tutti gli uomini.
Al secondo spasmo – uno sputo di sangue violaceo e muco.
La morte è sostituzione della vita.
La notte arrivò sotto forma di un riverbero di echi, voci di fruscii di alberi nel vento. Voci di canti dal bosco. La notte – come se la notte significasse qualcosa.
Accadde al centro del tempio, sotto il cielo stellato, sacrificale, mentre l’uomo e la donna dormivano e nel sonno l’uomo sognava il vento, e la donna una pozza d’acqua fredda in cui un altro uomo risciacquava una lama.
«Chi sei?» Domandò la donna.
«Mōch, il cacciatore».
«Perché sei qui?»
«Per passare oltre».
L’uomo dorme poggiato alla colonna dorica. Sogna di essere un mirmidone, ora. È dentro il corpo dell’insetto, ma incapace di comandare alle sue zampe il moto.
La lama e la luna – nel sogno Mōch vede entrambe e intuisce.
È già sull’uomo. Senza pietà, si dice. Con la mano sinistra tira in basso la testa dell’altro, e con la destra affonda la lama nella pelle, tagliandola lembo dopo lembo. Al momento giusto, però, la mano del cacciatore si ferma, la vittima ha avuto un sussulto e il coltello è stato estratto. Uno schizzo di sangue e muchi, un rantolo.
Mōch vacillò, e quasi cadde, ma riuscì a tenere ancora un poco alta la testa e proseguì.
Si trascinò con lentezza fino all’altare. Con un ultimo impulso si appoggiò al marmo, lo sforzo stesso di scegliere un luogo per la propria morte gli aveva fatto dimenticare il dolore del corpo, ora che non c’era più motivo di movimento, respiro e parola. Si accasciò quasi senza respiro.