Al terzo piano del civico 92, in via degli Ulivi, abitava Luciano Melchiorre: impiegato all’ufficio tecnico del catasto, appassionato di film western e tartarughe marine e collezionista di modellini d’auto. Figlio unico di Rosa Vicentini, casalinga, e di Alvaro Melchiorre, guardia carceriera, Luciano non era sposato, era stato a lungo fidanzato, sicuramente era innamorato. Da sempre diligente e silenzioso, con la timidezza bonaria di un piccolo orso, a Luciano le dimostrazioni d’affetto e di stima in casa non erano mai arrivate. Laureatosi in architettura, a distanza di una manciata di mesi vinse il concorso come tecnico del catasto. Morta la madre pochi giorni dopo la sua assunzione, Luciano aveva continuato a vivere col padre, costretto a letto a pochi mesi dal lutto da una malattia alle ossa. In quegli anni, dopo aver collezionato soltanto affettuose amicizie, Luciano aveva incontrato Iride, una giovane maestra con la quale era nata una lunga e travagliata storia d’amore, conclusasi con l’abbandono da parte di lei che accusava l’uomo di negligenza e scarsa fantasia dentro e fuori dal letto. Dopo più di dieci anni di malattia, arrivò anche per il vecchio Alvaro Melchiorre il momento dell’ultimo respiro terreno; in quei tempi s’erano abbattuti una dopo l’altra, sulla vita di Luciano, esiti definitivi muti e irrimediabili ai quali l’uomo non sapeva reagire se non col suo solito ossequioso silenzio.
Luciano, la notte della vigilia di Natale del 1993, abitava da solo il grande appartamento di via degli Ulivi.
La vita quotidiana aveva da tempo ristabilito i suoi ritmi, la solitudine di Luciano si era fatta tutt’uno col mondo circostante, come un’abitudine a cui ormai non si fa più caso. Il suo dolore, proprio come quello di chiunque altro a questo mondo, apparteneva a lui, nient’altro che a lui, e le stagioni andavano e venivano con la consueta fretta, alternate alle festività, alle occasioni e ai riti sociali a cui da sempre e per sempre è affidato il compito ipocrita della speranza. Così alle feste comandate – Ferragosto, Pasqua e Natale –, era solito stare con un piccolo gruppo di amici, esorcizzando in qualche modo il fantasma sempre più visibile dell’insoddisfazione. La sera della vigilia di Natale in particolare, si era ormai creata la consuetudine di riunirsi tutti a casa di Lisa e Amedeo, fidanzati dai tempi dell’Università, per cenare e farsi compagnia in attesa della mezzanotte, insieme agli altri della comitiva di sempre: Davide, venditore per un’importante multinazionale, Paolo, proprietario di una nota discoteca della città, Nina, presidentessa di un’associazione umanitaria, Renzo, gestore di un tabacchi. Il pomeriggio della vigilia di Natale, Luciano si preparava con cura, non prima di essere andato al camposanto a portare l’augurio ai suoi genitori. Poi si fermava alla Pasticceria Nunziatelli a comperare dodici pastarelle e un amaro digestivo da sorseggiare davanti al caminetto, fra una chiacchiera e uno sbadiglio, nella notte più buona dell’anno. Una volta insieme, dopo saluti e convenevoli, coi cappotti ancora freddi tra le mani, ci si sedeva tutti attorno alla tavola apparecchiata di rosso, coi bicchieri buoni e il servizio di piatti delle grandi occasioni, e si arrivava così, dopo una cena ricca e gustosa, a parlare della vita, a snocciolare i ricordi dell’adolescenza, a dibattere di politica, lavoro e libertà, a discutere, insomma, dei dilemmi quotidiani.
Amedeo e Lisa, tra un pasto e l’altro, finivano sempre col parlare dei figli, che il destino aveva deciso di non donargli, premio mancato al quale solo loro sapevano rispondere con un’unione solida e imperturbabile, Davide raccontava dei viaggi di lavoro che lo portavano in tutto il mondo e degli amori disseminati nei più lussuosi alberghi del pianeta, Paolo parlava del suo locale in centro, della cocaina nei bagni e dei tradimenti di tutte le coppie della città, Nina riferiva sulla sua associazione, elencando nomi esotici di villaggi africani dove con impegno e trasparenza, insieme ai suoi volontari, era riuscita a costruire pozzi e scuole e aveva ballato nelle ville di statisti occidentali dai modi gentili, Renzo raccontava dei litigi col suo socio, dei guadagni sempre più esigui, del gioco d’azzardo che portava alla morte. Trascorsa la mezzanotte e scartati i regali, gli sguardi degli amici si riversavano su Luciano, che fino ad allora aveva assistito in ossequiosa attenzione alla lista dei loro dibattiti, intervenendo pacatamente. Quando giungeva il suo turno, gli amici decidevano che non vi era più spazio per il dibattito o la discussione libera e democratica: da quel momento si preferiva il giudizio. Il nostro, agli occhi di Renzo, Amedeo, Lisa, Nina e Paolo, era immancabilmente il più fortunato della compagnia, perciò di nulla poteva né doveva lamentarsi. I genitori gli avevano lasciato casa in centro con tanto di garage e giardino interno, Iride sì, lo aveva piantato in asso all’improvviso e ormai si era sposata, ma in fondo loro due non erano mai stati una bella coppia, nemmeno all’inizio, altrimenti nulla li avrebbe separati. E il lavoro? L’ufficio del catasto era ad appena due fermate di tram da casa sua, nel fine settimana poi era sempre libero e anche con le ferie era messo bene.
Luciano inoltre vantava uno stipendio sufficiente ai suoi bisogni e aveva la fortuna di lavorare con colleghi cordiali, tutta brava gente sposata e sistemata. Terminava sempre così la notte di Natale per Luciano, su cui aleggiava tirannico il diffuso monito amicale che chi non grida vuol dire che di aiuto non ha bisogno, e andava a finire sempre che, il 25 dicembre, a pranzo da sua zia, l’uomo raccontava di aver trascorso una vigilia bellissima, di essere un uomo fortunato, con un buon lavoro e un bel gruppo di amici veri.
Tornato a casa nel tardo pomeriggio, all’ombra delle luci più splendenti, Luciano si specchiava dentro e non scovava nulla di quel che gli avevano imputato gli amici, né riusciva a trovar traccia del motivo del suo assecondarli. E con gli anni nulla cambiava, anzi il copione era sempre più crudele. Anche a Ferragosto o il Lunedì di Pasquetta, della vita di Luciano gli amici mettevano in mostra soltanto i lustrini, ma era soprattutto la notte della Vigilia che quella dell’architetto sembrava essere l’unica esistenza serena a dispetto della loro, così difficile, così complicata.
Il 24 dicembre del 1999, in ferie da due giorni, Luciano aveva fatto colazione con caffellatte e una fetta di pandoro ed era uscito a fare alcune commissioni. Dopo pranzo, lavate le stoviglie e messo ordine in casa, si era recato, come di consueto, al cimitero a salutare i suoi parenti. Tornato, aveva indossato il cappotto verde in tinta con cravatta e cappello, si era profumato per bene il collo e le mani, e finalmente era uscito. Amedeo gli aveva telefonato per chiedergli la gentilezza di passare a prendere il vino dal suo amico fornitore, poiché lui non faceva in tempo. Luciano aveva risposto affermativamente e con molta fretta si era congedato. Arrivato come ogni anno alla Pasticceria Nunziatelli, quella volta si fece incartare solo due bignè al cioccolato e un diplomatico; uscì sorridendo e augurando buone feste. A lui non serviva il Natale, non quel Natale lì. Aveva deciso di cambiare programma, di andare a cercare un cuore che battesse come il suo. I simili non gli bastavano più, voleva gli uguali. Da quel 25 dicembre 1999 nessuno ha più notizie di Luciano Melchiorre.
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In copertina: Edward Hopper, Sunday, 1926.