Lettore onnivoro e autodidatta, Roberto Bolaño ha inteso la scrittura come un costante processo di formazione tra i banchi di quell’Università Sconosciuta[1] che da sempre ha fatto coincidere con la capacità di ricavare materia narrativa da condizioni di vita avverse a un mestiere che richiede tanto un punto di vista critico quanto un tetto e un buon impianto di riscaldamento per poterlo esercitare. Presto, già a partire dai primi anni Ottanta, s’immerge nella costruzione di un immaginario che fa dell’autofinzione un abile esercizio di distanziamento ironico e parodico da tutta la fenomenologia del lavoro artistico-letterario tra le fila dell’avanguardia, di cui però non rinnegherà mai l’atteggiamento programmaticamente antagonistico. Antagonismo non tanto verso i lettori quanto verso le condizioni generali del lavoro dello scrittore, da lui concepito come condanna volontaria all’isolamento e al diniego sistematico.
È durante il periodo trascorso in Messico che Bolaño, giovanissimo, fa proprio l’imperativo categorico di una ricerca esistenziale incessante attraverso la pratica della scrittura: vivere della letteratura o vivere per la letteratura. Il secondo caso implica l’incoscienza di giocarsi tutto, quotidianamente: la poesia come dimensione assoluta più che il risultato di precise scelte espressive derivanti dall’uso tecnico di moduli stilistici. Vale a dire, la poesia intesa come patto tra il giovane autore e la vita, per mantenere fede all’idea, che precede l’agire stesso, di una fisionomia artistica cui aspirare ricalcata da biografie che diventano in questo modo exempla di sradicamento, erranza e autoemarginazione. Proprio come le risapute vicissitudini biografiche di Arthur Rimbaud, che B deforma nel racconto “Giorni del 1978” riportando a una coppia depressa (lui si suiciderà) la trama di un film, la storia di un adolescente russo di nome Rimbaud sopravvissuto a una terribile epidemia e rimasto orfano, capace di fondere campane dal suono perfetto anche se “[…] suo padre, quel maiale ubriaco, non gli aveva mai insegnato l’arte della fusione” (Puttane Assassine, Sellerio, 204, p.103).
La poesia come gesto di chi scommette ciò che non ha per qualcosa che non conosce. E l’immedesimazione con chi è destinato a perdere non è disincanto ironico verso il mondo, piuttosto è partecipazione intima a tale gesto e solidarietà umana per chi lo compie, senza intenti di edificazione ma con tutta la mistica, a tratti naïve, spesso scherzosa, del costante travalicamento esistenziale ed estetico per ansia metafisica, nel vagheggiare una poesia che ha per oggetto la poesia stessa e la messa in scena della condotta del poeta:
Ésta es la pura verdad
Me he criado al lado de puritanos revolucionarios
He sido criticado ayudado empujado por héroes
de la poesía lírica y del balancín de la muerte.
Quiero decir que mi lirismo es DIFERENTE
(ya está todo expresado pero permitidme añadir algo más).
Nadar en los pantános de la cursilería
es para mí como un Acapulco de mercurio
un Acapulco de sangre de pescado
una Disneylandia submarina
En donde soy en paz conmigo[2].
(La Universidad Desconocida, Anagrama, 2007, p.18)
Già dalla fine degli anni Settanta – dopo la permanenza in Messico, un lungo viaggio di formazione per l’America Latina e l’addio al Cile conseguente al colpo di stato militare – stabilitosi a Barcellona durante la transizione democratica spagnola successiva alla morte di Francisco Franco, l’autore rivendica la specificità della poetica che aveva elaborato proprio durante gli anni messicani. Rileva per contrapposizione la grande discordanza sia con gli imperativi stilistici e tematici di certe opere latinoamericane engagées dei “puritani rivoluzionari”, sia con i vari tentativi di riesumazione, da parte di alcuni autori postmodernisti[3] (gli “eroi della poesia lirica”), di alcuni tratti della lirica romantica che una parte di modernismo aveva assorbito: l’aggettivazione ricercata, le raffinatezze lessicali, l’accento marcatamente accorato e intimo. A questi elementi, il poeta Roberto Bolaño preferisce le “paludi della pacchianeria” e gli scenari del turismo popolare.
Di nuovo a detta di Auxilio Lacouture, che con quel cognome (“couture”: “cucitura” in francese) pare voler ricucire i pezzi sparsi qua e là di una trama propria, autonoma ma travolta dall’impeto narrativo dell’autore che le ha dato la voce, quei giovani poeti del Distrito Federal, i realvisceralisti, (trasposizione letteraria dell’infrarealismo, il movimento creato dallo stesso Bolaño) erano “dei poveri ragazzi abbandonati”. Ebbri e scalmanati, la salutavano sbracciandosi dal lato opposto di via Bucareli, ma “[…] nessuno li voleva. O nessuno li prendeva sul serio. O a volte si aveva l’impressione che loro stessi si prendessero troppo sul serio” (I detective selvaggi, Sellerio, 2003, p.265). In effetti, se con un’enorme lente d’ingrandimento si guarda la scena posando gli occhi su quel marciapiede, oltre ai tranci di pizza e ai libri rubati che sventolano in segno di saluto, nella sacca a tracolla di uno dei ragazzi, quello con la sigaretta in bocca, è possibile notare il lembo di una camicia color kaki appallottolata e l’estremità superiore di un foglio. È il 1976 nel Distrito Federal e tra qualche ora, durante una lettura alla libreria Gandhi, srotoleranno solenni quel foglio e, al grido di “Spacchiamo il culo a Octavio Paz!”, realizzeranno la prima lettura pubblica del testo intitolato dallo stesso Bolaño “Déjenlo todo, nuevamente”[4]. È il “primo” manifesto infrarealista, vale a dire l’ultimo dei tre “primi” manifesti infrarealisti (il primo redatto da José Vicente Anaya, il secondo da Mario Santiago Papasquiaro), replicati, ognuno a modo suo, con stili diversi, forse proprio con l’intento di dimostrare come anche le false partenze abbiano un valore estetico, soprattutto se si tratta di creare con metodo una leggendarietà di stampo situazionista.
Comunicato di piazza, proclama militare, decalogo per aspiranti avanguardisti, il primo/terzo manifesto infrarealista innanzitutto dichiara un’appartenenza:
“I nostri parenti più prossimi: i franchi tiratori, gli abitanti solitari delle pianure che devastano i caffè cinesi dell’America Latina, i macellai nei supermercati con i loro tremendi dilemmi individuo-collettività; l’impotenza dell’azione e la ricerca (a livelli individuali o impantanati in contraddizioni estetiche) dell’azione poetica”. (Manifesto Infrarealista)
Un’accozzaglia festosa di stili, registri e forme di scrittura si alternano avvalendosi di materiali eterogenei: dalle autocitazioni agli inserti narrativi, dai riferimenti dotti all’uso gioioso del turpiloquio, in una prosa che mescola felicemente il castigliano all’inglese colloquiale, agli americanismi e al gergo parlato nella capitale messicana. Antiartistici e provocatori, gli infrarealisti hanno la predilezione per lo sberleffo; si accaniscono contro le smancerie dell’ufficialità e l’appariscente retorica di stampo coloniale, cui contrappongono una teatralità volutamente artificiosa del gesto artistico: “Scoiattoli di fuoco che saltano su alberi di fuoco” (Manifesto Infrarealista). Si autoproclamano propaggine messicana del dadaismo francese, tedesco e svizzero, la Svizzera di Tristan Tzara e dei poeti espressionisti, dove Jorge Luis Borges trascorse la sua adolescenza abbracciando precocemente le audaci vie d’espressione avanguardiste dal marcato carattere sincretico.
Tuttavia, la tensione tra la vaghezza metafisica da un lato e la rappresentazione di una quotidianità squinternata dall’altro è resa attraverso la rivendicazione dell’appartenenza ad altri movimenti e alle correnti più disparate, spesso in conflitto, così come il fanatismo verso generi marginali o sconosciuti: la fantascienza sovietica (da cui, secondo alcuni, deriva il nome del gruppo) e “i libri erotici senza ortografia”; il modernismo brasiliano, l’indigenismo, il surrealismo, l’ultraismo spagnolo (in cui militò anche Borges), lo stridentismo messicano e l’arte rivoluzionaria, la pittura metafisica e quella avanguardista latinoamericana, la Beat Generation, “le mille avanguardie smembrate negli anni Sessanta”, l’hippismo – “poeti, scioglietevi i capelli, (se li avete)”. (Manifesto Infrarealista)
Gli infrarealisti rivendicano anche un’attitudine all’avventura: leggere e scrivere come se si stessero macinando chilometri, perché “il rischio sta sempre da un’altra parte. Il vero poeta è quello che lascia sempre se stesso alle spalle”. Spostarsi per perdere tutto seminando i propri figli ai margini del bosco, diceva André Breton, tra i numi tutelari del gruppo, perché quando si è deboli e poco organizzati, il modo di combattere cambia: “mai troppo tempo in uno stesso posto, come i guerriglieri, come gli ufo, come gli occhi bianchi degli ergastolani” (Manifesto Infrarealista).
In effetti, rispetto al modello direzionale delle avanguardie storiche, in cui l’artista innovatore precede e anticipa per antonomasia, il manifesto infrarealista di Roberto Bolaño ne propone un altro, riassumibile in questo modo: l’avanguardia non è fuori, è già dentro, nel continuo tentativo di riposizionamento rispetto all’ignoto e, contemporaneamente, in contrapposizione a chi gode della stima dei salotti della capitale, dove i giovani lumpen nullatenenti non trovano voce e le fabbriche in sciopero non sono tra gli argomenti di conversazione più in voga. Allora il poeta, in senso lato, è innanzitutto testardo, preda delle sue stesse fantasticherie, e la sua pervicacia è così forte da sembrare irragionevolezza, se non idiozia, che spesso porta al mutismo. Quell’idiozia che è tutta volontà, come nel caso del vecchio Swift riletto da Borges, che nella terza parte di Gulliver “immaginò con minuzioso orrore una stirpe di uomini decrepiti e immortali” incapaci di leggere, “perché la memoria non regge loro da una riga all’altra”[5], e incapaci di conversare con i propri simili, proprio per anticipare nella finzione lo sfacelo fisico e mentale cui sarebbe andato incontro. Lo spettro della perdita delle funzioni del linguaggio si aggira anche tra le pagine di Bolaño, per esempio in Anversa, tra le sue opere pubblicate quella più sperimentale, dove ricorre l’immagine delle “facce che aprono la bocca e non riescono a parlare” (Anversa, Sellerio, 2007, p.90), non di rado seguita dal gesto di chi applaude, ma non sono applausi, sono tentativi falliti di applauso, che si perdono nel vuoto.
[tratto da Federica Arnoldi, Roberto Bolaño, doppiozero, 2015, pp.10-14]
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[1] La Universidad Desconocida è il volume postumo pubblicato nel 2007 a Barcellona da Anagrama e fino ad oggi inedito in Italia che raccoglie poesie e brevi componimenti in prosa dell’autore. Alcuni testi sono inediti, altri apparirono già in Los perros románticos, Tres [2000] e Amberes [2002], quest’ultimo pubblicato anche in Italia: Anversa, Palermo, Sellerio, 2007.
[2] “Questa è la pura verità”: Sono cresciuto accanto a puritani rivoluzionari / sono stato criticato aiutato spronato da eroi / della poesia lirica / e del dondolo della morte. / Voglio dire che il mio lirismo è DIVERSO / (è già stato detto tutto ma permettetemi / di aggiungere ancora qualcosa). / Nuotare nelle paludi della pacchianeria / è per me come un’Acapulco di mercurio / un’Acapulco di sangue di pesce / una Disneyland sottomarina / dove sono in pace con me stesso.
[3] Nel contesto letterario ispanoamericano s’intende con “postmodernismo” un amalgama composito di autori le cui proposte estetiche raccolsero l’eredità modernista, alcuni per approfondirla, altri per distanziarsene. Primo grande movimento letterario squisitamente americano, il modernismo ebbe tra i suoi massimi esponenti il nicaraguense Rubén Darío (Metapa 1867 – León 1916).
[4] Roberto Bolaño, “Mollate tutto, di nuovo”: primo manifesto infrarealista [1976], traduzione di Manuela Vittorelli: http://www.archiviobolano.it/bolano_testi_deje.html. Si fa riferimento a questa traduzione.
[5] Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Milano, Adelphi, 2000, p. 174.