Ci sono le vene del collo che pompano decise. C’è questo suono che rimbomba nelle orecchie, più forte di quello del mio respiro affannato. C’è la gola che si torce fin nelle ghiandole e c’è la lingua che è come carta attaccata al palato. C’è una sorta di pneumatismo in tutto questo. Sono nel momento esatto in cui smetto di essere ubriaco e in cui canto per non mettermi a piangere. Cammino, perché ho corso abbastanza. C’è il suono delle mie sneakers sui sassi che crea immagini e idee troppo reali e a cui ho iniziato a dare nomi sempre più strani. Il nome cani, il nome volpi. Volpi irate, cinghiali che ruminano gobbi e tozzi, sbuffano dal naso ai bordi della foresta, cinghiali madri che attraversano la strada come treni lanciati nella notte a fari spenti, lupi che seguono la mia camminata e odorano la mia paura, orsi che più indietro mi accompagnano, facendo ondeggiare le grosse e ritmate scapole. C’è tutto questo buio e non vedo dove metto i piedi.
Dovrebbero essere le due, le tre di notte. Ciò che vedo si riduce a tre colori. Il lattiginoso avorio dei miliardi di stelle, il blu della notte nel cielo e il nero della notte. La foresta è un’oscurità totale, sotto c’è un nero solo, che non vedo muoversi, ma sento avanzare, respirare. La grossa strada sterrata è nera anch’essa, assolutamente. A volte incespico sui sassi. Fortunatamente la strada è tutta dritta, capisco dove andare grazie al sagomarsi tra nero e blu degli alberi che la fiancheggiano. So dove andare perché questa strada la conosco e, adesso che esco dall’ubriacatura, non capisco come ho fatto a decidere di incamminarmi da solo a notte fonda.
Nel pomeriggio sono andato con Volodya alla stazione degli autobus che sta all’incrocio delle due strade, per incontrarci con i nostri amici di Andreevka, farci una bella bevuta e poi tornare a casa, assieme. E invece quel figlio d’un cane appena ha visto un po’ di figa mi ha scaricato. Passa la vita a rincorrere le ragazze e a me tocca di inseguire lui. Così quando ha iniziato a fare freddo e buio Volodya era tanto sistemato che non era nemmeno in grado di raccogliere legna da dietro la fermata del bus. Restava davanti al fuoco, ondeggiava, continuava a bere. Già in quei momenti, attraverso il chiacchierare e lo scoppiettare delle braci, abbiamo sentito rumori di cinghiali. Nonostante fossero abbastanza vicini, la preoccupazione era durata solo quella manciata di secondi necessaria ad arrivare al bicchiere successivo. E adesso il bastardo si starà muovendo sconnesso e puzzolente di alcol sopra la schiena di Kristina, che nonostante il freddo e le zanzare si ostina a indossare jeans genitali Hazzard e a farsi coprire da chiunque. E così è successo che poche ore fa nel bel mezzo delle chiacchiere, delle risate, degli sguardi e degli abbracci degli ubriachi attorno a un fuoco, Volodya mi ha preso da parte e, trascinando le consonanti, mi ha confidato di voler essere lui quello che l’avrebbe coperta questa notte, e adesso di sicuro lo starà facendo, mentre io sono qui a cercare di tornare in dacia senza farmi sbranare. Voglio chiudermi dentro, sigillare tutte le porte, rannicchiarmi a letto con la testa sprofondata nelle coperte e aspettare la luce del mattino, per poter lavar via questa sensazione di impotenza. Visualizzo la dacia di legno rosso, la mia meta, mi ci aggrappo, sussurro a me stesso che ce la posso fare. Posso immaginare la dacia ma non i miei piedi; qui è così buio che non ci riesco. Allungo la mano destra davanti a me e non la vedo. Qui non esisto, sono fatto di buio anch’io, sono foresta anch’io. Mi maledico per aver lasciato il cellulare in cucina, ma tanto qui non c’è campo nel raggio di chilometri; per telefonare bisogna andare in cima a una piccola collina e alzare il cellulare al cielo, captare il segnale come se fosse una cosa fisica e solo allora abbassare la mano e telefonare, o ricevere gli sms. Da lì si vede il tratto di strada asfaltato che attraversa il villaggio; così al passare delle macchine le case non vengono avvolte da nubi di terra. Una sola fermata del bus, un solo attraversamento pedonale con cartello, il telefono pubblico che non ha mai funzionato. In tutto il villaggio ci sono anche due o tre lampioni e non vedo l’ora di intuirne il bagliore là, in fondo alla curva. Aspetto di percepire finalmente la strada prendere a destra e vedere il primo di questi due o tre pali e poi il cartello con il nome del villaggio, poi la prima casa di legno, e poi la salvezza. Sento ancora una ragnatela di rumori cui non so dare un volto e in cui mi sto andando ad aggrovigliare. Provo a chiudere gli occhi per vedere se è meglio, se riesco per qualche secondo ad andare da un’altra parte. È peggio. Il buio si fa meno profondo ma perdo ogni punto di riferimento che mi sono creato e a cui mi sono aggrappato fino a questo momento; il rumore del vento si può insinuare negli anfratti della mia testa e può aizzare le paranoie più recondite. Qui non è come in città in cui di sera, grazie alle nubi tossiche che respiriamo e alle polveri sospese che si infiammano chimicamente, ogni singolo lampione irradia luce arancione a raggiera per centinaia di metri, come se la luce stessa fosse gas. Qui l’aria è pulita, non ci sono bagliori, rifrangenze. Ricordo la prima sera che sono ritornato dopo anni: rimasi scioccato nel vedere come i lampioni del villaggio sembrassero sfere galleggianti nel nulla, con un cono di luce perfettamente disegnato sotto di loro. Quando si arriva in questo posto, sembra che al mondo non ci sia nessun altro. Soprattutto adesso che sento la mia stessa essenza annullarsi. Adesso che olfatto, tatto e gusto sono fuori uso, la mia è un’esperienza sensoriale più restrittiva e primitiva, il mio sistema di difesa si attiva in funzionalità limitata e provvisoria, mi concentro solo su ciò che vedo e sento. Cerco di essere il più razionale possibile, anche se con il passare dei secondi perdo lucidità e la paura di aver paura, la paura di poter sentire, la paura di poter immaginare, mi scorre nel sangue. Divorato dal panico, divento parte della foresta, dell’ecosistema, in sostanza cibo per la foresta stessa. Adesso canto a squarciagola, per tenere lontane le cose del bosco. Maledico me stesso. Di giorno non è un problema percorrere questa strada: ci sono le macchine che passano, i camion, gli autobus che collegano i villaggi. Da quando negli anni Settanta hanno portato l’elettricità, gli animali non si avvicinano più alla quindicina di case di legno che sono il villaggio stesso. Non è più come anni fa che in casa c’era sempre un fucile pronto all’uso. Ma di notte tutto questo ritorna a loro, alle cose della foresta; le stesse cose che già sbuffavano a pochi metri da noi alla fermata del bus. Vedo ancora l’espressione sul viso di Volodya quando la vodka è finita e tutti hanno deciso di andare a casa. Mi ha detto di aspettarlo un attimo che non ci avrebbe messo molto. Rivedo quella strizzatina d’occhio che mi ha lanciato mentre accerchiava Kristina con un braccio e le toccava il culo e, sbandando, si sono diretti verso la dacia di lei per una sporca, sudata, rumorosa, maldestra e totale scopata da ubriachi. Ho sentito tutta la vodka che avevo in corpo infiammarsi e salirmi in testa, così ho voltato le spalle e mi sono addentrato da solo in una delle cazzate più grosse della mia vita.
Quello che so è che sono cinque chilometri. Quello che non so è da quanto tempo sto camminando. Cosa importa? Questa strada potrebbe non finire mai. Potrei non smettere mai di camminare qui e ora, dentro questo eterno terrore. L’inferno è buio, freddo e non si sa dove andare. Negli ultimi minuti ho la sensazione che una volpe mi segua strusciando il muso tra le fronde del sottobosco. Ecco un altro rumore, un soffio di narici non umane. Sento che ghigna. Non riesco a sentire il rumore dei suoi passi, le sue zampe sono capaci e nel DNA c’è scritta la storia di un predatore. Anche se la notte è tranquilla e serena, gli alti e snelli alberi vengono frustati da singole folate di vento che li inarcano come lunghissimi colli di giraffe in torsione. I rami e le foglie frustano l’aria e creano quel particolare suono che non credo sia possibile descrivere a parole: il soffio della foresta, il suo respiro che viaggia a quaranta metri dal suolo. Mi sembra di vedere ogni tanto queste sagome ondeggiare. Quando stamattina siamo andati a cercare funghi – ero salvo, non ero nel mondo civilizzato, certo, ma ero comunque parte di una realtà in cui avevo ancora pieno possesso delle mie capacità di sopravvivenza e non avrei mai pensato di poter essere così vicino all’essere catapultato nel bel mezzo di un nulla così presente e vivido, e dannatamente profondo, che non avevo mai avuto nemmeno il coraggio di provare a immaginare, nell’inferno torbido e madido, con la possibilità di essere attaccato per puro caso da una semplice volpe dispettosa, sbranato da chissà cosa, o semplicemente travolto da una famiglia di cinghiali che attraversa la strada di corsa – ricordo, la luce del mattino era come al solito elettrica, più bianca, più leggera della luce della città, e anche se dove camminavamo noi non si muoveva un filo d’erba, là in alto d’improvviso gruppi di alberi si inarcarono separatamente, sopra le nostre teste iniziarono la loro danza, ruotarono, si toccarono, baciarono, con i rami cantarono la loro canzone triste, una specie di rombo, un soffiare filtrato, un’eco potente, frusciante, come se a spostarli fosse la mano di qualcuno che stesse camminando a grandi falcate, enorme e non visto. Voglio pensare che ora quelle mani invisibili siano chiuse a conchiglia attorno a me, attorno alla mia testa così che non lascino scappar via la mia mente, che sento vuole andare a tutti i costi da un’altra parte. Sta diventando sempre più faticoso rimanere lucidi. Voglio pensare che tutti questi rumori non siano nulla, solo piccoli animali degli alberi o l’assestarsi strutturale dell’ecosistema del bosco, ricordare a me stesso che è solo la mia immaginazione sovrastimolata, perché qualsiasi scricchiolio o fruscio si trasforma nella peggiore delle ipotesi, mentre tutto si risveglia dal buio e prende vita, tutto è possibile e in questo tutto io mi aggrappo a queste mani. Salvatemi non dalla morte, ma dalla paura. Proteggetemi dall’immagine dei denti affilati, dall’idea che possano davvero arrivare, dall’alito che mai ho immaginato così fetido e che mai avrei pensato potesse essere così vicino, dal momento in cui capisco che è davvero finita. Proteggetemi da quelle immagini di documentari, dove i leoni strattonano le vittime per la cervice, i legamenti saltano, le articolazioni sono disgiunte e quello che resta è nient’altro che una carcassa che si muove come mai mossa prima, stretta da fauci voraci e insozzate di sangue. Salvatemi dal pensiero della distruzione del corpo, dell’essere divorato, squartato, reso nulla più di quello che sono adesso, carne per bestie che affonda nell’erba e lì giace non vista, divorato per ore intere, non morto subito, i denti affondano nelle parti molli che vengono estratte, il ventre esposto che rilascia vapori nella notte fredda, la veemenza di quei denti che squarciano viscere e offrono gli intestini alla visione degli occhi, la rabbia che forse non è rabbia ma solo istinto, così brutale, strattonato, rivoltato, sentire i grugniti tanto vicini alle orecchie, gli artigli come coltelli che raschiano il costato, la terra umida e collosa in bocca e nel naso perché intrisa dal sangue. Proteggetemi dal quando ci sarà dolore ovunque, che è il quando tutto è surclassato dalla sorpresa e dal continuo chiedersi se stia davvero succedendo, il quando non si capisce cosa davvero stia accadendo. Credo che nessuno possa davvero comprendere una cosa del genere, perché per tutta la vita evitiamo queste immagini e, se non è possibile evitarle, le assimiliamo senza processarle. Tutta la vita è un’assunzione distaccata e quando non giriamo la testa infastiditi è come se stessimo guardando un film. La nostra civiltà è diventata ormai così complessa e lontana da ciò che eravamo, che non permette di processare immagini già scritte nel DNA della storia dell’uomo, da sempre. Mani, salvatemi da tutto questo perché non mi sono mai sentito così perso come adesso, perché questi pensieri affollano la mia testa come uno stormo di pipistrelli impazziti, perché le voci delle cose della foresta si fanno sempre più vicine. Salvatemi, mentre torno a chiudere gli occhi per vedere se è davvero così difficile morire.
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In copertina: Gustave Doré, Tout ici, au contraire, est mouvement et murmure, illustration de Atala, 1863.