Quando mi sono deciso a tradurre una selezione delle Favole di Esopo, sono stato a lungo indeciso davanti a un bivio. La mia indecisione era dettata dal contemplare o meno nella traduzione anche le ben note “morali” che chiudono ciascuna favola.
Le morali, per quanto considerate inseparabili dal racconto, sono spurie, ovvero non appartengono al testo tramandato oralmente, ma sono state innestate – fino in epoca cristiana – per dare uno e un solo senso alle favole di Esopo. Che, ad esempio, alla famosa favola della volpe e l’uva si dia la semplicistica lettura/morale dell’incapacità dell’uomo di raggiungere il proprio intento e di dare la colpa di ciò alle circostanze, è riduttivo.
Mi sono quindi deciso, pur non potendo granché contro l’Idra a nove teste della tradizione tardo-greca e cristiana, a tagliare la famosa formula “la favola dimostra che”, poiché pur essendo un’interpretazione plausibile, ma forse è più giusto dire scolastica, non è da ritenersi universale.
A supportare la scelta di questo taglio vorrei citare alcuni brani dell’Introduzione di Giorgio Manganelli presente nell’edizione BUR del 1989:
“Una favole esopica è una fulminea epifania, un’apparizione: balena un disegno, appare qualcosa di umile, ma disegnato con estrema parsimonia, una nudità frettolosa. […] Operando in modo estremamente contrario all’epica e alla tragedia, la favola riduce e raggrinza le dimensioni del mondo, ignora lo spazio, la violenza, tutte le condizioni estreme. […] Ho detto che Esopo ignora lo spazio: da un lato ignora il cosmo, il mondo, dall’altro la sua retorica lo vuole laconico, subito conchiuso. Il lettore di queste favole si accorge subito che non si tratta di appunti per racconti, non di riassunti, ma di testi interi, di esempi rari di una brevità completa. […] Le favole esopiche non sono brevi, sono effimere: il loro fulmineo scomparire è una garanzia; fuori da quelle poche righe non accade nulla. […] Vi è, insomma, nelle favole di Esopo qualcosa di vagamente occulto… e la prova è in quei brevi appunti di interpretazione moralistica che sono aggiunti alle favole. […] Ora, è del tutto evidente che il commentatore non capiva quasi mai la favola, e per volerla ridurre ai canoni di un moralismo immediatamente pedagogico, ne perdeva la svelta ambiguità, la pulita povertà strutturale.”
Come si evince dalle parole di Manganelli, che – non lo nascondo – hanno favorito la scelta del taglio, la favola esopica non è strutturata, è più simile alla metamorfosi di una nuvola nel cielo che ora sembra una volpe ora un cane ora una vipera. È un’illuminazione improvvisa, e la sensazione che genera è altrettanto istantanea che quasi non si ha il tempo di trattenerla, che è già svanita.
Un’interpretazione “esoterica” della favola della volpe e dell’uva. L’uva sarebbe la conoscenza dispensata dalle “scuole” esoteriche. La volpe, l’intelligenza “mondana” che non può raggiungere questa sapienza superiore. Di lì la negazione della sua bontà.
La tua interpretazione conferma la “libertà” che le favole di Esopo richiedono.
Tra l’altro, venendo fuori da una fortissima tradizione orale, quelle note pedagogiche stonano troppo, sono troppo posticce. Per fare un esempio forte, è come se si mettesse una postilla a Omero sulla brutalità che Achille compie al corpo di Ettore.