Le quali allora animose infuriavano senz’ordine, la mente sconvolta,
evoè loro che celebrano la festa di Bacco, evoè loro che flettono le teste.
Una parte di queste faceva vibrare i tirsi dalla cuspide coperta,
una parte gettava fuori le membra di un torello fatto a pezzi,
una parte si incoronava con serpenti attorcigliati,
una parte celebrava con ceste vuote orge oscure,
misteri, che in vano desiderano ascoltare i profani,
Altre percuotevano i timpani con i palmi slanciati
o facevano nascere tintinnii sottili dal cembalo levitato,
a ondate, e i corni spiravano fuori versi dal suono rauco
e il flauto frigio risuonava con un canto che incute orrore.

Catullo, Carme 64, 254-266, trad. Luca Mignola

 

 

Un buco di legno. Fuori, la notte; fuori e dentro. Nel fondo qualcuno è seduto al piano, una spugna di suoni. Lui dentro, magro, sottile. Non è solo, un amico con lui: pallido, sulla maglietta nera gli schizzi di lacerazioni precedenti. È morto. Quell’indumento macchiato a scaglioni, a pezzi – una grotta di stalattiti grigie e rosse – è il suo stesso petto.
«Torniamo dentro?». L’amico dice e non apre bocca. Ci hanno cacciati fuori. Quelli, là dentro, nel buco di legno – c’è un soppalco e un distributore di sigarette; e musica – vogliono sottrarci la vista.
«Che stanno facendo?». Il vecchio amico ha le labbra carnose e la barba appena appuntita, del colore delle lacerazioni nel grigio cenere. Osserva con gli occhi spalancati, si avvicina.  «Andiamo via». Ora muove le labbra, è vicino: è la sua voce o una coltre simile.
Non ci muoviamo da qui, è deciso. Quelli là dentro nascondono qualcosa. Torna alla porta – è in abiti scuri – si sporge sulle spalle del buttafuori. L’amico resta dietro, fermo o guardingo; ha paura, non si scompone. Dentro, un uomo stende le braccia tra la parete e il passamano delle scale.
Dagli interstizi tra il collo e le scapole, sotto le ascelle e tra i ciuffi di capelli, si intravede un tavolo in alto sul soppalco. Qualcosa: due uomini o corpi tesi, incombenti. Lui entra deciso – la frenesia di vedere. Quelli là dentro gli vanno addosso. Con i corpi gli sono sopra. Sono morbidi, corpi, mentre gli vietano l’ingresso e la vista.

Uno scambio. Quella che ora mi accarezza i testicoli non è la mia donna. Ha le mani più lunghe, è bassa, imbrunita dal sole. La conosco, è la prima volta che mi accarezza i testicoli. C’era un uomo grasso non molto lontano, con le mani nel costume della mia donna. Sono andati via. Fai presto, ragazza. Le ho morso la carne molle tra le labbra e l’interno coscia appena depilato. Siamo in spiaggia, questo è il cazzo più spesso che abbia mai avuto. Chi è che mi prende a bocconi lo scroto? Non è la mia donna, lei ha una presa diversa.

Dove siamo? Qualcuno avanza tra gli arbusti, un amico. Si abbassa al suolo, sulle gambe, per passare; è elastico. Sta fuggendo. Lui lo segue di corsa, i rami gli strisciano la schiena. Corre, è ferito. Una musica fuori – un ritmo – descrive l’ambiente. Si allarga a tratti, tra il fogliame folto. A tratti si vede la luna oltre i rami. È una foresta.
È notte, la terra odora d’acqua. «Andiamo!». L’amico scompare tra gli arbusti, fugge. Non vede che siamo vicini? Eppure è chiaro come la luna.
C’è qualcosa là sopra. A valle, da sotto, si sente il piano vibrare. Lui chiama l’amico gridando, poi alza gli occhi e la sente. È quella, la casa di legno: ci siamo. C’è un sentiero tracciato, basta alzare lo sguardo. Sale, tra gli alberi, a precipizio. C’è una fine o un culmine alla foresta. La vegetazione, con la musica – il ritmo – si dirada. Si vede la strada obliqua. Si sentono i passi.
Lui riprende la corsa tra i rami, è ferito. Perde sangue dai fianchi e non si lamenta – ora è più rapido, è solo. L’amico scompare, non si sente nei paraggi.

Ho le mani callose, tutti al tavolo odorano di corpi sudati. È acre e buono. La birra è servita in vasetti di terracotta. È remoto: i miei amici intorno parlano latino. Siamo chierici o monaci. Siamo vestiti di verde e marrone scuro, i colori del bosco. Ci sono due donne, una mora e un’altra; ci guardiamo senza posa. Per possedervi entrambe allo stesso tempo dovrei avere due membri – grido mentre l’oste serve altri vasetti. Salgo coi piedi sul tavolo e alzo il saio alla cintura – c’è del sudore rappreso nell’inguine. Tutta la taverna sta negli occhi della moretta. Anche lei viene sul tavolo e si mette in ginocchio ai miei piedi, la sua saliva placenta. Ci stanno guardando tutti.
Un amico parla di una cosa trovata per caso, un manoscritto o un oggetto, in cima a un sentiero senza sbocco. Sento la linea del coito rompersi di colpo nelle orecchie. Sono di nuovo seduto di fianco agli amici, mi tremano i muscoli. L’amico, biondo, dice: «Res abscondita». È un nordico: dove avrà imparato a parlare latino? È bello, la moretta sotto il tavolo adocchia le fessure del suo saio, la sento. Le stringo i polsi fino al dolore, ma non ha voce. La tiro per i capelli dentro il mio saio, sotto il tetto del tavolo. Fai presto, ragazza.

foto realismo editoriale yeah

È buio nel torrione di pietra, lui sale. Da un buco sferico nella parete si vede il ponte a mezz’aria. Ha i piedi bagnati. Le suole di cuio strisciano sulla pietra, è vestito bene. C’è la musica, intorno: un piano gioca sui bassi un ritmo che potrebbe esplodere. Si ferma a respirare, dilata le narici: l’aria è ricca di minerali. E riprende – la frenesia di vedere.
Ci siamo: dai bordi di un gradino, l’ultimo, pende l’estremità di un tappeto. Ci stanno aspettando?
È una reggia o un castello. Lui si nasconde sul ciglio dell’antro. La sala nel centro, rossa sui muri e illuminata, è deserta, imperiale. I resti per terra sono tracce o scorie: ori, formaggi, tessuti, cellule. Avanza coi piedi: la sala si apre sui lati su due corridoi più scuri. Andiamo.
Lui si trascina ferito nell’anca. Ci sono porte sui lati. Sbattono, ruotano sui cardini come spinte da forze ventose. Fa fresco e non si sente rumore, solo la musica – un ritmo più lento, i bassi trafiggono gli organi. Ci sono uomini a terra, corpi, oltre le porte e nelle stanze, distesi per terra. Muiono, o dormono. Lui cerca di svegliarli battendo, scalciando. Sono corpi molli, immuni. Innocui: dormono e non sanno, o muiono. Sono ammassati, non vogliono più vedere; inerti sudano insieme.
Andiamo! Si forza a uscire, con le braccia si spinge di nuovo nel corridoio. Andiamo! Si forza d’andare – ci siamo. E i passi si fanno più lenti. Se n’è andata, la voglia se n’è andata, ci ha lasciato. Sui lati le porte sbattono, gli uomini muiono senza rumore. È la musica! Un ritmo che toglie la voglia. Respira, suda; eppure fa fresco.
Si accascia sfinito a lato di una porta – come quelli prima di lui, morti sui lati – gli occhi si chiudono e quasi non lottano. Nemmeno le lacrime: è il sonno univoco, il sonno di sempre. E la testa rade il suolo – è una moquette per terra, è una reggia, un castello. Un buco.
È il sonno nero: nemmeno il rumore si vede davanti. La materia non passa attraverso la coltre. Scompare anche la lotta, è la fine.
Poi una goccia e un’altra – l’acqua è la vita – dev’essere bava, olio. Vischio: puzza di stomaci, fegati, esofagi consumati vivi. Un pennello di lingua rosso imperiale sparge il suo viso di muchi. Apre gli occhi esausti – è la veglia forzata, lo stupro. È un animale; snello, bipede. È femmina – per tante mammelle. Tra i denti i resti di visceri di altri dormienti. Disteso prono lui allunga le mani sui grani, i capezzoli – è l’acqua la vita, la mammella. E d’improvviso un rumore più secco, di predatore.
Viene il maschio, battendo i piedi pezzati, si sente la puzza, il rumore. Nelle fauci corpi interi smembrati e bolo. Bolo di predatore. Si avvicina il maschio scalciando – lui disteso, le mani sui grani della vita – la femmina trema, fugge in avanti. Il maschio è a un passo da lui, il ritmo batte più forte. È il cuore – il terrore – di essere bolo di fauci. Si ferma a un palmo, con le narici aperte lo annusa, fa per aprire il recinto dei denti – la puzza di vita, il bolo – e la femmina geme da lontano. «Salvalo», grida gemendo, «salvalo per un predatore più degno di te». Il maschio, le fauci aperte, sfiora il collo di lui; più lento scivola fino al viso. Gli occhi negli occhi. L’iride del predatore. Tutti i colori infiammati coincidono e reagiscono, è un occhio che sente e non vede. È un occhio cui non può più sottrarre lo sguardo.
Il maschio fugge via sulle zampe, urlando. «Ho preso i suoi occhi con me, verrà dalla Bestia con noi». E la femmina applaude, nitrisce; il collo si allunga oltremodo, le orecchie appuntite sfiorano le travi sui tetti. «La Bestia farà festa, e anche noi, e anche lui con noi».
Il corpo di lui resta morto o disteso con gli altri di fianco alle porte mentre il suo sguardo – già non più il suo, occhio che sente e non vede – segue gli animali.
La corsa di quelli: il ritmo riprende più intenso. Sbatte una tempesta di piedi – gli arti sul suolo e sulle pareti, e la moquette muta rimbomba. Gli animali correndo si fanno strada dove non c’è strada. Distesi come acrobati, elastici e lunghi come contorsioni: per i muri e i fori, i cunicoli unti del castello, del buco. E la sala si allarga immane – il suo occhio distante, che sente e non vede, distante dal suo corpo molle sulla porta, li segue. E il piano sui bassi sfrenati – melodia e ritmo fusi, confusi – ci siamo!
Per un tunnel più stretto, distesi proni come animali. Ed è l’antro. Nero come un buco, gli occhi di lui vedono come antenne. È la Bestia: il torso scolpito, marrone e unto, le gambe ricurve – è seduto, si mette sui piedi come un fauno. E il muso allungato e le narici bollenti. Sui corni, la corona animale. Sui lati, le scimmie, i pidocchi, i batteri. La vita melmosa, la vita ameba. Nel recinto dei denti dei due animali, pezzi di uomini morti o dormienti: gli ultimi venuti. E gli occhi di lui.
La Bestia geme più forte. «Questo è il limite del mio regno. Cosa oltre non datur». Lo afferra alla gola. Il corpo di lui, lontano e presente, si torce e sanguina. «Vuoi vedere?». E stringe. «Vuoi andare a vedere?».
E non c’è voce nella bocca di lui. È il sonno e le botte. Stare come morti, come russi distesi nel ghiaccio a fare i morti. Respiriamo finché c’è aria.
La Bestia coi corni lo prende dal mento, lo alza; e gira, ululando. Ruota le braccia allungate verso la volta, in alto oltre i tetti, e in cerchio il regno animale comincia a cantare: i rettili, i mammiferi, i batteri – e il piano, da fuori o da dentro. È un vortice. «Vuoi andare a vedere?».
Scarnificato e vivo – permane una goccia di luce nelle antenne – la Bestia lo lancia dalle corna, dalla corona, attraverso la parete e in basso. Cadiamo.

L’acqua è la vita! Galleggio, sono un corpo. L’acqua solletica e sfiora, le forze ventose drizzano i peli e le squame. La volta scura e la calma di mare non si distinguono a occhio. La vita umida, il mare. La distesa. Sono nudo, squame e pene di pesce. Sono un anfibio e mi inondo, naufrago. È finito lo stupro dell’aria, l’ossigeno, scendo.
È il deserto, la vertigine liquida. La luce dirada, la musica viene da sotto. Scendo ancora e permane deserto. Più in fondo, lo sento – lo vedo – c’è sempre un più fondo!
Lapidi di anfibi morti – ferite o embolie – e recinti di verde fluoro fluttuano a mezz’acqua. E boati – qualcosa si muove, vibra. Intorno ai defunti – la morte per acqua – muove il corteo di femmine, in cerchio, in groppa ai puledri di mare. I seni verdi rotondi, le bocche ovali – cantano? Sono loro a vibrare?
Mi avvicino con le pinne, e anche loro una a una si voltano. Il mio pene blu fluoro si nota – abbandonano i defunti alla corrente. Il vivente ha ragione del morto. Il mio pene ha ragione del morto. Si fanno a me, mi prendono in gruppo. E sono mute! Le bocche vuote, le bocche secche non hanno voce, devono essere riempite.
Quanti grani di vita – mammelle – ho schioccato nell’acqua, quante bocche riempite! E mi portano giù, il deliquio per acqua: fate presto, anfibie.
E i boati non cessano: chi è che vibra, se non sono le loro bocche ovali riempite? Sono rutti di placche, croste divelte. Le pareti, il fondo! Portatemi sotto, ancora più sotto, anfibie.
Le pareti sul suolo, i pilastri, tremano come percossi dall’alto. Sono rocce e granito, pietre nere. Vibrano. Il corteo di anfibie si riempie la bocca. La causa, la cosa è in superficie.

Sono sopra, a pelo d’acqua. Davanti, nel buio, la terra. Terra! Oltre la coltre spessa, il tremore – il battito – e l’approdo, la fine del viaggio più lungo. Ed è solo l’inizio. Con le mani mi alzo tra gli scogli e le cozze nere. È un’isola, l’Isola: fremono gli intestini e i testicoli. Il mio corpo è una cosa, un ammasso verticale eretto, pulsante. Correre. Le rocce, saltare, sfondare. Vedere. Muovo coi piedi sull’acqua. L’acqua è la vita, il bolo iniziale.
Due promontori neri schiacciano l’Isola in mezzo. E le piante: il labirinto è vegetale e minerale. Mi nutro da terra – fogliami e funghi, vermi di ogni stagione. Mi nutro e la forza esplode, si erige. È la forza pulsante, la cosa nera – fai presto.
E il rumore, il battito univoco. Si sente la fonte, si vede. Là in mezzo, compressa tra i promontori, crolla, rovina la sorgente. Vibra. Si vede: ho gli occhi, le antenne nel cazzo. Mi seguo, vado; ci siamo. Salto sfrondando le trame, la coltre vegetale. Testicoli e intestini si adattano al ritmo della fonte, spingono.
Scroscia ed è una cascata. È la fonte. Getti continui di particole scrosciano e cadono. È incessante: muore, ritorna. Non muore, viene prima o dopo. E ancora, scroscia vibrando – lucendo – trafigge gli organi come un basso, li trascina. E io inondo. La mia vita per la vostra. Li inondo dal cazzo che è antenna, e non vedo più. E non sento: è un altro ordine d’evento. Sono il bolo cieco, il brodo informe. Mi unisco. Sono la cosa univoca, la cosa nera. Scivolo tra i rivi di particole. E non si distingue origine – dov’è andata la cosa, la causa? Dove siamo?
Mi accascio e muoio, inondato. Sono il buco senza precedenti. Il caso sfondato, la cosa – morto. Il battito irreverso. La cascata sbatte e scroscia – è il caso, la legge. Le particole scrosciano, il tempo è ritmo. Sono la cosa nera che sbatte e non la vedo.

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Notturno è apparso nel terzo numero di Ô Metis.
L’illustrazione è opera di Nicola Di Marco