In una recente intervista a Carlos Dámaso Martínez si è discusso, tra le altre cose, dell’avvenire del genere fantastico – di come, ad esempio, la science-fiction abbia finito per occupare il suo campo d’azione. Lo scrittore argentino si è mostrato preoccupato nel non veder apparire tracce di rinnovamento del genere. In realtà, l’evoluzione e il rinnovamento del fantastico era già davanti ai nostri occhi, ma noi non vi avevamo posto sufficiente attenzione.
A gennaio 2017 Arcoiris ha portato in Italia il messicano Alberto Chimal. Nove è una selezione di racconti tratti dal volume Siete. Los mejores cuentos de Alberto Chimal (2012). Il carattere antologico della raccolta rende più difficile apprezzare la novità della proposta di Chimal nel suo insieme, la sua poetica del fantastico – tuttavia l’originalità e la varietà della sua scrittura alla lunga vengono fuori come un insieme riconoscibile.
Chimal mescola: alla presenza dei modelli classici (Poe/Quiroga, Borges, Cortázar: in particolare quest’ultimo, nume tutelare di ogni fuga fantastica) si aggiunge l’influenza, dal punto di vista tematico, della fiaba e della science-fiction; dal punto di vista formale, quella del fumetto, della graphic novel e dell’animazione, del cinema e delle serie televisive.
Se il tributo più evidente al cinema è rappresentato dal racconto “Corridoi”, è isolando tre altri racconti (“Mogo”, “Shanté” e “Venti Robot”) che si riesce ad apprezzare l’operazione nella sua novità.
In “Venti Robot” Chimal gioca con la science-fiction e i suoi sottogeneri. Si tratta di venti brevi testimonianze da un tempo in cui i robot sono parte integrante del mondo – e poi di colpo spariscono, come le fate e gli elfi delle leggende.
Noi robot, nel giro di qualche secolo, creeremo la tecnologia per inviare sogni agli umani del passato remoto. Spinti da questi sogni, gli umani cominceranno (hanno cominciato) a costruire robot. Non è vero che sono i nostri creatori, come dice qualche svitato. Ha scaricato e studiato tutte le sue lezioni di religione, giovanotto? (p. 67)
Chimal si libera di due pesi che affliggono la science-fiction: l’ossessione della verosimiglianza e la malinconia distopica (quel peculiare stato affettivo in grado di rovinare anche le più riuscite puntate di Black Mirror). Se ne libera col pastiche e con l’ironia, e il tutto ha l’aria di un gioco prima di tutto divertente:
Mio nipote vive in un mondo parallelo nel quale le cose sono molto diverse da come sono qui. Per esempio, dice, i robot sono molto più numerosi, più intelligenti, e uno dei più celebri, il russo Gramil, è una specie di supereroe che percorre il mondo per aiutare la gente a catturare criminali di vario tipo con la sua falce e il suo martello. La cosa più curiosa è che questo Gramil, oltre che fortissimo, sembra essere veramente onesto e buono, al contrario del nostro Capitan America (che è un agente della CIA con i leggings), o di Batman (che, a dire il vero, è soltanto uno psicopatico pieno di soldi). (p. 78)
L’elemento fiabesco, che caratterizza anche racconti come “La vita eterna” (in cui Chimal sembra riscrivere Luciano di Samosata), viene fuori con forza in “Mogo”, in cui, non a caso ma per necessità, il protagonista è un bambino. In seguito a un trauma, Beto capisce di poter diventare invisibile coprendosi gli occhi. Comincia per il bimbo un’avventura in un mondo parallelo, all’oscuro degli altri, uno in cui incontra un’altra bimba sola e invisibile, Pai, e un tiranno, Mogo. È davvero capace Beto di diventare invisibile? I familiari, che lo portano da uno psichiatra per curarlo, non ci credono – eppure l’ultima volta che Beto ha coperto gli occhi con le mani, Mogo si è presentato nella sua camera da letto per castigarlo. Beto è nel patio, gli occhi chiusi, con Mogo e Pai: mentre assaggia il bastone del tiranno dei bambini, sua nonna, le zie e i cugini corrono nel patio a cercarlo, ma non riescono a vederlo.
“Shanté” è il racconto più lungo della raccolta, e il più complesso – non è un caso se gli effetti fantastici, in genere, prediligono la brevità. Il testo narra uno sdoppiamento. Esiste una droga – un oggetto che è una droga, lo scoto, ad uso esclusivo delle donne – che produce in chi lo usa due effetti: un lento e inesorabile declino delle funzioni biologiche, e l’apparizione di un doppio. Questo doppio si aggira per il mondo e fa le veci del soggetto che usa la droga, trasmette i desideri reconditi di quest’ultimo. Così Beatriz scopre – attraverso il doppio di Elena, Shanté – che il suo amore per Elena è ricambiato. Come in Mulholland Drive di David Lynch, un oggetto (lo scoto; la scatola blu) è il vettore del desiderio, e la storia dello sdoppiamento è una funzione della storia di un innamoramento.
Attraverso il pastiche, l’ironia, la mescolanza tematica e stilistica di varie forme e vari generi, Chimal rinnova il fantastico ibridandolo: abbracciando, da un lato, forme più moderne; e dall’altro tornando alla sorgente di ogni narrazione, al suo carattere mitico.
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Alberto Chimal
Nove
Salerno, Arcoiris, 2017
Traduzione di Violetta Colonnellli, Sara Princivalle e Raul Schenardi
Revisione di Livio Santoro
pp. 181