Come on up to the house, di Tom Waits, non è una delle mie canzoni preferite, ma la ascolto sempre volentieri.
Ha una struttura semplice, la melodia è orecchiabile e il testo è cristallino. C’è questa casa che ritorna di continuo, e che è più un luogo emotivo che fisico. La casa è il posto in cui il dolore, seppur mai negato, viene in qualche modo accettato e lenito; un posto in cui, quando ci si sente sopraffatti, ci si può rannicchiare per avere un minimo di respiro, o leccarsi le ferite per poi riaffrontare il mare aperto, consapevoli che non abitiamo il mondo ma che siamo solo di passaggio.
La Trilogia della Pianura di Kent Haruf mi ha suscitato le stesse emozioni della canzone di Tom Waits: c’è un luogo dove ritornare quando le cose si fanno troppo dure, una dimensione selvatica e gentile, che non nega lo strazio, non nega la sofferenza e non rifiuta il male, ma che non ti dà dello stupido se stai male e ti porge una mano, seppur timida e goffa, per affrontare i tuoi problemi con più coraggio; e che, soprattutto, ci ricorda che non siamo soli.
Come Come on up to the House, la Trilogia di Haruf tocca corde basse, intime e viscerali, e crea uno strano mondo cinico ma rassicurante, rassegnato ma non privo di bellezza, nel quale l’impotenza del vivere e l’incompiutezza del morire vengono mostrati come puri dati di fatto, accompagnati e osservati da una natura spoglia, brulla, secca e aspra, ma sinceramente disposta alla convivenza e a coinvolgere l’uomo nei suoi riti.
Il mondo di Haruf, delimitato entro la contea di Holt, Colorado (salvo sortite presso la vicina Denver), è tipicamente americano, cioè luogo di frontiera e di scoperta, di esplorazione morale, emotiva, interiore nel senso più ampio del termine: Holt è una terra con la quale è complicato ma esaltante relazionarsi, difficile da coltivare ma che è capace di dare tanto se affrontata con lo spirito giusto.
Kent Haruf, insomma, racconta storie vecchissime ma sempre attuali di disperazione, solidarietà, solitudine, crescita; di apertura alla vita, all’amore e alla maturità, di assunzione delle proprie responsabilità e di tentativi di riparare ai propri errori, e di ricerca di verità nella vita e di senso nella morte; e sono tematiche, queste, che collocano Haruf nel contesto di un’epica intimista e minimale, ma non ombelicale, capace di parlare a tutti e di offrire una visione etica scorbutica ma generosa, che non declama grandi valori ma che brilla di piccoli atti di autentica solidarietà e ruvida gentilezza; e, più di tutto, Haruf ha la capacità, attraverso le sue storie, di costruire con il lettore un rapporto delicato e molto personale, discreto ma intimo, di piena e completa fiducia.
Scendendo nel dettaglio dei tre volumi, ovvero Canto della Pianura, Crepuscolo e Benedizione, è un valore aggiunto godersi il modo in cui la voce di Haruf diventa, di volume in volume (che, voglio precisare, ho letto nell’ordine di pubblicazione, ovvero sono partita da Benedizione per poi leggere i primi due – qui la casa editrice spiega il perché di questa scelta di pubblicazione), sempre meno invasiva e sempre più permeante, fino a trasformarsi nel concime dei personaggi e dei luoghi, fisici e non, che questi attraversano.
In Benedizione, a mio parere il migliore dei tre, le vicende narrate, la visione delle stesse e il vigore etico che sommessamente le nutre arrivano a una coerenza interna pacificante quasi a livello cosmico, in cui l’inconcludenza e la spietatezza della morte, e di conseguenza della vita, vengono viste come dei limiti da accettare con amara ma consapevole serenità, per quanto possano essere dolorosi i rimpianti e laceranti le questioni rimaste in sospeso; qui non ci sono personaggi da odiare, come invece succede nei primi due romanzi (basti pensare a Dwayne e Russell in Canto della Pianura, e a Hoyt in Crepuscolo), perché siamo oltre: la meschinità c’è ma non ha un volto preciso, mentre il respiro umano si fonde con quello ambientale e in esso trova la sua estrema e inconsapevole, ma percepita, consolazione.
La Trilogia di Haruf non si limita ad essere narrativa ma la trascende, e diventa un luogo al quale ritornare, una casa che accoglie il lettore e lo accompagna attraverso quei riti, quelle iniziazioni quotidiane e significative che tutti ci troviamo ad affrontare, a dover attraversare e superare, perché, per citare l’autore, “ogni essere vivente a questo mondo prima o poi va svezzato”. Ed è giusto così.
Kent Haruf
Benedizione (2013)
trad. it. di Fabio Cremonesi
Milano, NN Editore, 2015
pp. 280
Canto della Pianura (1999)
trad. it. di Fabio Cremonesi
Milano, NN Editore, 2015
pp. 304
Crepuscolo (2004)
trad. it. di Fabio Cremonesi
Milano. NN Editore, 2016
pp. 320