Juan Carlos Onetti: «Mi interessa solo inventare, scrivere».
Conversazione con Carlos Dámaso Martínez.
L’intervista è stata pubblicata in El arte de la conversación. Diálogo con escritores latinoamericanos, di Carlos Dámaso Martínez, Alción Editora, 2007. Ringraziamo l’autore per averci concesso di tradurla e pubblicarla su CrapulaClub.
Traduzione di Ylenia d’Alessio.
Revisione di Alfredo Zucchi e Luca Mignola.
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«Ho il sonno cambiato», mi dice in due casi Juan Carlos Onetti, al telefono, prima che io possa vederlo nel suo studio madrileno. In realtà, da vari anni Onetti vive con il “sonno cambiato”. Quello che vuole dire è che dorme di giorno e scrive, legge, pensa di notte, fino all’alba, sempre semidisteso sul suo letto, con un ventilatore acceso e un comodino mobile nelle cui vicinanze dispone posacenere, sigarette, bicchieri, carte. In pratica non esce più da questa reclusione volontaria, riceve pochi amici e non rilascia interviste, a parte questa.
A 82 anni questo scrittore, che è senza dubbio uno dei più importanti di lingua spagnola, si mantiene lucido e conserva il suo senso dell’umorismo e quell’ironia che gli hanno dato la fama di personalità scettica e dai giudizi corrosivamente critici. Il suo romanzo più recente in questo momento della sua vita è Cuando entonces (1988, inedito in Italia). Nel volontario esilio spagnolo ha ricevuto il premio Cervantes, i suoi libri sono stati ripubblicati e tradotti in italiano, inglese e francese. Ad accompagnarlo da quando ha lasciato Montevideo nel 1975 – dopo aver subìto il carcere e la persecuzione della dittatura del suo paese – sua moglie Dolly che, con la sua cordialità, lo mette in contatto con gli altri, con quello che succede nel mondo.
Intorno a mezzanotte, nell’inverno del 1992, di fronte all’autore de La vita breve, che riceve dal suo letto come da abitudine, è cominciato questo dialogo, in compagnia di varie sigarette e due giri di whisky.
Un anno dopo, nel 1993, pubblicherà Quando ormai nulla più importa (Einaudi, 2004), il suo ultimo romanzo.
Carlos Dámaso Martínez: Onetti, come ha vissuto questi anni a Madrid? Che legge, che scrive?
Juan Carlos Onetti: Ho trascorso molto tempo senza scrivere. Non l’ho mai potuto fare fabbricandomi un orario. Scrivo quando ho voglia. Siccome ora ce l’ho, sto scrivendo sempre.
CDM: È un romanzo?
JCO: Sì. Io li chiamo appunti, ma è un romanzo.
CDM: Dopo la scomparsa di Santa María in Lasciamo che parli il vento, riappare questa città?
JCO: Quello che posso anticipare è che il personaggio, il narratore, è un tipo che visita Santa María. Lì incontra alcuni personaggi e, chiaramente, si intravedono altri casini e vive il suo romanzo.
CDM: Ci sono alcuni dei personaggi dei suoi libri precedenti?
JCO: Sì. Díaz Grey è lì. E credo di avere qualcosa a che fare con lui.
CDM: E Larsen?
JCO: Larsen è qui (Onetti mi mostra un posacenere con la scritta “Larsen Cognac” e sorride). Questo me lo regalò la vedova di Feltrinelli in Italia. Ma Larsen si trova anche nel romanzo che sto scrivendo. È presente come un ricordo.
CDM: In questo momento, che tipo di libri legge?
JCO: Dal momento che sto scrivendo tutti i giorni, non leggo nulla di veramente letterario. Leggo queste cosucce, voglio dire romanzi polizieschi, che non mi interessano per niente, mi distraggono solo. Hanno sempre un qualcosa di rilassante.
CDM: Ci sono critici che sostengono che nella sua narrativa lei abbia attinto dal genere poliziesco.
JCO: Non lo so, figlio mio. Io non la vedo così. Ti dirò che non mi importa, che mi dimentico dei miei libri. Una volta terminato il libro, il libro se ne va, no? Mi ricordo che un sacco di tempo fa ero in un hotel a San Francisco e incontrai Vargas Llosa. A quei tempi nemmeno pensava di poter essere presidente del Perù. Dunque, avemmo una lunga conversazione che non arrivò a essere una discussione. Lui mi diceva che per scrivere romanzi bisognava lavorare con un orario preciso tutti i giorni, con o senza voglia. Però io glielo contestavo, gli dicevo: se un giorno ti fa male il fegato, se sei raffreddato? Ma no, succeda quel che succeda, io scrivo, diceva lui. Ma non smetti di scrivere per giocare con i tuoi figli? E lui insisteva di no. A quei tempi, Vargas Llosa lavorava alla radio francese internazionale e aveva un orario molto curioso. Finiva alle dieci del mattino. Da lì andava a casa e cominciava con l’orario della scrittura. Alla fine della conversazione io gli dicevo: guarda, quello che tu possiedi è un amore coniugale con la letteratura e devi ottemperare all’obbligo matrimoniale. Invece per me la letteratura è una relazione molto appassionata, più libera, come quella che si può avere con un’amante. Quindi quando mi viene l’attacco sessuale, o di amore, o come vuoi chiamarlo, scrivo. E lo faccio fino ad annoiarmi o stancarmi. Tutti i miei libri li ho scritti così. Anche García Márquez, grande amico mio, ha il suo orario rigoroso per scrivere.
CDM: E lei corregge molto?
JCO: No, per niente. Praticamente niente. Chi rivede ciò che scrivo è mia moglie, perché io le chiedo che elimini le consonanti ripetute, i “mente”. E questo è un tipo di correzione piuttosto a orecchio. Cortázar faceva lo stesso, non correggeva lui.
CDM: Come ricorda Montevideo e Buenos Aires?
JCO: Come le ricordo? Amori, amici, i luoghi, i bar. Uno sa, o meglio io so, che sono cose che ormai non esistono, come non esisto io. Poi, se ci pensi, la mia vita è stata nettamente divisa, ti potrei dire metà a Buenos Aires e l’altra metà a Montevideo. Così i miei ricordi, o le mie nostalgie, sono molto mescolati. A Montevideo, in generale, la gente è diversa non dall’argentino ma dall’abitante di Buenos Aires, il porteño. È più cordiale, più aperta. Anche se ora non so come potrebbero essere dopo la dittatura. Il porteño che io ho conosciuto era un uomo che spendeva lo stipendio per vestire bene, che si faceva lustrare le scarpe più volte al giorno. Mai questo porteño, che possiamo dare come modello ipotetico, ti invitava a casa sua, perché temeva di mostrare di appartenere a una classe inferiore. Già si era formato, non tanto fortemente come deve essere oggi con tutta questa follia del neoliberalismo, questo personaggio, questo tipo di arrampicatore.
CDM: Tra gli scrittori uruguaiani della sua epoca, ha conosciuto Felisberto Hernández?
JCO: Sì, nutro una grande ammirazione per i libri di Felisberto. Siamo stati molto amici. Lui aveva un’ossessione: era anticomunista a morte. In realtà questo non mi importa, metto da parte le sue preferenze politiche. Lavorò molto tempo alla radio pagata dalla CIA per denunciare le persone che se ne andavano da Montevideo in Russia, via Praga. Era un anticomunista malato, non è che lo facesse perché lo pagava la CIA, lui odiava i comunisti. C’è una sua corrispondenza con una signora, Paulina Medeiros, dove le idee di Felisberto vengono fuori ben definite. Certo, la sua era pura letteratura, come deve essere a mio giudizio. No, non a mio giudizio, ma secondo il mio gusto, la mia opinione personale.
CDM: E nel caso di Borges? C’è qualcosa simile?
JCO: Dal punto di vista politico, in confusione totale. Hai letto il libro Borges a contraluz di Estela Canto dove parla dei suoi amori con Borges? Lì si vede bene il problema dell’impotenza di Borges. Mi ricordo che la conobbi all’epoca in cui me la facevo con i Girondo.
CDM: Con Oliviero Girondo e Norah Lange?
JCO: Sì, Norah. La ricordo molto bene. Non dico che ebbe sfortuna perché poi a lei che importò, però è vero che non le si riconobbe mai l’importanza che aveva come scrittrice, come narratrice. Ricordo il suo libro Persona en la sala. Io ho avuto una grande amicizia con Norah e Girondo. Tornando a Borges, quando è stato qui, ci vedemmo, a Barcellona. Diede una conferenza, facemmo una riunione e dopo andammo a mangiare in un ristorante, stava con María Kodama. Mi ricordo che lei lo aiutava a mangiare la zuppa, lui non vedeva, ovviamente.
CDM: Come è stata la sua relazione con Cortázar?
JCO: Siamo stati molto amici. Meglio non parlare della morte di Cortázar e di quella di sua moglie Carol. Lui inventò con grande talento. Ho qui la raccolta dei suoi racconti. È una cosa che rileggo ogni tanto. La rileggo con grande ammirazione. Certo, in primo piano c’è sempre il racconto L’inseguitore (SUR, 2016), però ce ne sono altri molto buoni.
CDM: Lei ha scritto un racconto, “La larga historia”, e dopo venti anni l’ha riscritto ampliandolo. Anche in Lasciamo che parli il vento c’è un capitolo che anni prima pubblicò come un racconto. Potrebbe spiegare come è stato questo processo di riscrittura?
JCO: Non so. A quei tempi, alcuni amici mi chiesero un racconto per la rivista Marcha. C’era Ángel Rama, anche Rodríguez Monegal. Quindi io gli diedi un capitolo del romanzo che stavo scrivendo. Rama lo pubblicò come un racconto (si chiama “Justo el treintaiuno”). E siccome era parte di un romanzo che pubblicai dopo, molta gente disse che non si accordava bene con il resto. Non saprei dirti come successe che ripresi un racconto e lo riscrissi, aggiungendo o ampliando un’altra storia che era lì, forse insinuata.
CDM: Che contatti ha avuto qui, a Madrid, con la narrativa spagnola?
JCO: Quello che mi è successo è questa cosa che si chiama, o si potrebbe chiamare, casticismo o castizo[1], per me, come barbaro del Sud quale sono, è insopportabile. Leggo molti romanzi scritti da autori spagnoli e non ho l’impressione di un uomo che sta scrivendo, raccontando qualcosa, ma che sta recitando, perché ha un potere oratorio favoloso. Immagino cosa avverrà qui con le feste del Quinto Centenario quest’anno, i discorsi che dovremo sopportare. Inoltre inviteranno molti latinoamericani, e quelli della parte tropicale pure sono tipi rabbiosi, perché parlano e parlano. È famosa la barzelletta dei due poeti centroamericani che si incrociano per strada, allora ognuno mette la mano sotto il cappotto – non per estrarre una pistola ma per dire: “Se mi leggi, ti leggo”. Sono verbalisti. Ora forse il luogo in cui la lingua se la passa peggio è forse nel Río de la Plata. C’è un libro di Borges, El idioma de los argentinos. Voglio dire che c’è una tendenza, per influenza europea e molto probabilmente inglese e francese. Per esempio, in Borges è visibile l’influenza inglese. Più di un suo racconto mi ha dato l’impressione che fosse stato scritto in inglese e tradotto dopo, ovviamente, per la pubblicazione. Ora, bisogna considerare che la Spagna ha avuto quaranta anni di dittatura militare; una dittatura di preti e militari, come diceva Valle Inclán.
CDM: A parte gli spagnoli, legge qualche scrittore europeo contemporaneo?
JCO: Ho avuto tante delusioni, soprattutto i best-seller imposti qui a Madrid –e credo in tutto il mondo – per la propaganda. Per esempio, Il Profumo di Suskind; le cose di Umberto Eco.
CDM: E Thomas Bernhard, che va tanto di moda?
JCO: Per me leggere Bernhard è lo stesso che parlare con un balbuziente che per di più, soffre di amnesia, perché ripete e ripete. Però è arrivata la fiumana e, bene, è un genio! Io non lo posso sopportare. Ho letto due suoi libri e non ho voluto sapere più nulla.
CDM: E Kundera?
JCO: No, lui no. Ho letto L’insostenibile leggerezza dell’essere e non mi ha convinto. In un altro ordine di cose, si è formato un movimento che viene dagli Stati Uniti, che vogliono chiamare postmodernismo. Ossia, è finita la storia, sono finite le ideologie. Più che un movimento è l’azione di tutta l’estrema destra. E l’estrema destra è qualcosa che non possiamo evitare perché estrema destra, per esempio, sono anche gli islamici. Bene, ogni individuo che dice di avere fede, anche se si tratti di fede nel River Plate o nel Boca Juniors, è un essere pericoloso, perché dalla fede si passa al fanatismo con molta facilità.
CDM: Come è stata la sua partecipazione nella giuria dei premi Cervantes?
JCO: Lì ho litigato, o forse Octavio Paz ha litigato con me. In realtà non è stato proprio un litigio, si è trattato di un suo rimprovero. Paz si rese conto che nella giuria io avrei votato per Alberti, perché c’erano due candidati: Alberti e lui. Allora mi mandò una lettera rimproverandomi la mia scelta e dicendo che quando ero stato in carcere a Montevideo, lui aveva firmato un manifesto che richiedeva la mia libertà. Manifesto che firmò anche Borges. Divertito, Borges, prima di firmare disse a Bioy: “Sei sicuro che non è comunista?” Gli assicurarono di no e quindi firmò. Bene, io risposi a Paz che non avevo appreso del suo intervento perché tutti questi documenti li riceveva quello che allora era il capo della polizia. D’altro canto, io ho sempre sospettato della posizione politica di Paz. Come gli disse Vargas Llosa: “Pensatore del PRI”. E che il PRI “era la dittatura perfetta”. Definizione che condivido.
CDM: Sempre al premio Cervantes, lei ha appoggiato un giovane scrittore spagnolo?
JCO: Quindi lo sapevi! Sì, mi diede molto fastidio che filtrarono a un giornalista il nome dello scrittore che avevo votato. Era Antonio Muñoz Molina. Io credevo che dovesse essere un segreto.
CDM: Ha mai pensato di scrivere le sue memorie?
JCO: Mai. Mi interessa solo inventare, scrivere. Può darsi che ci sia molto di biografico nei miei romanzi, non pensato né intenzionale, ma in maniera sottile. Se facessi un bilancio e pensassi di scrivere le mie memorie, non potrei mai pubblicarle perché potrebbe fare del male a molte persone.
CDM: È stato invitato, in diverse occasioni, a tornare a Montevideo ma non è voluto ritornare, no?
JCO: Ormai no. Sono passati quindici anni.
CDM: Sarebbe come tornare al passato?
JCO: “Il passato che rimpiango e che non tornerà più”, come dice il Mago. Inoltre loro non sono più uguali, come dice anche una poesia di Pablo Neruda: “Noi, quelli di allora, già non siamo più gli stessi”. In realtà, io non voglio vederli né voglio che mi vedano. Sono molto vecchio, fisicamente impresentabile.
[1] Una posizione legata al “carattere nazionale spagnolo”, di natura fortemente reazionaria. https://es.wikipedia.org/wiki/Casticismo