Nessuno aveva già la fuga nel cuore – nel cuore come a dire in testa, nelle gambe, un ordine già trasmesso dagli emissari della scatola cranica alla periferia degli arti, nel cuore come a dire un lutto in fase di digestione che interessa più il colon che gli organi della circolazione, nel cuore come a dire un equivoco – quando incontrò il Mante e Agathe in piazza. Bardo Marino non c’era, non rispondeva come prima alle sue sollecitazioni, e in fondo lo stesso Nessuno non intendeva dilungarsi in spiegazioni, lo spettacolo che aveva preparato per il suo addio doveva nutrirsi dell’ignoranza, dello stupore degli spettatori, ignoranza a cui Agathe sopperiva con la sua ossessione profetica. Nessuno avrebbe giocato due ruoli: da un lato agire pienamente, in preda alla pura imminenza, al freestyle patetico dell’emozione come in una performance poetica, dall’altro godere guardandosi dall’esterno, godersi il pianto in diretta, operando una complessa scissione di sé tanto spaziale come temporale, uno scarto o devianza, operazione dal tasso tecnico elevatissimo (il grado più alto sulla scala del virtuosismo: Paganini o Maradona a seconda dei registri di riferimento).
Tanto l’Indio non si muoveva da là, sul piedistallo di marmo di una statua nel centro sputato, goniometrico della piazza, col suo chitarrino tre-quarti da 30 euro, oltre il settimo tasto steccava lui o steccava il chitarrino, e in ogni caso raramente in quella piazza si arrivava oltre il settimo tasto del chitarrino – il che cozzava brutalmente col grado Paganini della performance di Nessuno, e questi lo sapeva e ne soffriva tanto che forse il cuore della fuga stava proprio in questo scompenso, in questa rivoltante assenza di perizia tecnica con cui nonostante tutto si cercava di accendere gli animi.
«C. non c’è» (nello spettacolo di Nessuno, C. è Bardo Marino). Agathe comincia con una variazione su tema parmenideo: chi c’è c’è, chi non c’è non c’è.
Nessuno ne è in qualche modo sollevato, la sua assenza lo alleggerisce – la colpa estetica di partecipare o allestire uno spettacolo penoso. «Preferisce accarezzare la sua ultima chitarra acustica.»
Agathe si sforza di sorridere, lei sola intende l’aria di lutto che tira in piazza e le pare una battuta inutile, inutilmente sostenuta mentre vuole sottendere pura volgarità, tanto vale farla esplodere, un’inutile caduta di stile, tuttavia ride perché è importante, pensa, assecondare Nessuno nelle sue evoluzioni metonimiche.
«E fa bene» aggiunge Nessuno indicando con lo sguardo lo scalone di marmo dove l’Indio, sul sesto tasto del chitarrino, stecca una settima, trasformando quello che doveva essere un accordo temporeggiatore, un vettore di cambio e movimento armonico, in un suono squillante e patetico, fin troppo connotato (era un accordo minore). Pensa Nessuno che se l’intervallo di nona è elegiaco e femmineo (Catullo, Pavese o Properzio), la settima è Quinto Fabio Massimo, Cunctator. Pensa inoltre che il succo resta l’intervallo di terza, il suo grado (maggiore o minore) o la sua scomparsa (come nell’armonia blues di base, dove la terza dell’accordo di dominante si nasconde, si protegge per protrarre il gioco), chiunque tu sia e qualunque musica tu suoni (pensa a Vivaldi e David Gilmour), e che poi in fondo la musica non è arte sua.
«Tu invece dove sarai domani?» Agathe si lancia nel delirio profetico e Nessuno si chiede di nuovo se sia il caso di lasciarla partecipare dall’interno o invece di escluderla nettamente dalla regia della performance fin dall’inizio. Entrambe le opzioni presentano difficoltà sostanziali, dovute in gran parte alla natura oracolare di Agathe, la Pizia. Non ignora la sua responsabilità nell’attitudine della ragazza – lui stesso l’ha spinta, l’ha sedotta a essere Pizia. Agathe infatti è la prima lettrice di Nessuno.
Nella rappresentazione pensata della performance, nella sua anticipazione e preparazione, Nessuno aveva considerato entrambe le possibilità: la partecipazione di Agathe, coregista dello spettacolo, cosa che avrebbe richiesto un’intimità, una parità emozionale in forte contrasto con le strutture relazionali sedimentate tra i due, autore e lettrice; o la sua esclusione, cosa invece impossibile per le stesse ragioni. L’unica soluzione, come sempre con Agathe, si diceva Nessuno anticipando l’irreversibile, dev’essere giocare di nuovo il ballo de “lo stesso piede in due scarpe diverse”, ballo che prevede un ferimento all’inizio e uno alla fine. Bisogna sperare che lei goda ancora a essere ferita. Che la sua natura di lettrice, occhio analitico, resista al peso del suo appetito, del suo spudorato amore per Nessuno. Così sarà, così sia, si dice mentre si avvicina all’Indio, e gli pare di muovere il primo passo della performance.
Il Mante invece se ne fotte. Troppo sofisticato per non accorgersi della tensione elettromagnetica (come altrimenti definire il pathos amoroso dell’abbandono, dell’ultimo saluto) e troppo bestia per pensare di non goderselo, per fare del pensiero un problema o un impaccio. Così, Mante bello! si trova a pensare esultando Nessuno mentre lo osserva ubriacarsi a un ritmo premoderno, come un signore feudale a un festino – più veloce ancora, perché il cibo scarseggia, cioè all’inglese, per sottrazione di alimenti, a tutta bile!
Così il Mante si avvicina con un salto all’Indio, quasi lo abbraccia mentre questi si sforza di eseguire il bridge di una canzone troppo difficile per le sue corde – l’improvvisa presa del Mante funziona, alla fine, come una giustificazione plausibile per le sue stecche. Cantano insieme (“¿qué cosa fuera, qué cosa fuera, la maza sin cantera?”) e si direbbe quasi che il Mante lo sfotta mentre all’Indio parte un falsetto, tutto il cerchio di persone intorno a lui parte in falsetto e stona. E più che di una performance, si tratterebbe allora di una preghiera – lamento o richiamo all’originale, surrogato: gettati per terra nel centro sputato della piazza, supplicano il totem dell’emozione di presentarsi, attraverso il ricordo, nella materia simbolica delle loro teste, poiché l’esecuzione, da sola, non ha la forza o la perizia per incarnarlo, per farlo diventare corpo davanti ai loro occhi. È un rito alienato e il Mante non lo sfotte, è ubriaco e si lascia fare.
Anche Nessuno siede accanto all’Indio e canta – deve nutrirsi di quell’energia, per quanto imprecisa, per quanto volgare e storta, per operare il suo spettacolo. Gira il vino ma Nessuno è già un passo oltre e si riempie di whisky cola, cosa che in altra circostanza avrebbe provocato l’indignazione dell’Indio, portatore sano di pisco o rum o al massimo tequila (la tequila potrebbe cacciarla, a rito inoltrato, dallo zainetto che infatti a stuzzicarlo tintinna di vetro o metallo).
Quando Nessuno siede con gli altri e canta, Agathe può infine dirsi che partecipare è lecito e si avvicina – ma non siede. Li guarda e negli occhi ha la distanza, forse l’invidia di chi in fondo non può partecipare del tutto. Agathe è severa e ha lo sdegno facile, il giudizio facile; non sa godere, per questo è una grande lettrice.
Ora Nessuno prende la chitarra e Agathe si accende per prevedere che pezzo suonerà, che significato questo pezzo avrà in relazione alle sue scelte future, al futuro di Nessuno, al suo futuro con lui o senza di lui. Agathe si scioglie quando il suo cervello si scioglie – ma non è certo la musica di Nessuno il motivo del suo amore spudorato. La musica, infatti, non è arte sua.
Nessuno aveva in testa di eseguire due pezzi: Mediterraneo, di Serrat, e You and whose army, dei Radiohead. Il primo, si diceva in fase di preparazione, è un rimando fin troppo sputato, nostalgico e spudorato, al suo prossimo, imminente addio. Forse alla fine, si diceva. Poi il languore dell’ubriachezza lo avvolge – la nostalgia illanguidita si presenta qui come idolo meccanico, come reazione pavloviana – e attacca.
“Quizás porqué mi ninez, sigue jugando en tu playa” Nessuno esegue con discreta perizia col chitarrino, mentre la sua voce, per quanto si sforzi di pensarla vibrante, precisa il giusto ma soprattutto vibrante, calderone tragico, la sua voce ha un’estensione limitata e al primo acuto Agathe finge di non sentire.
Telecomandato dall’ubriachezza, Nessuno si dà. È il castigliano, lingua d’emozione e bestemmia, a spingerlo oltre la soglia emotiva. Ora chiude gli occhi – conosce il testo e i passaggi armonici a memoria, si permette due momenti d’improvvisazione fischiando sugli accordi – chiude gli occhi e opera per la prima volta la scissione performativa per la quale è venuto in piazza. Sostenuto dal tono trionfale e godiamoci-il-pianto del pezzo, si accende e da un lato canta (mentre la voce narrante del pezzo simbolizza la sua propria morte e l’addio e la tomba a picco sul mare, Nessuno è sull’orlo del pianto, e non si frena, è questo il punto, accelera e piange, canta singhiozzando, al che Agathe, presa nel vortice, si gira di lato fingendo di riconoscere e salutare qualcuno in piazza e secerne due lacrime che asciuga con la punta dell’indice per non rovinare il make-up leggero ma sostanziale, mentre il Mante non guarda Nessuno, è concentrato a cantare, a figurarsi la sua propria tomba sul mare, quando sarà il momento, e il pensiero che quella tomba possa trovarsi nella sua città natale gli provoca uno spasmo di schifo, un’interruzione del trasfert emotivo); dall’altro si accende una voce nella sua testa, la scissione, la voce Zarathustra che prende a guardare e giudicare l’intorno, quel gruppo di uomini così giovani e così già morti, quelle tare-umane, compreso Nessuno, quei devoti del languore meccanico che chiamano arte o poesia o musica, siete solo figli di dio, andate a pregare, avete già il vostro santuario e i vostri riti, continuate a pregare cantando e piangervi addosso.
Infuocato dalla voce Zarathustra (la voce Z. da qui in poi), Nessuno esegue due volte il ritornello sul finale per chiudere in crescendo e di colpo, con un’ellissi violenta che fa sobbalzare lo stomaco semi-vuoto di Agathe. La voce Z. è un particolare stato di coscienza, frutto di lunghe pratiche di violenza autoinflitte sulla propria tara-umana, uno stato il cui accesso è riservato e performativo; la voce Z. è ciò che, di Nessuno, ha innamorato Agathe.
«Siamo i figli della notte» dice Nessuno senza accorgersi di parlare. Avvenuta la scissione, la voce Z. diventa una sorta di fantasma ossessivo, controcanto costante: per ogni azione, per ogni gesto, forgia in calco il suo doppio per mostrarlo nella sua infima natura di equivoco, di secrezione fisiologica simbolizzata.
Ed è qua che il Mante prende di forza il chitarrino dalle mani di Nessuno e attacca Voglio di più, di Pino Daniele. Canta bene, decisamente meglio di Nessuno, per quanto tenda a semplificare le armonie e i fraseggi chitarristici.
«I figli della morte» Agathe sussurra mentre si accovaccia accanto a Nessuno, sullo scalone. “Non te ne andare” e gli stringe la mano.
«Voglio di più/ di quello che vedi» canta il Mante con la voce ondivaga (tutti sanno quanto il whiskey gli faccia girare lo stomaco e gli infiammi il canale della digestione). L’improvviso calore della mano di Agathe costringe Nessuno a reagire – se lo aspettava ma sperava non accadesse, teme ora di essere costretto a giocare fuori dallo script anticipato della performance. Eppure questo è il succo del ballo “lo stesso piede in due scarpe diverse”. Bisogna andare e ferire.
Esaurita la forza della stretta, come vergognosa o impudica, troppo pudica per osare pur avendo osato, Agathe si alza e si allontana. Nessuno, a quel punto, agisce in preda a stimoli preordinati, codificati in estetica come Galateo o Stilnovo, e la insegue. L’interruzione del flusso, l’ossessione castrata della voce Z. che già ha sentenziato la fuga e lo squallore troppo umano dell’intorno, lo stordisce. Non mente quando implora Agathe di non andare, di restare con loro – non mente, tuttavia non parla con sincerità. Come dire, d’altra parte, questa ossessione del superamento, del seppellimento della tara-umana?
«Perdi tempo» fa Agathe. «Perdi tempo con me, con loro. Vattene ora, lasciami respirare. Sai cosa posso offrirti, l’hai rifiutato. Perché mi perseguiti?»
«Non l’ho rifiutato.» Come spiegare a questa giovane donna che l’amore, l’amore tra loro, nel calderone in cui si sono messi, in cui lui sputa fuori e lei raccoglie e analizza, in cui lei è testimone e occhio e lui ventre materico, quello è già amore, quel contatto, quel transfert di volontà in forma di segni metonimici (scrittore-lettore), che quegli stessi segni che lei ha a lungo letto e interpretato e venerato – che quello è il dono più generoso che possa darsi tra due animali della stessa specie.
Ora Nessuno si lancia in un discorso associativo, dove l’attrazione sessuale si configura come forza repulsiva e opposta alla relazione scrittore-lettore, alla produzione di materia simbolica che questa relazione sottende. Ha perso lo slancio e non riesce a chiudere con un colpo a effetto. In parte mente.
«Sei ridicolo quando menti. Il mio corpo ti disgusta.»
«Non è così semplice, non è così.» È così: la condivisione del dolore, dei dolori più meschini, delle illusioni frustrate, delle traduzioni simboliche di tendenze maniaco-depressive (la materia poetica di ogni giovane tara-umana occidentale all’alba del ventunesimo secolo, le sue fughe simboliche) – in questo calderone, il corpo dell’altro, del lettore, di Agathe, diventano la rappresentazione più compiuta dello stagno o dell’impotenza, l’inibitore, il repulsore per eccellenza. Finanche la sua fica, la sua immagine pensata e la sua immagine percepita, sembrano puzzare come uno stagno. È così.
Nella scena contrita del dialogo tra Nessuno e Agathe (il contrario della scena godiamoci-il-pianto), la voce Z. si manifesta di nuovo con un messaggio stranamente cristallino, risoluto: “Liberare il corpo, il sesso, la stupidità. Liberare la zozzimma. E dimenticare, dimenticare tutto in fretta.”
È l’Indio ora a salvarlo dallo stagno. Guru del pathos e dell’emozione, si avvicina e abbraccia Agathe in lacrime e la porta con sé, in mezzo agli altri. La comunità è la redenzione, la condivisione del dolore. Il dolore, di fatto, si fonde, perde individuazione – i singoli, specifici motivi diventano un unico groviglio, un groviglio di tutti, uguale per tutti. Questa condivisione del lutto è l’unica forma di democrazia che i ragazzi, i figli della notte, riescono a contemplare.
Come possa, d’altra parte, un giovane uomo come Nessuno frequentare un esule, un sacerdote del dolore come l’Indio è un mistero – è il succo stesso del seppellimento e dell’equivoco.
I figli della notte conoscono ogni dettaglio della storia dell’Indio: la fuga in Messico quando in Cile si estendeva l’odore di golpe, il ritorno, la resistenza e la prigionia dopo la morte di Allende, le sue 137 canzoni di protesta, la morte per tortura della sua donna (dal nome anagrafico ignoto, sempre riferita con religioso rispetto come “la mia donna”), l’esilio in Europa, il rifiuto di tornare in Cile in nome dell’idolo del dolore e dell’esilio.
È il momento della tequila. Il Mante, con fare rituale, la caccia dallo zaino marrone dell’Indio mentre questi attacca Te recuerdo Amanda, hit di fine estate del golpe cileno. Agathe resta rannicchiata accanto all’Indio mentre Nessuno si libera dalle scorie dell’impasse, dello stagno.
Fare spazio agli alcolici bianchi dopo aver consumato whisky non è da tutti. Richiede una grande dose di spirito di sacrificio, di fatalismo digestivo. Agathe declina. Il Mante è il primo a azzannare la bottiglia, per poi passarla a Nessuno. Nel gruppo i due (insieme a Bardo Marino, assente per scelta tecnica) sono conosciuti come “I Funarotta”. Le loro scorregge quasi sincrone indicano un’elevata presenza di bile travasata nel canale dell’amore.
Mentre l’Indio intona il suo canto di guerra, e la nostalgia si sparge a vampate per l’aria imprevedibile di fine aprile – dalle corde del chitarrino, per direttissima, la nostalgia, spleen del chitarrino e dei figli della notte, si trasferisce ai ricettori dei ragazzi seduti ubriachi sullo scalone – Nessuno, isolato dal gruppo per via dei succhi gastrici in tempesta, avverte infine un seme d’idea crescergli dentro e inondare i canali nervosi, un embrione che per crescere e sbocciare vuole per sé la pratica liberatoria della performance – che è poi il succo, il motivo di questo teatro, una scienza e una pratica dell’invocazione. Si mette in piedi per non soccombere ai fluidi biliari, per trattenere la forza e distrarla dalla tendenza entropica a svanire, a liquefarsi in un pensiero non trattenuto (la delicatezza con cui si prende cura, ogni volta, della promessa di un’idea che lo squarcerà, fa di lui un poeta-madre, o come scrive Bolaño ne I detective selvaggi, un maricón) e appena l’Indio smette di cantare, gli sfila il chitarrino dalle braccia – lo sguardo atterrito di Agathe ora non intacca la sua risoluzione.
Nessuno esegue una sua riduzione per chitarra e voce del Canto d’acqua stillante dalla Terra desolata di T.S. Eliot – una versione in cui dominano le terze minori e i passaggi armonici di quarta, dove l’elemento dinamico è dato principalmente dall’intervallo di quinta diminuita, la misterica nota blue che tuttavia, fuori dalla logica della scala pentatonica, assume un colore puramente grottesco. La sua voce – al meglio, la melodia che alla voce è richiesto d’eseguire, la sua voce potrebbe sostenerla, eppure nei più intensi momenti di scissione, dove pensa mentre canta, dove pensa ad altro, a tutt’altro, mentre esegue, in questi momenti la sua voce stecca. Non importa, in ogni caso. La qualità media dello spettacolo proposto da Nessuno è decisamente superiore a quanto i figli della notte siano soliti sentire, con l’eccezione della voce del Mante in Voglio di più prima di ridursi a uno straccio da cucina.
Il Mante agonizza bestemmiando Platone a caso sullo scalone di marmo, mentre Nessuno, concentratissimo, elabora connessioni un attimo prima inesistenti, impensate. Mentre intona “if there were the sound of water only”, l’idea che pareva voler essere sputata fuori pochi minuti prima si dichiara in forma compiuta nella sua scatola cranica, nella figura nitida di uno spazio da conquistare, di una finta, una finta di corpo per conquistarlo. Sinistra, hesitation, poi destra di colpo. Una finta e d’improvviso, davanti, il punto di fuga: dietro, l’impaccio, l’ostacolo; in mezzo, lo spazio libero, un soffio di vento. La conquista dello spazio – una finta come un depistaggio.
Come un depistaggio, dice mentre la chiusa arpeggiata del pezzo si compie e declina (corde vuote per sfumare in la minore). Solo gli occhi di Agathe lo scrutano attenti, mentre il resto dei figli della notte, Indio compreso, sono persi nell’orrore presagito e addolcito dalla quinta diminuita, nell’orrore dell’acidità tropicale della tequila. Nessuno, gli occhi chiusi per non distrarre i circuiti cerebrali con la visione, incurante di quelli di Agathe invece decisamente aperti e inquisitori, occhi di lettrice, il chitarrino ancora in grembo come una pietà rinascimentale, raccoglie il respiro e dice:
«Per il fatto
che io nasco
gestando
gestando
dalla mia forza
episodica
e fratta
io ho smesso
di abitare.»
Agathe conosce il titolo di questi versi di Nessuno, ricorda su quale carta sono stati scritti la prima volta, in quale faldone della sua scrivania sono archiviati, e tutta questa conoscenza, questa logistica dell’esperienza, non le impedisce di piangere, da un lato, e di trovare lo spettacolo estremamente paraculo (questo perché disconosce in gran parte, o non vuole saperne di conoscere, le condizioni nelle quali, da una prospettiva strettamente fisiologica, avviene quello che negli ambienti umanistici si definisce creazione letteraria). Anche Agathe si scinde e si sdoppia, ma non è questo il punto.
Il punto è che mentre Nessuno pronuncia quei versi, mentre li scandisce e ne ricorda altri
(L’uomo dell’atroce,
quell’uomo
si è già superato,
è natura –
morire
non è più delle sue
necessità)
una fame lo assale, una fame più pressante e accentratrice del vuoto che la tequila descrive nel suo stomaco, una voglia di uccidere e sporcare, di imbrattare – il cuore della fuga pare ora assomigliare a un seppellimento più radicale di quanto pensasse nella rappresentazione anticipata della performance, a un dare via tutto l’abito umano, compresa la parola, soprattutto la parola.
Non perde tempo ora Nessuno, non può. Si fa spazio tra i corpi stracciati dalla tequila e dalla musica fino a trovarsi, in piedi, a un passo da Agathe. Il cuore della scissione si manifesta con una concentrazione inaudita di fluidi nei tessuti cavernosi, un’erezione esplosiva. Come un infame – infame come la sua improvvisa, inaspettata manifestazione di appetito sessuale – prende per mano Agathe e la porta fuori dal cerchio degli stracci dei figli della notte. (Cosa legge Agathe nei gesti di lui? Un compimento, uno stupro imminente? Non è chiaro, eppure nell’indecisione, nella speranza che si tratti proprio di una promessa di stupro e non dell’ennesimo rifiuto, dice sì, sì, come Molly alla fine del più lungo prosimetro a memoria d’uomo.)
Mano nella mano, i due imboccano una stradina laterale, un vicolo cieco conosciuto dagli abitanti notturni della piazza come Muro del Pianto per l’urina che lo benedice ogni volta. Agathe ha gli occhi sbarrati e in verità non vede niente, sente ora di essere come una Pizia che riceve infine il messaggio, l’impossessamento. Così, non solo obbedisce ai gesti di Nessuno, ma li anticipa rappresentandoseli, desiderandoli preventivamente nel recinto della testa. Accompagna il movimento della mano di Nessuno quando questi la spinge verso il basso, quando la obbliga a succhiarlo furiosamente, vomitando quel poco di alcol bevuto (la velocità con cui le azioni si sviluppano, velocità proporzionale al timore di Nessuno di sfumare il coito troppo presto, per l’alcol, per la stanchezza, per l’infamia, impedisce ad Agathe di fissare con gli occhi il quadro che le si presenta davanti, cosa che le permette, più avanti e consumato il rito, di alimentare il suo proprio ricordo, la sua immaginazione, la sua vita interiore, ricostruendo e modificando a piacimento ogni dettaglio dello stupro, della vena arcuata lungo la parete sinistra – o destra? – del pene di Nessuno, dell’asimmetria tra le due sacche dei testicoli, delle macchie di piscio nella sua biancheria, dettagli intravisti e non del tutto visti). Quando Nessuno la rimette dritta e Agathe si rimette dritta accompagnandone i pensieri e i desideri, quando si gira verso il muro, Agathe ha davanti agli occhi la parete nera e pisciata: in quel momento, chiudendo gli occhi, le pare di percepire il quadro nella sua interezza, mentre Nessuno la trafigge da dietro con la furia della prima e ultima volta (il secondo ferimento del ballo del piede e delle scarpe), Agathe prende a piangere meccanicamente, per un dolore localizzato e in fondo insignificante, mentre Nessuno le stringe la guancia sul collo per consegnarle il messaggio nel timpano di un orecchio, dice: «Non scriverò più niente».
Il racconto mi è piaciuto. C’è sempre qualcosa da imparare… parlo di me.
Non c’entra una mazza, ma in una sala di Milano è uscito “The end of the tour”, devo affrettarmi per vedermelo. E sono certo che saremo in pochi.
Auguri per il tuo compleanno.
Enrico
Grazie Enrico. Tra l’altro proprio da qualche settimana ho – infine, con un ritardo disgustoso – cominciato la lettura di IJ con l’intenzione di affondarci dentro. Rispetto al film: anch’io lo guarderò, ma vedere Marshall di How I met your mother nei suoi panni mi fa uno strano effetto repulsivo.