Cuore Cavo, opera seconda di Viola Di Grado (edizioni e/o, febbraio 2013). La recensione è stata pubblicata per la prima volta nella rivista Ô Metis, col corredo delle note del Filologo e del Cane.
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Ha esordito nel 2011 con Settanta acrilico, trenta lana e questo esordio le è valso il Campiello Opera Prima e il Rapallo Carige. Quest’anno ha pubblicato il suo secondo romanzo, più difficile del primo, perché doveva essere quello che ne avrebbe confermato il successo e il talento, almeno per la critica, e così pare sia stato. Cuore cavo di Viola di Grado è uscito all’inizio del 2013 per le edizioni e/o e chi avesse la curiosità e il tempo di dare un’occhiata alla rassegna stampa pubblicata sul sito della casa editrice, potrà averne la prova. Scoprirà, tra le altre cose, che è l’opera di un’autrice giovanissima, esperta in lingue e filosofie orientali, che sa muoversi con disinvoltura tra i filosofi taoisti e la diaristica giapponese dell’anno mille, che cita Laozi e la Storia di Genji di Murasaki Shikibu, ma anche Philip Dick e Virginia Woolf. E non si stupirà del fatto che Viola di Grado abbia dichiarato in varie interviste che a ispirare Cuore cavo, come molta della sua produzione narrativa, sia stato un «sogno sciamanico», in seguito al quale la scrittrice si è resa tramite tra il suo personaggio e il lettore.
In cosa consiste esattamente questo sogno.
Una studentessa catanese prossima alla laurea in biologia decide di togliersi la vita il 23 luglio 2011. Lo fa nella vasca da bagno della casa di sua madre e questo è l’inizio:
Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa. Il 23 luglio alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue.
Dorotea Giglio, la studentessa suicida di cui sopra, ha avuto un rapporto problematico con la madre, non ha mai conosciuto suo padre ed è stata lasciata dal fidanzato con un sms. Ha sofferto di disturbi psicologici la cui natura resta ignota. La sua narrazione post-mortem va dal taglio delle vene all’anno 2015, cioè all’anno della definitiva rarefazione del suo Io o di ciò che tenta, lungo tutto il romanzo, di dirsi tale. La ragazza, infatti, o chi per lei, pur non essendo più in grado di leggere, ha tuttavia conservato la capacità di scrivere. Ed è in questo tentativo di comunicarsi, evidentemente fallimentare in vita, che consiste il lungo racconto di Dorotea – e la trasposizione sulle pagine consegnate al lettore del sogno sciamanico di Viola. Un tema, quello della scrittura e della sua capacità di farsi segno, che l’autrice non manca di rendere esplicito giustificando, pur senza interrompere il flusso della narrazione, la possibilità della voce di Dorotea. Detto altrimenti, la morte della ragazza ne fonda la scrittura.
Si tratta di una narrazione che procede su due binari. Da un lato ci sono i flashback che riguardano la sua esistenza vissuta e che in qualche modo giustificano il carattere estremo della sua scelta: delineano il personaggio di Dorotea, il contesto in cui si è formato, le persone che ha incontrato e i sentimenti che queste hanno suscitato in lei. Sono sentimenti che esprimono stati di perenne disillusione emotiva, deliri di onnipotenza di segno negativo, inadeguatezze, incapacità di comunicazione, impotenze a vari livelli, per non dire tutti. Dall’altro lato c’è il diario che riguarda il presente di Dorotea, o meglio, la gestione postuma – e attualizzata nel tempo del racconto – di una dimensione che, per definizione, è potenzialmente eterna.
In cosa consiste esattamente questo diario.
Se è vero che la morte è – materialisticamente – un passaggio di stato, allora il «dopo» non può non essere registrazione minuziosa e fredda, e tuttavia struggentemente ossessiva, del progressivo disfarsi della carne, dello svuotarsi del cuore – cavo anche per questo – a causa dell’opera incessante di batteri, insetti, microbi. Ed è quanto Dorotea fa:
07/08/2011, ore 7.42: le centosette uova della mosca sarcofaga si sono schiuse: sono uscite larve tremende. Le chiamo «la carica dei centosette», ma non mi fa ridere.
Ore 9.42: le larve si sono raggruppate tutt’intorno alle mie labbra secche. Mai più baci, insulti, mai più parole.
Ore 10: silenzio.
Ma se la morte è anche un attraversamento che segna il passaggio a una dimensione altra, a una dimensione di pura energia, a un’irrealtà in cui confluisce il condensato mentale ed emotivo di ciò che ora stenta a definirsi Io, allora il diario di Dorotea non può non arricchirsi della riflessione che la ragazza avvia su sé stessa, riflessione intervallata dalla comparsa della serie di personaggi in cui si imbatte nella sua discesa tra i morti, dalle loro voci, dai frammenti della loro esistenza. La condizione in cui Dorotea viene a trovarsi è probabilmente il «fuori di sé» per eccellenza, non tanto, banalmente, perché la morte è, come che la si voglia intendere e in fin dei conti, un’esperienza di uscita da qualcosa, ma soprattutto per le modalità attraverso cui l’essere «fuori di sé» si realizza nella cavità del cuore di Dorotea, per la polarità che questo essere «fuori di sé» genera nell’Io, per il residuo di identità che tale esperienza pur sempre presuppone, identità che, infatti, continua incessantemente a dirsi. È questo il motivo che sembra stare al fondo di Cuore cavo e questo motivo non teme profondità, né altezza, persegue sé stesso fino in fondo, enunciandosi in modo asciutto, nominale, anaforico e con un lessico di mirabile precisione tecnica che, pur se con qualche punta di virtuosismo e maniera, sa farsi poetico e stranamente bello.
Ho letto l’incipit.
Nessuna superficialità, è da quello che si decide per una pubblicazione e dovrebbe bastare per decidere se acquistare il romanzo o meno.
Ho letto, davvero.
Non può non essersi formato d’istinto un giudizio. Come animalacci giudichiamo eh.
Letto e dedicato tempo.
Rimane: sto romanzo è merda secca.