Per togliersi la vita, Ennio Barragli scelse un giorno in cui facesse bel tempo. La caduta sarebbe divenuta un volo, con lo sfondo del cielo terso, punteggiato da poche nubi dense a dare la misura del movimento. Per lo stesso motivo decise di indossare i suoi abiti preferiti; non necessariamente i più eleganti, ma quelli che lo facevano sentire bene: una camicia rosso pomodoro che scendeva morbida sulla pancia in procinto di gonfiarsi, pantaloni attillati di tela verde e sneakers nere. Lo divertiva il pensiero di assomigliare a un pomodoro attillato.
Il giorno designato, Ennio aveva 36 anni, un lavoro stabile e stimolante, un’appagante vita sentimentale e relazionale. Anche per questo, la notizia del suo suicidio avrebbe suscitato sorpresa, oltre al dolore.
L’idea era arrivata tre anni prima, sulla vetta del Monte Panozzo. Ennio e i suoi amici erano stremati e saturi di adrenalina. Mentre il sole morente gli asciugava il sudore di dosso, posarono sul terreno accidentato le sdraio da campo, distribuirono equamente delle canne grosse come l’indice di un gorilla e iniziarono ad aspirare appagati di fronte allo spettacolo maestoso e banale della Natura e all’esilarante prospettiva di dover percorrere il sentiero di ritorno al buio, fatti come delfini.
Uno dei suoi amici, con la bocca già arsa dal THC, alla luce delle prime stelle biascicò:
«Come può andare meglio di così, eh, ragazzi?»
«Già, come?» Rispose a mezza bocca Ennio.
L’anno prima, sua moglie gli aveva dato il secondo figlio. All’età in cui Cristo si era incaricato di salvare l’umanità, lui aveva esaurito tutti i propri traguardi personali. Era un individuo dalle necessità semplici e in quelle tre decadi gli era andata anche meglio del previsto.
Quella notte, ovviamente, si persero senza redenzione. Trascorsero l’attesa della Forestale seduti in religioso silenzio su un paio di rocce, a smaltire la china discendente della marijuana. Quando gli agenti li recuperarono, uno dei due, tarchiato, istrionico e dal calcato accento romanesco, chiese a Ennio come gli fosse venuto in mente di farsi di notte quella pista in tali condizioni:
«Vi volevate ammazzare?»
«Non ancora».
Scherzò e si rese conto di non scherzare affatto.
Durante i primi vagiti dell’insano proposito, si assicurò di essere nel pieno delle proprie facoltà mentali. Comunicò a sua moglie di essere stressato e iniziò a vedere uno psicologo. Il dottor Brandelli, un professionista serio ed affidabile, lo tenne in terapia per sei mesi, prima di interrompere definitivamente le sedute:
«Ennio, glielo dico contro il mio interesse. Lei qui non ha niente da fare. Sta bene. Non è stressato, non ha traumi. Non credo nemmeno di aver capito cosa voglia farsi curare. Usi questi soldi per qualcosa di più produttivo».
«La verità, dottore, è che qualche mese fa ho deciso di ammazzarmi. Però, sa, non avrei voluto compiere un gesto avventato: sono venuto da lei per assicurarmi di non avere un qualche problema che si possa risolvere».
Brandelli rimase in silenzio, poi si grattò la barbetta brizzolata, appena accennata, rise imbarazzato a capo chino e gli strinse la mano, commentando che lo humour nero è solitamente sintomo di intelligenza, o di stupidità, dipende quali studi si leggono. Si accomiatarono da amici: Ennio tendeva a ispirare una naturale simpatia. Era uno dei suoi talenti.
(In seguito al suicidio, il dottor Brandelli perse il sonno, interrogandosi su come un uomo appagato e sereno potesse decidere di togliersi la vita in maniera così deliberata.
Avrebbe ricominciato a dormire dopo la pubblicazione de La corsa a vuoto: il caso Barragli, un approfondito studio sul tema che gli sarebbe valso la stima di gran parte della comunità scientifica).
L’anno seguente, Ennio lo spese assicurandosi che la sua famiglia non avrebbe sentito la sua mancanza, almeno economicamente. I suoi cari erano l’unica ragione per la quale gli sarebbe dispiaciuto morire. Giovanna, sua moglie, lo amava con ferino trasporto. La loro vita sessuale, dopo i cali legati alla nascita dei figli, era rimasta parzialmente vivace. Erano riusciti nell’impensabile opera di non essere una cosa sola, ma due individui sufficienti a se stessi, che sceglievano ogni momento di spendere la propria esistenza l’uno accanto all’altro. I figli Paola e Nicola erano talmente belli da fare male, specie perché ancora vincolati alla confusa afasia degli infanti. Sprovvisto di fede, ogni mattina, al risveglio, Ennio si trovava nell’imbarazzo di non sapere a chi indirizzare la propria gratitudine.
Accettò più commesse di quanto normalmente sarebbe stato disposto a fare. Ogni mattina entrava nel suo studio da architetto con la sicurezza che non ne sarebbe uscito prima della sera tardi. La foga venne scambiata dai più per improvvisa ambizione. Le commesse divennero sempre più importanti. Il suo nome assunse i contorni di un’idea.
(Nel primo anniversario della sua morte, un giovane ricercatore universitario diede alle stampe una monografia dedicata ad Ennio Barragli).
Durante l’ultima settimana della sua vita, Ennio affittò con una modesta somma un cubicolo in un complesso di uffici; qui trasportò il proprio computer portatile, una stampante, i fogli e alcune penne.
Con un solido capitale da parte, più vari investimenti ben piazzati, i suoi figli non avrebbero avuto bisogno di muovere un dito fino alla tarda maturità. Giovanna, data la lontananza professionale del marito, mostrava leggeri segnali di preoccupazione costringendo Ennio a essere sempre più prudente.
Nel cubicolo scrisse decine e decine di lettere precise e dettagliate in cui spiegava il perché del suo gesto. Le prime righe erano sempre occupate dallo stesso avvertimento: non è colpa vostra, non sempre tutto è abbastanza, non avreste potuto fare meglio di così, nessuno avrebbe potuto.
Il resto delle missive era riempito da congedi e ringraziamenti. La sazietà che albergava monolitica in Ennio era il risultato di tutti coloro che amava, quelli che avevano dato un apporto e un significato alla sua vita.
In un buffo girotondo, le lettere assolvevano i destinatari, per poi incolparli di nuovo.
Vergò a mano gli addii per la propria cerchia più ristretta, con la grafia elegante che lo contraddistingueva. Le righe erano regolari, la prosa lucida. Sarebbero state parte della corposa documentazione dello studio pubblicato dal dottor Brandelli.
Più il giorno si approssimava e più lo assaliva una sensazione di tepore che gli rendeva i colori più tenui, i rumori melodiosi. Fece amicizia con i vicini di cubicolo, lo trovarono immediatamente una persona amabile.
(Uno di loro, un giovane designer dalla travagliata storia di alcolismo, sarebbe rimasto talmente segnato dalla sua morte, da abbandonare per sempre la bottiglia. Il suo primo figlio si sarebbe chiamato, anche lui, Ennio).
Il giorno prima del salto, Ennio controllò le previsioni del tempo e piegò ordinatamente i vestiti che aveva scelto sulla sedia accanto al comodino.
Il caldo abbraccio del sole primaverile lo accompagnava a piedi attraverso la città, verso il centro storico e il quartiere universitario: case sciatte a uso intensivo, rappezzate quel tanto che bastava per garantirne l’agibilità. Venne accolto con calore, ma senza cerimonie, nell’appartamento di quattro studentesse. La più giovane, Ambra, studiava alla facoltà di Economia e gli vendeva l’erba di tanto in tanto. Nel tempo, il suo rapporto con Ennio si era sedimentato in una sincera amicizia.
Era strano parlare con Ambra dopo averle già detto addio su carta. Gli sembrava di essersi rovinato il finale di una storia. Il tempo con lei trascorreva impalpabile, nell’aroma di erba e merendine malsane, nei giorni scanditi da sessioni d’esame e fallimenti reversibili.
Le coinquiline di Ambra guardavano al loro rapporto con irriducibile sospetto: sicuramente scopavano, anche se non avrebbero saputo dire quando, o dove.
Prima di andare via, Ennio comprò una grossa canna arrotolata in una cartina di cellulosa trasparente. Sembrava uno strano snack vegetariano.
(Nella propria busta, insieme alla lettera, Ambra avrebbe trovato dettagliate indicazioni per contattare un collega di Ennio e accedere a un ottimo posto di lavoro. Avrebbe pianto per un paio di giorni senza capire perché, per poi riporre la lettera nel comodino e vivere il resto dei propri studi accompagnata da una vertigine spettrale. Il trillo di ospiti inaspettati sarebbe diventato fonte di angoscioso fastidio, cosa che l’avrebbe spinta in pochi mesi a smettere di vendere erba. L’amico di Ennio non sarebbe mai stato contattato).
«Signore, non si può fumare qui».
In cima al più alto grattacielo della città, il giorno del salto, Ennio fumava tranquillo la sua strana canna aliena.
La cima del grattacielo ospitava un piccolo giardino pensile con piscina, alcune sdraio, e un bar dal rincaro criminale. Ogni tanto, l’impresa che occupava gli ultimi sei piani dell’edificio ci organizzava pigre feste sotto le stelle.
Steso su una delle sdraio con addosso i suoi vestiti preferiti, Ennio fissò in silenzio il timido ometto del servizio di sicurezza, che aveva passato gli ultimi dieci minuti a far finta di non vederlo.
«Non si può fare un’eccezione? È il mio ultimo giorno».
«Mi dispiace, signore, ma non posso farla fumare qui».
Ennio sorrise e gli lasciò in mano la canna; si accomiatò con cortesia, si avvicinò alla ringhiera portando con sé in un calice sottile un cocktail che gli era sembrato molto adatto al momento: Death in the Afternoon.
I pochissimi avventori cominciarono a defluire verso i piani sottostanti. L’ometto del servizio d’ordine valutava quando appartarsi per fumare il maltolto. Il barista lucidava pigramente bicchieri da cui nessuno aveva bevuto.
L’ultimo giorno, Ennio lo aveva passato con la famiglia, accompagnato dalla macabra sensazione da tempo in prestito che aveva provato insieme ad Ambra il giorno prima. Sul tardo pomeriggio si era allontanato con la scusa di un impegno in studio, assaporando un senso di levigata completezza così simile alla felicità.
Col sottile bicchiere da cocktail in mano, ebbro per la canna e la miscela alcolica di assenzio e champagne, scivolò all’indietro nel tempo, fino alle rocce del monte Panozzo, ai muscoli doloranti e ai risolini soffocati a sincopare conversazioni prive di senso. La distinta corrente d’aria che si avverte solo in cima, un punto da cui è possibile solo tornare dabbasso.
Con un sorriso di pacifica gratitudine sul volto, appoggiò il suo bicchiere in un vaso di fiori e con la fluidità con cui ci si lascia andare su un letto, Ennio Barragli precipitò verso la strada, stroncato da un infarto a circa metà del percorso.
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In copertina: Andy Warhol, Suicide (Purple Jumping Man), 1963.