In un’intervista rilasciata a Gabriela Cabezon Camara Alberto Laiseca racconta di un’infanzia spaventosa, vissuta “agli ordini contraddittori di un pazzo”, segnata dall’irragionevole condotta paterna e dalle cure “sadiche” delle governanti cui veniva affidato[1]. L’orrore provato di fronte all’irrazionale nascosto nelle relazioni umane e l’esplorazione dei controversi meccanismi del potere e del rapporto tra vittima e carnefice sono temi fondanti nella scrittura di Laiseca. Qui tenteremo di individuare alcune parole chiave relative alla messa in scena di questo orrore, allo scopo di stilare una breve mappa interpretativa capace di raccontare le modalità attraverso cui essa si realizza all’interno dei suoi due romanzi È il tuo turno e Avventure di un romanziere atonale e nei racconti della raccolta Uccidendo nani a bastonate[2].
Voragine.
Si aprì nella terra una profonda voragine che ingoiò i novecento metri cubi occupati dall’opera[3].
L’orrore nell’opera di Laiseca è una voragine, un intermezzo grottesco, uno strapiombo in cui precipita il senso. In È il tuo turno, una successione antologica di macabri racconti attraversa il romanzo, diventandone, a volte, protagonista. L’asse portante del racconto appare, allora, come un semplice pretesto per la sequenza orrorifica, che sembra fagocitare la storia, interrompendo di continuo la linea principale dell’azione – l’investigazione dell’ispettore Craguin sull’omicidio di un sindacalista – per intrattenerci con le raccapriccianti descrizioni di scene di tortura, raccontate dal custode dell’obitorio, le “Storie gotiche dell’emirato di Languria”, storie di supplizi ordinati dall’emiro, resoconti di violenze imposte alle donne, cronache di grotteschi suicidi.
Anche nella raccolta Uccidendo nani a bastonate, le storie di violenza e martirio sono narrate dai personaggi ricorrenti nel libro ma che appartengono ad altri racconti, come ne “La gran caduta dell’immonda vecchia” o ne “La mummia del clavicordo”, che scopriamo essere racconti nei racconti, narrati da Moyaresmio Iseka. Nel romanzo Avventure di un romanziere atonale l’atmosfera di racconto del terrore viene, nella prima parte, è incarnata nella figura di Doña Clota, la spaventosa fiera, padrona di casa del romanziere, donna dagli istinti incontrollabili, il corpo deforme, dotata di poteri sovrannaturali che terrorizzano il protagonista, ma nella seconda parte del romanzo, ancora una volta i racconti di sangue narrati da altri, conquistano la scena. La storia del romanziere atonale diventa, così, l’epopea del Re Teobaldo, il cui centro è rappresentato dai resoconti di raccapriccianti torture e guerre feroci, vero oggetto del racconto. Le sequenze narrative che portano sulla scena l’orrore sono, quindi, digressioni deliranti che non fanno avanzare l’azione ma, al contrario, la interrompono, per sprofondarla in un crepaccio entro il quale si ammassano i corpi delle vittime, nascondendo l’innesco narrativo della storia.
Labirinto.
In una stanza cavernosa, quasi sferica, un romanziere scriveva[4].
Ma dove si svolgono questi racconti dell’orrore? Dove accadono le sequenze cariche di tormento e risa? In un labirinto popolato da boa preistorici, all’interno di un palazzo interrato, fatto interamente di piombo, in fondo a un terribile precipizio dal fondo acuminato, situato nelle lontane province dell’emirato di Languria, dentro un profondo baratro stipato di cadaveri, nella Tecnocrazia centro centrale.
Di colpo, gli venne voglia di parlare con l’unico tipo delirante – delirante o quasi – che conoscesse, e si incamminò verso l’obitorio[5].
Carceri agghindate come sale principesche, camere di martirio con dentro assurdi macchinari che paiono giocattoli, ambienti scrigno che contengono dispositivi di morte, dove gli uomini vengono rinchiusi per vedersi infliggere le più sofisticate torture.
L’ambiente in cui queste storie prendono vita è singolare, l’azione si svolge in un luogo remoto, lontano nello spazio e nel tempo, confinato in un’area straordinaria, fisica o mentale, in cui tutto è possibile.
Le pareti e il soffitto erano curvi: il pavimento aveva al centro un profondo avvallamento, un’orrenda fossa, un abisso sulla cui cresta tavolo, sedie, armadio e romanziere facevano mostra delle loro doti di alpinisti[6].
L’ambientazione prepara il terreno alla comparsa dell’orrore perché nel luogo abitato dal racconto i personaggi e il lettore sono catturati da un fatale spaesamento, un pericoloso abbandono della ragione in forza della rappresentazione di un disordine invincibile che ha catturato il mondo e i suoi luoghi, mutandone dall’interno le leggi e anche la fisionomia. Nell’opera di Laiseca il luogo in cui si affaccia l’orrore è un mostruoso labirinto, reso esotico dalla distanza da un qualsiasi paesaggio quotidiano.
L’allestimento delle storie diventa allora mostruoso per la perdita di orientamento e il senso di sbigottimento che coglie il lettore nel visitare la scena.
Il bey della Turchia, Hashyud, fece costruire sette palazzi sovraesposti in cui rinchiuse, l’una dopo l’altra, le sue sette consorti con tutti i loro beni[7].
In queste terre tutto è possibile, anche la comparsa del mostruoso perché esse stesse sono mostruose, occupate da costruzioni non armoniche, che dominano il paesaggio con la loro spropositata grandezza. Nel vederle il lettore non può aggrapparsi a nulla di conosciuto. Lo spazio non è funzionale allo scopo, la ragione d’essere dell’edificio è sfuggente o feroce, i luoghi sembrano mimare questa arrendevolezza al delirio e alla violenza.
Squilibrio.
Per un istante infinitesimale decise di schierarsi gioioso al fianco di quel pazzo e di seguirlo fino alla morte[8].
Il commissario ispettore John Craguin: sadico amante della musica classica; il suo alter ego criminale Nonna: gangster istrionico e sanguinario; il romanziere atonale e auto sabotante; il supplice e abietto editore Ferochi; Doña Clota: vecchia pensionante, strega dagli occhi di vetro; Dioniso Kaltebrunner: tecnocratico controllore delle IDEE; Tymošenko: fondatore della setta degli hasassini; i signori Moyaresmio Iseka e Crk Iseka, e le loro dotte cenciosità; i Soria: razza discontinua di solenni merdosi, derivate parziali dell’Antiessere. Volubili, irrazionali, inclini al capriccio e alle decisioni più sconclusionate, oppure pazienti, stoici, fermi nella loro vocazione al martirio, costanti nella sottomissione – questi personaggi rappresentano un mistero capace di suscitare nel lettore un’attrazione illogica e istintiva.
Lo squilibrio, che spesso sfocia nel delirio, è il loro segno distintivo.
La vecchia denudò il suo orribile corpo, pieno di rotoli, di grasso e macchie bluastre[9].
Squilibrio che dalla mente si proietta all’esterno.
Finché non cominciavano a perdere pezzi di carne: prima i muscoli, poi gran parte degli organi interni[10].
I corpi deformati che popolano le storie di Laiseca sono solo l’effetto di un abominio che, sembra suggerire l’autore, è già nel pensiero, la manifestazione fisica di proponimenti di morte, follia, vendetta, di desideri irragionevoli o mandati interiori indecifrabili.
Segnato da questo sbilanciamento di forze è il rapporto tra Doña Clota e il suo inquilino, che viene allo stesso tempo da lei accudito e terrorizzato, e diviene così oggetto privilegiato delle sue cure, ma anche del suo risentimento. Il corpo della donna è un’apparizione mostruosa e indecifrabile, che mostra all’esterno la sua pericolosa ambivalenza.
In quel momento il romanziere aveva avuto un’altra allucinazione suscitata dall’orlo arricciato della variopinta vestaglia imbottita che la vecchia aveva indosso, dalla sua crocchia vudù e da quella sua faccia di Reggente, così simile a uno stendardo di Attila sfilacciato e scolorito dalla pioggia, dal vento e dal sole[11].
La donna è una madre amorevole perché offre cura e riparo ma è anche una reggente, perché detta legge sulla vita dei suoi inquilini, ed è una strega deforme, dalla chioma incantatrice, dotata di un potere di attrazione pericoloso e inconoscibile, capace di soggiogare.
Ne “Il cecoslovacco” il legame tra la deformità del corpo e la disfunzionalità della relazione è reso già dalle prime righe del racconto.
Lei diventava sempre più grassa, sfatta e vecchia. Lui al contrario sembrava acquistare con il tempo sempre maggior vigore[12].
La violenza tra l’uomo e la donna, l’arma usata dall’uomo che uccidere la moglie è l’uso della parola e la parola è la responsabile della degradazione tanto del corpo quanto della mente, fino alla dissoluzione dell’individuo nella morte.
…quelle parole, così assurde e trogloditicamente disposte, la punteggiatura arbitraria e la dislocazione sintattica possedevano la forza carismatica del male[13].
Creature orripilanti, equamente divise tra vittime e carnefici, i personaggi, abitano il racconto come marionette che inscenano la violenza del potere, riproducendo l’orrore che è dentro l’eterna ripetizione di una relazione sbilanciata, tra i corpi che hanno il mandato autoriale di infliggere il dolore e quelli che lo subiscono nella carne e, più ancora, nella mente, fino alla perdita della loro identità.
Parola.
E così alla fine pretesti e frasi fatte si trasformavano in allegorie divoratrici che facevano a pezzi i loro stessi inventori[14].
Mai come nei romanzi e nei racconti di Laiseca la parola uccide e ha un aspetto spaventoso, contiene in sé uno strano amalgama di potere e insensatezza.
L’orrore si insinua nelle parole, è interno alla formulazione delle leggi, stabilisce le pene, decreta la condanna o la salvezza.
Ogni colpo era accompagnato da parole pronunciate ad alta voce, la cui assurdità mi commuoveva più delle frustate: «Salamelecchi! Titillamenti! Raggiri! Smancerie!»[15].
La parola si manifesta come ordine che dà il via alla violenza e non è oggetto di discussione, non deve essere compresa per venire eseguita. Le parole sono ibridi, innesti frutto di invenzioni spregiudicate, mostri di caratteri che celano minacce.
Alcuni, per esempio, marcivano istantaneamente nel bel mezzo di una frase. È incredibile quanto potere abbia una parola usata in modo scorretto e quanta energia negativa ci sia in un errore di sintassi![16]
Sono battute di dialogo dal significato ambiguo, nomi che rimandano a macabri procedimenti, parole che dettano promesse di morte e sofferenza.
Quando gli sembrava che la manovra fosse andata a buon fine, pronunciava una di quelle parole lapidarie che lei temeva ancora di più delle sue frasi mal costruite: «Lapislazzuli»[17].
La parola è la chiave che innesta un meccanismo di terrore e dietro la sua modulazione c’è un vuoto di senso che apre le porte alla paura.
Macchina.
Quella terribile macchina causò stragi così spaventose che per poco non mise fine alla guerra da sola[18].
Per esercitare il suo dominio, chi detiene il potere si serve di strani macchinari, e altrettanto bizzarre procedure di tortura, che suscitano orrore nella vittima e un sicuro divertimento nel lettore: la dentiera d’acciaio, il veicolo per viaggiare all’interno di un tornado, il trono di ferro, il supplizio delle saldature, quello dell’uovo di bronzo, quello dello specchio, il trattamento della sedia elettronica, la Bibbia modificata che spara aculei negli occhi del lettore, un long-playing di musica d’avanguardia che istiga all’autolesionismo.
Le storie di Laiseca sono affollate di invenzioni orrorifiche, di procedure sadiche, di oggetti al servizio del male, strumenti di tortura ingegnosi che hanno lo scopo di aumentare fino al parossismo le sofferenze dei malcapitati sottoposti a tortura.
Tutta l’ultima parte dell’operazione, ovvero l’estrazione e il reinserimento dei chiodi, fu accompagnata da urla magnifiche della depravata, ingiusta e perniciosa vecchia, così che gli operatori si convinsero che stava godendo intensamente[19].
Gli strumenti del supplizio, nella loro varietà, hanno un elemento che li accomuna: realizzano un procedimento in cui la vittima viene fraintesa e il suo dolore viene schernito.
Per ordine del cadì le passarono dei rulli ardenti sul culo e sulla schiena, come se stessero dando una mano di pittura[20].
Le scene di sangue e tortura diventano, quindi, una strategia narrativa precisa, o una macchina narrativa, frutto del minaccioso assemblaggio di violenza e irrazionalità, di urla di terrore e sghignazzi, per realizzare uno sconcertante manufatto testuale di orrore e risa.
Allora decisero che, quanto meno, le avrebbero trasformato le tibie in flauti[21].
Che sia mentale o fisico, il tormento a cui sono sottoposti i personaggi è un processo che porta alla perdita dello statuto di essere umano e che trasforma il corpo in un oggetto. Il riso, con la sua carica eversiva, svela l’esistenza di un mondo in cui l’ordine morale è deragliato e la sofferenza altrui è stata trasformata in un grottesco passatempo.
Chiave.
Quando l’apparecchio venne perfezionato, i condannati semplicemente sparivano, come in una dissolvenza cinematografica[22].
Si tratta dunque di trovare una chiave che apra il terribile ripostiglio in cui si nasconde il simulacro dell’orrore nell’opera di Laiseca. Di cosa è fatto, e come parla?
Lo stile dell’autore è segnato da un’indomabile spinta alla variazione, dalla smodata pratica dell’innesto. L’impianto narrativo è sinfonico, il tono iperbolico, il suo segno distintivo è il montaggio, e proprio il montaggio è alla base della messa in scena dell’orrore.
Una terribile melodia ne annuncia l’entrata in scena, il motivo ricorrente del grottesco e gratuito esercizio del potere, e la conseguente relazione distorta tra un soggetto inerme e un altro che può esercitare il suo dominio senza nessun limite o giustificazione.
Tra le pieghe dell’azione si aprono voragini, sproloqui deliranti, racconti raccapriccianti che ci trascinano verso uno strapiombo. L’orrore è, quindi, un territorio della mente in cui tutto è vuoto di senso e tutto ride sguaiatamente e urla senza scopo. È il territorio in cui il nesso causale tra gli eventi è saltato per essere sostituito dal delirio. Dove non c’è memoria, dove la storia, con il suo carico di dolore e paura, si frantuma e perde linearità, l’individuo scompare. Una volta relegato fuori dalla definizione di umano, di soggetto dotato di identità distinta e di libero arbitrio, l’inerme diventa fantoccio, oggetto da sottoporre a pratiche macabre, manichino che è possibile trasformare, rianimare, torturare senza incorrere in sanzioni di sorta.
Ecco allora che nell’intermezzo, nell’innesto di comici racconti dell’orrore, Laiseca sembra nascondere il senso della sua narrazione, solo apparentemente delirante: una critica al potere fatta con le sue stesse armi: violenza e irrazionalità. L’orrore di cui ci parla Laiseca è, di conseguenza, una macabra e sadica pratica di cancellazione che conduce alla perdita di sé, del senso della propria identità, dei confini entro cui è possibile autodeterminarsi. Le storie di Laiseca sono storie di massacri ed efferati delitti contro l’identità.
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[1] Cabezon Camara 2011.
[2] Laiseca 2013, Laiseca 2016 c, Laiseca 2017.
[3] Laiseca 2013, 57.
[4] Laiseca 2013, 7.
[5] Laiseca 20117, 45.
[6] Laiseca 2013, 7.
[7] In “Gradinata di gioielli”, Laiseca 2016 c, 105.
[8] Laiseca 2017, 109.
[9] Laiseca 2013, 44.
[10] In “Lo stabilimento balneare dei vagabondi”, Laiseca 2016 c, 35.
[11] Laiseca 2013, 13.
[12] Laiseca 2016 c, 127.
[13] Laiseca 2016 c, 130.
[14] In “Lo stabilimento balneare dei vagabondi”, Laiseca 2016 c, 39.
[15] In “Il giardino dei mostri magnetofonici”, Laiseca 2016 c, 84.
[16] In “Lo stabilimento balneare dei vagabondi”, Laiseca 2016 c, 35.
[17] In “Il cecoslovacco”, Laiseca 2016 c, 131.
[18] Laiseca 2013, 81.
[19] In “La gran caduta dell’immonda vecchia”, Laiseca 2016 c, 15.
[20] Laiseca 2016 c, 20.
[21] Laiseca 2016 c, 21.
[22] Laaiseca 2017, 44.
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Bibliografia
Cabezon Camara 2011 = Cabezon Camara G., “Intervista ad Alberto Laiseca”, «minima&moralia», [«Revista de Cultura Ñ»], giugno 2011, traduzione di Gianluca Cataldo.
Laiseca 2013 = Laiseca A., Avventure di un romanziere atonale, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2013, traduzione di Loris Tassi.
Laiseca 2016 c = A. Laiseca A., Uccidendo nani a bastonate, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2017, traduzione di Loris Tassi e Lorenza Di Lella.
Laiseca 2017 = A. Laiseca A., È il tuo turno, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2017, traduzione di Francesco Verde.
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