Prima mattina.
Ermenegildo Filone, con il naso a un centimetro dalla tela – era miope fin da ragazzo – percorreva lo spazio che dal cielo bianco e azzurro del deserto arrivava all’oscuro buco del pozzo, passando per il gruppo di figure tra cui spiccavano Rebecca, pallida e ammantata di raso dorato, con il secchio d’acqua proteso in generosa offerta, ed Eliezer, servo di Abramo, che le recava in dono una splendida collana di perle.
«Che uno dei tanti pittori di professione della Venezia settecentesca, un umile garzone figlio di un barbiere con due anni scarsi di apprendistato presso una bottega vicina ai modi del tenebrismo tanto in voga a quell’epoca…», attaccò a pontificare il Filone.
«Tenebrismo?», domandò il conte De Dominicis, sprofondato nella sua poltrona di pelle capitonné.
«Tenebrismo, sì, quella pittura caratterizzata da atmosfere particolarmente cupe. Dicevo, che un garzone di bottega di umili condizioni abbia potuto, in così breve tempo, distaccarsi dalle tecniche del suo maestro…»
«Ah! E chi era il suo maestro?». Il vecchio conte stava tormentando con l’unghia un brandello del bracciolo bisunto.
«Mah, un pittore di poco conto, dicevo, che abbia potuto distaccarsi così in fretta e raggiungere una chiarezza luministica, una rotondità della figura e una resa levigata delle superfici tali da far letteralmente uscire dai suoi quadri i soggetti rappresentati, è cosa assai singolare», concluse soddisfatto il Filone con le braccia conserte e una mano a far da leggio al mento.
«Mmh», fece il De Dominicis. Non mangiava che insalata e tonno in scatola oramai da più di dieci giorni e anche il gatto spelacchiato che lo pedinava di continuo stava cominciando a dar segni d’insofferenza per la scarsità e la monotonia di quella dieta.
Tra sé e sé Filone bofonchiò lisciandosi la barba: «Dovrei lavorare parecchio per rimuovere la coltre di fumo e sporcizia che gravano sulla pittura come un sudario, ma alla fine il risultato potrebbe essere piuttosto sorprendente.»
Il nobile si stava grattando l’orecchio destro con il mignolo inanellato e nel frattempo si agitava sulla poltrona, ma a quell’ultimo incauto commento del Filone si ridestò.
«Ah, signor professore, sapesse poi COME questa preziosissima tela di Gregorio Lazzarini è giunta fino a me… la donna bianca con la collana di perla che seguii…», a quel punto fece una pausa studiata e sgranò il più possibile gli occhi.
Il De Dominicis, sfasciato e bislacco com’era diventato, provava un sincero ribrezzo per quel quadro e non gli ci volle un grande sforzo per rabbrividire alle sue stesse parole.
«Suvvia, conte, non vorrà prendermi per il naso con queste baggianate?». L’antiquario alzò lo sguardo al soffitto, soffiò con ostentazione dalle narici e agitò nell’aria la mano come se volesse scacciare un moscone.
Il conte atteggiò lo sguardo come per pronunciare un vaticinio e attaccò a raccontare con voce distante. «Correva l’anno 1966. Quel pomeriggio mi ero recato nei pressi della Basilica dei Santi Trifone e Agostino in Campo Marzio per certi miei affari, quando dall’angolo del palazzo opposto a dove mi trovavo sbucò in pieno sole una creatura bianca e lucente che sembrava provenire da un altro mondo. La donna camminava come trasportata da un vento leggero e si guardava spesso alle spalle. Mi passò accanto senza vedermi, rigirando tra le sue mani affilate una collana di grosse perle. La potenza di quella visione mi avvinse a tal punto da non riuscire a oppormi all’impulso momentaneo di seguirne la scia. Salii le scale della chiesa di corsa e mi ritrovai all’ombra e alla frescura dell’atrio.»
Il Filone batté un piede a terra con ostentata irritazione. «Tremila euro, non un soldo di più! Farò venire il fattorino domani mattina.»
«Giammai! Non posso separarmi da questo dipinto!», gridò il vecchio.
L’antiquario, avvezzo com’era al commercio, non si lasciò turbare dalla piega che stava prendendo la conversazione; peraltro la storia del conte cominciava a stuzzicare la sua curiosità. Rimase un attimo immobile, poi girò sui tacchi e si diresse verso l’unica porta finestra che avesse i vetri e gli scuri spalancati. «Vada avanti, conte, mi racconti il resto, per favore.»
Il vecchio sorrise e dondolò il testone canuto. «Dunque, dove ero rimasto…ah, sì, l’atrio oscuro della Basilica. M’incamminai lungo una delle navate laterali aguzzando gli occhi per distinguere le forme delle cose, accecato com’ero dalla canicola pomeridiana, ma della donna misteriosa nemmeno l’ombra. Mentre percorrevo a tentoni il pavimento di marmo, la mia attenzione fu catturata dall’oro delicato di un manto e dalla rotonda opalescenza delle perle di una collana provenienti da un quadro appoggiato al pavimento.»
«Rotonda opalescenza? Ohibò!». L’antiquario si girò verso la stanza e alzò un sopracciglio.
«Sì, sì, la rotonda opalescenza di una collana di perle in tutto simile a quella che portava la mia Dama Bianca ma era lì, su quel dipinto» e indicò il quadro col dito rinsecchito e tremante.
Lo sguardo allucinato del conte fu il segnale che Filone aspettava per interrompere il flusso di coscienza. «Tremila e cinquecento e non se ne parla più, d’accordo?».
«Eh?», il vecchio girò la testa spaesato.
«Quanto posso darle per la Rebecca al pozzo, ma non un soldo di più.»
«Fu il parroco che mi vendette il quadro, dopo che lo corruppi con ogni mezzo a mia disposizione.»
L’antiquario era arrivato al limite della sua tolleranza e picchiò un colpo sulla spalliera della poltrona: «Allora siamo d’accordo, tremilacinquecento e domattina il fattorino. Addio!».
Filone, curvo sotto il peso della sua biblioteca mentale, percorse a grandi passi lo spazio che lo separava dalla porta dello studio, ponendo fine al rimembrare del vecchio.

Seconda mattina.
Aveva sistemato personalmente la stanza, congedato la persona di servizio e dato indicazioni al portiere affinché nessuno lo disturbasse.
L’inizio di un restauro era per lui un momento speciale, come l’inizio di un amore, quando il pensiero coglie ogni occasione per precipitarsi a quello e si vorrebbe rallentare tutto il resto.
Posti gli strumenti di lavoro in bella mostra sul tavolaccio di legno e il quadro scorniciato sul cavalletto, cominciò lentamente a rimuovere la polvere con un pennello morbido. Prima per un verso, poi per l’altro, lavorava immerso nel basso ronzio e nella luce acerba della mattina. Aveva spalancato il finestrone alle sue spalle per sentire la frescura che saliva dal gruppetto di alberi al centro del crocevia.
Quando terminò con la polvere, prese il cotone e l’essenza di trementina per passare all’eliminazione della patina. Cominciò dall’angolo in basso a sinistra e procedette a zig zag verso l’angolo in alto a destra, ma dopo poco si bloccò con la mano a mezz’aria, si alzò e si allontanò dalla tela. La collana, la rotonda opalescenza delle perle. Rise. Tornò al cavalletto e con movimenti concentrici cominciò a tamponarle una per una, finché la lucentezza del gioiello non bucò la tela. Girò sullo sgabello e con un colpo del piede fece cadere la latta di trementina che aveva posato sul pavimento. Una vampata di rabbia gli colorò il volto. «Maledetta collana!» gridò, e questo lo irritò ancor più dell’aver rovesciato la latta. Scavalcò la pozza con un balzo, corse nell’altra stanza, s’infilò scarpe e giubbetto e uscì.
Con le mani nelle tasche e la testa incassata nelle spalle, si diresse al negozio di Belle Arti. Ripensò al quadro: la curva della coscia di Eliezer accompagnava lo sguardo facendolo scivolare a terra dove si trovava uno scrigno di un bel blu Oltremare. Il portagioie. Appena rientrato si sarebbe dedicato a quello. Camminava rapido e attraversò una piazzetta poco frequentata che conosceva bene. Alzando lo sguardo al muro di fronte a sé, vide un portone che non aveva mai notato. Era blu, sbrecciato e sgangherato, chiuso con due assi di legno inchiodate a X. PORTA GIOIE, la scritta in nero era stata pitturata di fresco all’altezza dell’architrave. Continuò a camminare, ma il suo sguardo rimase agganciato alla porta inchiodata, tanto da torcergli il collo. All’ultimo si girò, schivò il muro e si deterse il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Una donna che incrociò il suo cammino lo stava fissando e lui d’istinto abbassò gli occhi, guardandosi le mani sudate e sudice. Si avvide di aver superato il negozio, quindi tornò sui suoi passi, individuò la vetrina e puntò all’ingresso.
Il buio e il silenzio del negozio lo calmarono. Scosse il capo sfregandosi le tempie, si aggiustò la giacca con le mani e facendosi largo nella selva di latte colorate, impilate dappertutto, si schiarì la voce: «C’è nessuno?»
«Buongiorno professore! Mi lavo le mani e sono da lei.»
«Sono venuto a comprare altra trementina.»
«E cosa ne ha fatto di quella che le ho venduto qualche giorno fa?». L’uomo uscì dal retrobottega con un camice sgualcito su cui si stava asciugando le mani e gli occhiali a mezza testa che con un gesto fece piombare sul naso.
Filone era impalato davanti al bancone, si reggeva con le mani contratte.
«Non sono affari suoi», rispose irritato.
«Oh, no di certo!», replicò il negoziante con un mezzo sorriso di scherno.
Filone credette di percepire un sovrasenso nelle parole dell’uomo. «Cosa intende dire? Io non mi lascio intimidire da nulla, sa?» reagì d’istinto.
«Perle di saggezza, professore. Perle di saggezza!» disse con un sorriso il negoziante e gli allungò la trementina. Il professore sentì un brivido gelato percorrergli la schiena, pagò trafelato e ritornò allo studio quasi correndo.

Una volta seduto di fronte alla tela, cercò di placare il tumulto dei pensieri inspirando a pieni polmoni. Poi lo sguardo gli cadde sul pozzo e sul secchio, sicché sollevò il mento e cominciò a picchiettarsi la bocca con l’indice della mano destra. Un enigma… etimologia della parola enigma: parlare copertamente, in modo velato. «copertamente», che avverbio tremendo. E poi avverbio, vicino al verbo, brutta bestia l’avverbio. Scosse la testa come un animale che si sgrullava l’acqua di dosso.
Con il cotone tra le dita si diede a ripulire la base del pozzo. Il lavoro lo placò, diradò i pensieri, sospese il tempo, lo rimise al mondo. Non si avvide del sopraggiungere della sera, la percepì di colpo dall’odore che arrivava dalla finestra ancora spalancata, l’odore fresco e profumato di una notte di inizio estate.
Si alzò dallo sgabello per sgranchirsi le membra rattrappite. Non aveva fame, voleva solo buttarsi sul letto e spegnere il cervello, riposare; andò in camera e si coricò vestito, ma sdraiato nel buio capì che non avrebbe chiuso occhio. Più lottava con il sonno, più il sonno gli sfuggiva. Ogni tanto guardava l’orario dalla radiosveglia, le 2 e 30, le 3 e 43, le 4 e 58. Sentiva un’oppressione in mezzo agli occhi, come se un chiodo gli fosse stato conficcato proprio in quel punto. Si sfregò più volte la fronte, cambiò di nuovo posizione, alla fine si arrese all’evidenza. Si alzò per prepararsi il caffè. Sorseggiò piano il liquido bollente davanti al quadro, poi si lavò il viso e cercò una maglia pulita nella semi oscurità della stanza.

Terza mattina.
«Buongiorno professore!» gli gridò il portiere da dietro il vetro. «Dove se ne va così presto?»
Il professore non lo degnò di uno sguardo, infilò il portoncino e si avviò a larghi passi verso la metropolitana. Doveva raggiungere in fretta la biblioteca. Se il quadro nascondeva un segreto, qualcuno doveva pur averlo riportato da qualche parte, finanche in una noterella a piè pagina. Le volpi sfregano il pelo contro i tronchi degli alberi. Gli sarebbe bastato fiutare una pista e non avrebbe mollato la presa fino a risultato ottenuto.
Scese le scale della metrò, superò i tornelli facendoli scattare con la tessera che aveva acquistato e prese al volo il convoglio che stava per chiudere le porte. Si trovò pigiato in mezzo ai pendolari che andavano al lavoro. Ruotò più volte su se stesso come un punteruolo per scavarsi lo spazio vitale, alzò il viso al soffitto quanto più poté senza rompersi il collo e il dondolio del vagone lentamente ebbe la meglio sulla sua tensione. Riprese a mulinargli in testa l’immagine del pozzo, i mattoni smangiati dall’umidità, il buco nero, il secchio con la corda in mano a Rebecca. Il buco nero, l’acqua alle caviglie, le mani che tastavano il muro, la faccia rivolta verso l’alto a cercare la luce, un senso di disperazione e di abbandono definitivi, nessuno lo avrebbe trovato mai più.
La corsa del treno si arrestò di colpo e la luce elettrica saltò. Le persone intorno rumoreggiarono e si mossero come una marea, spintonando per farsi spazio tra braccia e gambe in moto convulso.
Filone mise le mani intorno alla gola, stava soffocando, l’ondata di panico lo stava soffocando. Senza volerlo, gli uscì un grido acutissimo e in quell’istante tornò la luce. La metropolitana si riavviò lentamente per poi prendere velocità e filare verso la stazione successiva. Scese fendendo la folla e cercando di guadagnare l’aria il più in fretta possibile.
Stava tornando a casa. Che patetico tentativo, da vero imbecille. Camminava guardandosi nelle vetrine, un’ombra scura intorno alla bocca, il viso smunto, i capelli in disordine, i vestiti ciancicati. Chi era quello che vedeva? Muro, vetrina, muro, vetrina, portone chiuso, portone aperto. I soldi… ne avrebbe fatti parecchi a quadro restaurato. In mente solo quelli, ecco. I portoni delle case gli sfilarono accanto uno dopo l’altro, cominciava a riconoscerli, li conosceva tutti, era quasi giunto a casa. Poi una frustata di acqua gelata lo colpì in pieno volto, bloccandogli il passo e facendolo barcollare.
«Mi scusi tanto signore, sono davvero dispiaciuta. Pensavo non passasse nessuno.» Una donna in ciabatte si era sporta dall’ingresso di un palazzo con un secchio in mano. «Lavo il marciapiede, sa!»
«Stupida donna!», le sputò contro il professore a mezza bocca, ravviandosi i capelli bagnati e riprendendo a camminare in fretta verso la solitudine della sua dimora.

Infilò la chiave nella toppa e la girò più volte, spalancò la porta e poi la sbatté dietro di sé. Si diresse verso il bagno e afferrò un asciugamano per strofinarsi i capelli; si sfilò la maglia e rimane a torso nudo.
Non poteva più attendere, doveva affrontare Rebecca. La guardò nascosta dietro al vetro opaco del tempo. Intuiva la bianchezza abbacinante delle sue carni, la rotondità dei fianchi adolescenti, lo sguardo serio, il viso arrossato per lo sforzo della corda del pozzo, i capelli raccolti dolcemente allentati, la mano rivolta verso l’alto ad accogliere il dono. Prese cotone e trementina ma esitò: toccare la tela lo sgomentava. Mentre lavorava, sentiva la testa vorticare e le spalle incurvarsi per la tensione, sentiva le mani e la lingua inspessirsi come sughero. La mano di Rebecca gli afferrò il polso, lo tirò a sé, e la sua bocca – quella bocca! – gli sfiorò l’orecchio. Lei disse «Salvami!». Il cuore di lui mancò un colpo, una scossa lo percorse come l’onda lunga di un maremoto e le sue braccia ne seguirono il movimento verso i fianchi della ragazza; con le ultime forze rimaste la sollevò ed entrambi caddero a terra. Lei aveva uno sguardo trionfante e si sedette a gambe aperte sul suo corpo nudo.
Lui ora guardava la scena seduto sul tavolaccio da lavoro. Vedeva un uomo – chi era quell’uomo? – afferrare la gola di Rebecca e spingersi in lei con violenza. Lui gridò «No!» e batté la testa sulle assi di legno del pavimento con un tonfo sordo che lo riportò indietro dai recessi del suo inconscio.
Aprì le palpebre, si sollevò a sedere, era solo. Rebecca guardava oltre, piatta, immota, dentro alla tela; aveva solo la bocca socchiusa, laddove la trementina l’aveva liberata. Lui si alzò con lentezza e si levò la polvere dai pantaloni. Aveva deciso: avrebbe distrutto il quadro.

Ultimo pomeriggio.
Filone camminava per strada impacciato dal grosso involucro sotto il braccio. Lo teneva stretto dall’intelaiatura di legno e appoggiato alla gamba, accompagnando con esso il passo. Era diretto al Tevere. Il fiume avrebbe trascinato il quadro lontano da lui, fino al mare, e il mare lo avrebbe inghiottito per sempre nelle sue acque. Camminava per le strade deserte sotto il sole cocente. Tutti stavano ancora affrontando il pranzo o giacevano addormentati nei salotti, all’ombra delle persiane socchiuse. La strada che stava percorrendo era in salita e per lo sforzo cominciavano a dolergli le braccia e le spalle, ma non voleva fermarsi, essendo oramai prossimo al ponte da cui avrebbe gettato la Rebecca. A ogni passo l’involucro si faceva più pesante e una spossatezza che non riusciva a contrastare gli impediva quasi di proseguire, di alzare le braccia oltre il parapetto del ponte. Si fermò e si sporse. Sentiva il bruciore del ferro bollente contro il suo corpo inerme e un’oppressione al petto che gli bloccava il respiro. Gli parve di essere sotto una campana di vetro da cui l’aria era stata risucchiata. Poi, chissà come, si trovò in piedi sulla balaustra, mollò la presa del quadro, ma il vuoto si stava prendendo anche lui. Precipitò nel nulla fino a che varcò la soglia, la materia in cui si ritrovò immerso cambiò di stato. Il gelo lo colse di sorpresa, mentre un peso insopportabile gli faceva implodere lo sterno costringendolo ad agitare mani e piedi come un ragno tra le dita di un uomo. La luce tremolante del sole sull’acqua si allontanava e il buio lo avvolgeva come un sudario. Poi, d’improvviso, una sorsata d’acqua dal naso si aprì un varco verso i polmoni costringendolo a spalancare la bocca e ponendo fine all’assedio. Le acque del Tevere lo stavano trascinando verso il mare e il mare lo avrebbe inghiottito per sempre.

Un uomo se ne stava appoggiato con la schiena contro la ringhiera, la mano a conchetta sugli occhi per proteggersi dal sole; guardava la gente assieparsi lungo il parapetto opposto del ponte.
Si sporgevano e gridavano.
«C’è un corpo nel fiume, c’è un corpo che galleggia!»
«Ma no, è un involto di vestiti e c’è pure una scarpa, là, sulla destra.»
«Dove? Non vedo.»
«Vi dico che è un uomo, guardate i capelli, è un uomo annegato!»
«Ha ragione, è un morto annegato.»
«Sarà scivolato mentre pescava.»
«No, si è buttato dal ponte. Qualcuno vada a chiamare la polizia.»
L’uomo si avvicinò, ma la calca era tale che dovette spintonare per arrivare a sporgersi anche lui. Subito non riuscì a vedere nulla perché il sole giocava a pallamuro con l’acqua, poi aveva seguito con gli occhi il gesto dell’uomo che avevo accanto e vide il proprio cadavere gonfio come il gozzo di una rana galleggiare arenato contro un tronco. Si girò e guardò in faccia tutte quelle persone, ma loro non lo videro. Solo all’ultimo, aveva incrociato lo sguardo di una donna, il viso bianco, i capelli lucenti, le mani diafane che tormentavano una collana di perle.

Ermenegildo Filone morì un pomeriggio di giugno, quando il blu pareva smarginare dallo spazio del cielo e tutti gli alberi di Roma erano sfuocati dal soffio del Ponentino.

***

In copertina: Gregorio Lazzarini, Rebecca al pozzo.