Élénoire sembra lì da tempi immemoriali, ristagna nella sua casa piena di gatti immondi, e forse continua persino a regnare da regina madre sulla fattoria. E dire che ha solo settantotto anni, Signore Iddio, sarebbe capacissima di vivere ancora per una trentina… E in ogni caso, che cosa cambierebbe? Niente. La nonna potrebbe anche morire all’istante e non cambierebbe niente. Il male è fatto, e da così tanto tempo, radicato in loro come questa terra di Puy-Larroque, e Catherine vi ha inciampato, in quelle radici, vi è rimasta impigliata, in quella ragnatela, avviluppandosi ancora di più a furia di dibattersi. Spesso preferirebbe non pensarci, non ricordare: gli errori, i sogni di prima, le speranze riposte nella vita, mettere tutto quanto in un sacco e seppellirlo in profondità nel fango che ora le funge da coscienza.
Regno animale è un romanzo che riesce a essere allegorico facendo a meno di metafore, astrazioni, concetti. I protagonisti di questa saga familiare che si protrae per settant’anni nascono e si sviluppano in un contesto di rigore spartano, consacrato al lavoro e soprattutto all’utile. Passano le generazioni, ma la totale abnegazione alla capitalizzazione della terra, all’inseguimento di una minimizzazione delle spese per una massimizzazione dei risultati rimane caratteristica principale della famiglia fondata dalla contadina Élénoire e dal cugino Marcel, da lei sposato dopo che questi è tornato sfigurato e sofferente dall’inferno della Prima Guerra Mondiale. Cambiano le circostanze, cambiano i tempi, la fattoria diventa un allevamento di maiali, ma l’istinto allo sfruttamento di tutto ciò che si ha intorno in nome della produzione si inasprisce, arrivando alla negazione (soppressione?) di ogni debolezza, di ogni deviazione da una norma, da un modo di essere efficientissimo e autodistruttivo, fino all’incapacità di comunicare, di condividere, di amare.
La logica dello sfruttamento è lineare, crudele e reciproca: se l’uomo cerca di piegare i ritmi naturali ai suoi fini, la Natura gli dimostra la sua potenza beffandolo, mostrandogli quanto sia stupida e arrogante la sua sete di controllo, mettendolo di fronte a forme di dolore via via sempre più crudeli, cercando di far capire a quello che sembra il più stupido dei suoi figli chi è che comanda.
Non crede in nulla, tranne che in se stesso e nel valore del lavoro. Eppure ha sbeffeggiato il successo scolastico dei figli, reputando che avrebbe dovuto essere prerogativa di una donna, di una madre, e che a loro bastava e avanzava saper leggere, scrivere e far di conto. Del resto, non appena i figli hanno compiuto sedici anni li ha tolti da scuola perché potessero dedicarsi a tempo pieno ai lavori della fattoria.
È interessante notare il modo in cui, in questo romanzo, ogni forma di benessere provenga dal caso mentre il dolore si mostri ineludibile, quasi atto a ridimensionare chi lo prova e a mostrargli il suo posto nel mondo. I protagonisti si divorano l’un l’altro nel tentativo patetico di liberarsi dalla propria inadeguatezza attraverso il controllo, attraverso una routine che diventa sempre più povera di riti e sempre più meccanica, alienata, folle. Il fenomeno naturale più feroce è niente rispetto al male che l’uomo riesce a infliggere a se stesso; ed è tragicamente ironico che tale male nasca proprio per fuggire dal dolore, dalla sofferenza, dalla solitudine, dalle questioni in sospeso, ovvero dalla finitezza e dall’inadeguatezza della condizione umana.
La genitrice, donna secca con la nuca rossa e le mani laboriose, non ha attenzioni superflue per sua figlia. Si accontenta di educarla, di trasmetterle il sapere dei compiti quotidiani che incombono al loro sesso, e la bambina ha imparato presto a seguirla in ognuna delle sue faccende, a riprodurne i gesti e le posture.
Il romanzo di Jean-Baptiste Del Amo è la descrizione gelida e quasi matematica di due mali che si contrappongono: quello imparziale della Natura contro quello rovente e sadico della razza umana.
Jean-Baptiste Del Amo
Regno animale (2016)
Trad. it. Margherita Botto
Vicenza, Neri Pozza, 2017
pp. 408