Questo libro (Luciano Funetta, Dalle rovine, Tunué, 2015) non ha più bisogno di presentazioni. Qui è la recensione di Antonio Russo De Vivo per CrapulaClub. Ora facciamo una cosa diversa: ci immergiamo.
Rivera e noi
Una storia di fantasmi, dice Funetta di Dalle rovine.
“Vuoi farmi credere che sei morto per soffocamento, Juan Preciado? Ti ho trovato io, in piazza, molto lontano dalla casa di Donis, e vicino a me c’era anche lui: diceva che stavi facendo il morto […]”
“Hai ragione, Dorotea. Mi hanno ammazzato i mormorii.”
Qui Pedro Páramo, Juan Rulfo: Juan Preciado viene a Comala per far pagare a suo padre, Pedro Páramo, l’abbandono in cui l’ha tenuto. Preciado prende a scavare nel passato: quest’atto scoperchia la morte, le anime in pena dei morti di Comala e della Mezza Luna. Nell’atto di scoperchiarli, Juan Preciado genera una seconda voce narrante, in terza persona, e lui stesso comincia una lenta eclissi, fino a scomparire. I mormorii uccidono il narratore (Juan Preciado) per prenderne il posto; da questo omicidio viene fuori la voce del morto, la morte fatta presenza.
È in questo stesso punto che si colloca il noi che accompagna (di più: che racconta) Rivera in Dalle rovine? Sì e no, in parte. Non si tratta, qui, di fare la bibliografia di Funetta, quanto di riconoscere una traccia. La voce, infatti, in letteratura, se non è propriamente l’unica cosa che conta, è l’unica che parla.
L’orrore è la letteratura
Il porno, come figura e come industria, è tema di svariate opere letterarie negli ultimi anni (ricordiamo ad esempio: I canti del caos di Moresco, La macinatrice e Contronatura di Parente, Putas asesinas e 2666 di Bolaño); la sua funzione in queste opere tuttavia è mutevole. Se in Moresco e in Parente il gore fornisce una cifra espressiva, un registro linguistico e figurativo, in Bolaño il porno è solo un’altra funzione dell’orrore, come la politica. L’essenza dell’orrore, invece, è la dilatazione dell’immaginario che l’arte produce nelle teste degli uomini.
“E sai qual è la cosa più stupida che fanno gli uomini?
Rivera ci pensò. All’improvviso si ricordò di una volta in cui aveva portato suo figlio appena nato in spiaggia.
“Riprodursi”, disse.
“Produrre arte”, disse Traum. (Dalle rovine, p. 145)
Ecco allora che l’inseguimento, il pedinamento della scrittrice real-visceralista Cesarea Tinajero nei Detective Selvaggi, e dello scrittore tedesco Benno Von Archimboldi/Hans Reiter in 2666 si trasformano, in quanto ricerche letterarie, in viaggi alla radice dell’orrore. La vicenda di Alexandre Tapia, in Dalle rovine, è della stessa natura? Ancora una volta: quasi, sì e no. Tapia, infatti, è l’assediante prima ancora di essere il ricercato. E in ogni caso, come ne La lettera trafugata di Poe, il vero detective è sempre, prima di tutto, un poeta.
Dentro e fuori
Fortezza è una città fittizia. Più avanti si scopre essere una città di fantasmi. Più avanti, soprattutto, si scopre essere una città italiana. La vaghezza dei riferimenti interni si disinnesca quando il mondo di fuori viene nominato: Barcellona, gli Stati Uniti, i Balcani. Tuttavia, l’Italia non è mai nominata: l’unico riferimento preciso riguarda l’italiano. Ripetiamo: ciò che conta – ciò che parla – è la voce e la sua lingua.
Il pitone e la Pizia
“Nessuno capisce” disse Traum. “I cani capiscono. Gli uccelli che mangiano i corpi dei morti. E i serpenti, Rivera. Loro capiscono, tu lo sai. Dal giorno in cui il primo serpente scese strisciando dal monte Parnaso, i serpenti e le altre bestie che abitano l’oscurità sono destinate a capire e a morire. E muoiono per mano di coloro che vivono alla luce del sole.” (p. 123)
Rivera il fatato non ha addomesticato i serpenti, li ha allevati. La sua capacità di interazione con le bestie che abitano l’oscurità fa di lui un medium, un mezzo serpente egli stesso – per questo motivo, Rivera deve lasciarsi assediare dall’assediante Tapia. Di più: sia Tapia che Rivera sono indagatori e indagati, si appartengono.
Si appartengono e basta:
“Kafka, il vostro Kafka, “ disse Tapia “era malato, ma sapeva quello che faceva. Lo sapeva troppo bene, e una volta ha scritto una storia di una sola frase, su una gabbia che va a cercare un uccello”. (p. 101)